da Elena Mascioli | Ott 5, 2014
Frances Ha, ovvero del crescere. Non un racconto di formazione, perché la protagonista è una bionda ballerina ormai ventisettenne, ma il tentativo, scanzonato e sconclusionato, come la protagonista del film, di resistere alle prese di coscienza, all’ingresso in un’età cosiddetta adulta. Un Peter Pan in gonnella che si ritrova, senza un preciso progetto o direzione, quasi accidentalmente, a ballare; ma più che in una compagnia di danza in cui non riesce ad entrare, lo fa da una casa all’altra, da una relazione alla “singletudine”, senza un dollaro in tasca, e con un’amicizia del cuore altrettanto strampalata e adolescenziale con la sua Sophie. Con la sincerità di chi, però, non cerca una stabilità e una sicurezza calati dall’alto di una “condotta di vita”, ma vive volteggiando goffamente in una New York dipinta con l’assenza di colori di un bianco e nero accogliente. Gli unici che possono permettersi di fare gli artisti a New York sono ricchi, afferma Frances l’infrequentabile, così definita da uno dei suoi coinquilini. E guardando le immagini, anche senza una vera e propria citazione, sono transitati negli occhi di chi vi scrive la felina Audry di Colazione da Tiffany, rannicchiata alla finestra, ma anche la Sabrina che vola a Parigi, una versione “radical chic” della Bridget Jones britannica, le foglie gialle di A piedi nudi nel parco e…. dialoghi pennellati, degni dell’umorismo di un film nordeuropeo:
– Proust è un po’ pesante
– Beh, però dicono che va letto
– No, intendevo pesante da portare in aereo
Astenersi spettatori in cerca di “trama”.
data di pubblicazione 5/10/2014
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da Elena Mascioli | Ott 13, 2013
Una delle cose che visivamente mi ha colpito di più di Lincoln è la sua lunga ombra, che entra sempre in scena prima che lo faccia il suo possessore, quasi a preannunciarne l’arrivo, per poi salire con la camera ad inquadrarlo in tutta la sua altezza. Un’ombra resa ancora estesa dal lunghissimo cappello a cilindro, che va a dipingere, ancora prima di raccontare, una statura che si eleva al di sopra di tutti gli altri: in senso fisico e in senso, ovviamente metaforico, e che in un corto circuito immediato mi ha richiamato alla mente il Papà Gambalunga (Daddy-Long-Legs) di Jean Webster (pronipote di Marc Twain, ho scoperto, ndr), anonimo benefattore e tutore dell’orfanella Judy Abbot, di cui lei vede solo l’ombra protettrice. E l’ombra protettrice, protettiva e fondatrice di Lincoln si proietta inevitabilmente fino all’oggi, agli Stati Uniti del secondo mandato di Obama, il primo presidente nero, che a sua volta, come un’ombra, sembra aleggiare sulla storia del suo predecessore, soprattutto nelle frasi che si cristallizzano in profezie (L’emendamento è importante non solo per i milioni di neri in catene oggi, ma per i milioni che nasceranno domani. Salviamo almeno la democrazia a cui aspirare etc. e il soldato di colore che all’inizio del film parla con Lincoln, chiedendosi come e se, dopo l’abolizione della schiavitù, i bianchi saranno mai pronti ad accettare un nero ufficiale dell’esercito, anziché soldato semplice…e un nero presidente, senza dire Spielberg nel silenzio sottinteso). Il film è davvero composto di due parti: una prima, incentrata fortemente sulle parole, quelle delle storielle che Lincoln ama raccontare in ogni occasione (spassosa quella sul ritratto di Washington in un bagno inglese, ndr), a volte provocando l’insofferenza dei suoi ascoltatori o la loro perplessità sul reale significato finale (una sorta di oracolo, non sempre decifrabile, neanche dal segretario di Stato!), ma anche quelle dei discorsi politici, sulla democrazia, sulle sottigliezze da avvocato (Non Stati del Sud traditori, ma traditori che abitano negli Stati del Sud), delle grandi affermazioni (che poi diventano retoriche, ma solo a posteriori, quando ciò che viene affermato è ormai diventano realtà assodata) Un governo democratico poteva restare unito con un popolo metà schiavo e metà libero? con cui si apre il film, e ancora Sono conscio di essere solo e la moglie: La nave su cui navighi è il 13mo emendamento, interpretando il suo sogno. E certamente il ritmo del film, in questa prima parte, non è scoppiettante ma, secondo il mio punto di vista, è scelta espressiva a rendere l’immobilità del momento storico, con una guerra che ristagna, e una politica che è ferma, e che si avvita su stessa, nella rigidità degli schemi e delle posizioni. Allora il capitano della nave, il condottiero (l’oppositore Wood in seduta parlamentare lo definirà, con intento denigratorio, Abramo L’Africano, e poi Cesare, rifacendosi alle note figure della storia romana), il presidente, sarà costretto, come accade in una riunione con i suoi più stretti collaboratori, ognuno impegnato a ribadire il proprio punto di vista, a sbattere i pugni sul tavolo, urlando: We are on the world stage! Now! Now! Now! , puntando il dito, come lo zio Sam, verso i suo collaboratori, ad ogni imperioso Now!.E il condottiero Lincoln, a questo punto, prende anche le redini del film e dà alla vicenda e al ritmo del racconto una strattone, una scossa, con quello sbattere le mani sul tavolo, che introduce l’emozione, la partecipazione, la passione, tanto che da questo punto in poi la mia simbiosi con i protagonisti è tale che, dopo la suspense del conteggio del voto, e dell’entusiasmante montaggio alternato che ci porta a volare da una parte all’altra del film per fare la spunta, insieme ai protagonisti ritratti, dei voti che ancora mancano alla vittoria, allo sciogliersi delle campane che annunciano il risultato sonoramente, colmando l’assenza visiva del presidente, avvolto dalla luce del sole dietro la tenda della sua finestra, corrisponde lo sciogliersi delle lacrime su tutti i volti del partito dei Si e ovviamente, anche sul mio!
Dunque, come ho letto in molti commenti, retorico, didattico…si, ma forse, proprio per questo, americano fino al midollo, fino a quelle radici e a quei padri fondatori che qui troviamo rappresentati. Con l’aggiunta di una lunga considerazione sul compromesso, a livello politico, sullo sporcarsi le mani, sulla machiavellica questione del fine che giustifica i mezzi. La bussola interiore non indica gli ostacoli. Se ti affossi in una palude, che senso ha sapere dove si trova il Nord? dice Lincoln a Stevens (interpretato da un bravissimo Tommy Lee Jones), il quale, imparata la lezione, tradirà le sue idee più profonde sulla uguaglianza degli uomini abdicando in favore dell’uguaglianza di fronte alla legge, pur di raggiungere il risultato (Per i milioni di morti e le cause che difendo da 30 anni, non c’è niente che non direi). La considerazione finale sulla vicenda può essere riassunta splendidamente dall’ossimoro pronunciato da Stevens nel finale: L’emendamento è passato con la complicità dell’uomo più puro d’America!
Mi scuso con tutti coloro che sono arrivati a leggere fin qui per la prolissità delle riflessioni, ma, come racconta Lincoln in un aneddoto su di un predicatore: Potrei scrivere sermoni più brevi, ma quando inizio, sono troppo pigro per fermarmi.)
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