da Elena Mascioli | Feb 23, 2016
(Teatro India – Roma, 17/28 Febbraio 2016)
Roberto Latini, alla regia e in scena, è il capo-cordata di una scalata al teatro, quella de I giganti della montagna di Pirandello. Un adattamento e una rappresentazione che, nel suo dispiegarsi, si trasforma in discorso sul teatro stesso. Sovraimpresso, sul velo che separa impercettibilmente la scena dal pubblico, l’unico strumento utile all’ascolto e alla visione, e il solo possibile ponte di comunicazione: Immaginazione. La bellezza dell’opera è tale che nessuno guarda agli attori. In scena, infatti, le parti sono invertite, la luce (curata da Max Mugnai) e la musica elettronica (a cura di Gianluca Misiti) si fanno protagoniste, dialogano, trasformano, danno rilievo e spessore, sia fisico che metaforico, allo spazio, e lo fanno divenire Luogo. Dove m’avete portato? È un teatro questo?(…) Apparenza per apparenza, noi facciamo i fantasmi. L’attore corre, si affanna, alla ricerca della luce, prova a riempire il luogo, e quei fantasmi, con la propria corporeità, li abita con le voci amplificate da quel microfono che, nel teatro di Roberto Latini, ha perso ormai la connotazione di oggetto di scena. Ci vogliono i poeti per dar coerenza ai sogni. E ci vogliono attori, registi e drammaturghi sui trampolini, qualcuno che con coraggio prenda sulle sue spalle i giganti della montagna, si incarichi di mostrarceli nel loro essere fantasmi, e poi sappia, come avviene nella seconda parte dello spettacolo, immaginare, rielaborare e cucire, a partire da quegli orli della vita dove si è fermata l’opera incompiuta di Pirandello, una proposta. Qualcuno, come Latini, che ci aiuti a dare una risposta alla domanda con cui Pirandello, interpella sé stesso, il Teatro e il Pubblico: ”Tu non hai paura?”
data di pubblicazione:23/02/2016
Il nostro voto:
da Elena Mascioli | Feb 8, 2016
(Teatro Vascello – Roma, 4/7 Febbraio 2016)
Ubu Roi. Ovvero del futuro prossimo. Così Roberto Latini, che ne ha curato l’adattamento e la regia, parla del testo di Alfred Jarry, riproposto a quattro anni di distanza dalla sua rappresentazione al teatro India nel 2012. Fino allo scorso 7 Febbraio è stato possibile rivederlo in scena al Teatro Vascello, con un grande successo di pubblico, nella produzione di Fortebraccio in collaborazione con Teatro Metastasio Stabile della Toscana. Ubu Roi, e soprattutto l’adattamento e la regia di Latini, sono Teatro e non letteratura, non rappresentazione, ma “una condivisione, un’aspirazione”, il luogo d’incontro “della relazione possibile e non della convenzione stabilita”. Ubu Roi supera la palude della vuota distinzione tra sperimentazione e tradizione, e diventa, per precisa ammissione e dichiarazione dei Latini, la sua presa di responsabilità di una proposta, di un teatro che concede, ad ogni scena, libertà creativa, che rende dunque possibile la relazione tra Padre e Madre Ubu (memorabile l’interpretazione di Ciro Masella) e la catena al collo di Carmelo Bene/Pinocchio (interpretato dallo stesso Roberto Latini), di un microfono che dà voce allo sfrigolio delle salsicce come ai versi di Shakespeare dalla Tempesta “Seppure voleste colpire, le vostre spade sono ora troppo pesanti per le vostre forze. Non potreste nemmeno sollevarle”. Ma ancora, visivamente, nella resa scenica di quello che è un testo che ha aperto la strada al Teatro del Novecento, ci è parso di ravvedere, accanto agli attori, un attraversamento nel cinema di Kubrick. Sempre Latini: “Gli Ubu sono un’alterazione e una capacità insieme. Dalla loro comparsa sulla scena si può stabilire un punto di non ritorno. E quindi anche di appartenenza, o partenza nuova.” Dopo aver visto questo Ubu Roi, siamo pronti a dichiarare la nostra appartenenza ad un teatro che si fa responsabilità, che diventa partenza nuova, sotto la guida di uno degli attori e registi più interessanti della scena contemporanea.
data di pubblicazione:08/02/2016
Il nostro voto:
da Elena Mascioli | Feb 5, 2016
8 protagonisti, ottavo film di Tarantino, 888 presunti posti nella sala allestita nel Teatro 5 di Cinecittà. La sveglia presto di sabato mattina per assistere alla proiezione in 70mm e lingua originale (per tutto il mese di Febbraio, accorrete gente!), dopo breve momento “selfie” davanti alle sagome dei protagonisti o alla ricostruzione di un ipotetico scenario del film, con tanto di finta neve a terra, e bancone da saloon con macchine pop-corn al posto del whisky. Il popolo di Tarantino affolla il teatro, i Tarantiniani, in media molto giovani, conoscono le battute dei suoi film a memoria e lo reputerebbero un genio anche se si filmasse mentre fa colazione. Ci sono poi quelli che per mostrare simbiosi col regista e le sue scelte decidono di vestirsi a tema, in pieno stile western, con tanto di cappello, e forse, nascosto dietro le pieghe della giacca, un lazo. E poi i cinefili, gli appassionati, i curiosi. Immagino chi sta leggendo questa recensione: dai! Parlaci del film! Che ci importa del pubblico e di queste informazioni di contorno! Ma il pubblico è fondamentale, perché è il destinatario del racconto, è quell’auditorio di cui Tarantino ha bisogno, per collocarlo davanti al fuoco che scalda il rifugio in cui si svolge la maggior parte del film, e davanti a cui, sapientemente, Quentin sistema due poltrone. Non è un caso che una delle due poltrone venga occupata dall’anziano Generale Gen. Sanford Smithers, il volto di Bruce Dern, un personaggio che, come saprà chi ha visto il film, in fondo in fondo è più estraneo alla vicenda rispetto gli altri, è uno che passava di là, la rappresentazione sullo schermo di colui che assiste ed ascolta. Per l’altro auditorio, quello che è in sala, Tarantino sfodera tutte le sue armi (mai termine più appropriato!): dipana una narrazione perfetta, si fa re dello storytelling, per usare un termine molto in voga, e lo fa attraverso una scrittura magistrale sotto tutti i punti di vista, in cui il racconto avviene per immagini (basterebbe vedere l’apertura del film, in sequenza, per una decina di volte, per essere già abbondantemente conquistati), ma anche attraverso i dialoghi (quel “Now my Nubian friend” pronunciato da Tim Roth/Oswaldo with a crisp British accent merita da solo l’Oscar!), la musica splendidamente congegnata da Morricone per dare risalto a ciò che la narrazione sta mettendo in campo e dei volti che sembrano nati solamente per poter incarnare un Magg. Marquis Warren (Samuel L. Jackson). L’intervallo interrompe la visione dopo due ore volate come due minuti, e dopo la pausa il narratore riprende le fila del racconto, ammicca al pubblico con la sua voce fuori campo, lancia un flashback e ci aiuta ad immergerci nuovamente in una storia che forse sappiamo già come andrà a finire. Ma non importa, perché alla fine saremo in grado di recitare a memoria una lettera scritta da Lincoln…ma questa è un’altra storia!
data di pubblicazione:5/02/2016
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da Elena Mascioli | Gen 15, 2016
L’accortezza di cercare e fruire della versione originale dell’ennesima versione della tragedia di Shakespeare, Macbeth appunto, per la regia di Justin Kurzel, non ha garantito al film il raggiungimento del gradimento, o almeno non per colei che ne scrive. La scelta di virare verso il rosso, sia in senso letterale per quel che riguarda il colore che avvolge il finale e altre scene di battaglia, sia in senso metaforico per l’accento posto sulla crudezza dei combattimenti, dei ferimenti e delle uccisioni cruente, è sembrata didascalica, volutamente ad effetto, così come abbastanza vetusto è sembrato il rallenty usato nei combattimenti iniziali.
L’accento della riduzione è interamente virato sul personaggio interpretato da Fassbender, togliendo, a nostro parere, alla Lady Macbeth che qui ha il volto della Cotillard, quella centralità nell’innesco della vicenda e nella esplicitazione della bramosia di potere, che secondo noi appartiene e caratterizza la tragedia del Bardo.
Probabilmente il film sconta gli inevitabili paragoni con un testo e le sue innumerevoli rappresentazioni teatrali e riduzioni cinematografiche e, proprio per questo motivo, risulta un po’ troppo ambiziosa (e per questo paradossale, per una tragedia che ha come protagonista la brama di potere) la scelta del regista di misurarsi, non avendo alle spalle una lunga esperienza e la preparazione e il talento di un Orson Welles, con un testo di tale portata.
data di pubblicazione 15/01/2016
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da Elena Mascioli | Gen 15, 2016
Tremano i polsi a scrivere di Francofonia, il film di Alexander Sokurov presentato in concorso alla Mostra di Venezia 2015. Un timore reverenziale dovuto alle vertiginose altezze raggiunte dal film e da tutta la produzione artistica del regista russo, e di cui, da spettatori estasiati, sentiamo di cogliere un frammento di luce, di godere della riflessione ma anche della pura visione, con la consapevolezza di non essere in grado, forse, di prendere a piene mani tutte le citazioni e sollecitazioni che l’opera vorrebbe suggerire. Ma il regista ci viene incontro, e in una conferenza stampa gremita spiega che il suo film mira ad aiutare tutti noi spettatori a sentire, capire, reagire, mira a creare un subbuglio nella testa, un subbuglio del cuore e nel cuore. Perché – continua Sokurov – la forza del cinema è quella di rivolgersi ai cuori, ma soprattutto alle vostre anime.
La ricerca del regista, per sua stessa affermazione, si è spostata dalla forma al significato, nel tentativo di trovare risposte ai quesiti con cui il nostro mondo si scontra. Le risposte semplici sono finite, le domande sono complesse e non hanno trovato risposta nei politici che non sono, o forse non sono mai stati in grado di fornire tali risposte. Non sono cambiati gli atteggiamenti, neanche da parte degli artisti, dei registi. Forse la scelta di mettere il proprio volto, la propria voce di narratore, da parte di Sokurov, all’interno del film, e non solo di far parlare l’opera artistica, è un segno di questa incessante volontà di impegno e ricerca in prima persona, con nuovi linguaggi, nuovi personaggi, come, in Francofonia, il Louvre. Sokurov, e i russi con lui, amano l’individualità delle culture diverse, dell’Italia, della Francia.
Francofonia è una dichiarazione d’amore per la Francia, la sua individualità, i suoi valori…ma qui Alexander esita ed aggiunge: ma forse non esistono più. L’arte quale strumento di conoscenza – la pittura ci permette di capire noi europei – l’arte che va salvata dal naufragio cui assistiamo nei primi momenti del film, anche se la scelta tra la vita dell’individuo e l’arte stessa rimane una scelta soggettiva ad una domanda cui sembra impossibile dare risposta. Non resta che immergersi nelle immagini di repertorio, nelle splendide circumnavigazioni dei piani sequenza intorno alle opere del Louvre, nei costumi impregnati di ironia del Napoleone di turno o nella immaginazione di cosa accadde al Louvre mentre Parigi era città aperta, per regalarci un subbuglio del cuore. Astenersi spettatori in cerca di trama.
data di pubblicazione 15/01/2016
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