da Daniela Palumbo | Nov 21, 2024
aiuto regia Simona Ferruggia, con Giuseppe Sangiorgi, Beatrice Piscopo, Rosanna Vassallo, Lavinia Coniglio, Roberto Vetrano, Tommaso Gioietta, Giorgio Lopes, Anna Maria Ferruggia e la straordinaria partecipazione dell’attrice inglese Sarah Finch
(Teatro Don Bosco Ranchibile – Palermo, 19/21 novembre 2024)
Nel mezzo della platea, immersa nella penombra, si muove verso il palco una creatura senza età, dall’accento straniero. È lei, Titania, regina delle fate, interpretata da una altrettanto magica Sarah Finch, attrice della Royal Shakespeare Company. Che luogo è questo? dove sono? – si chiede lei, parafrasando, e anticipando, il quesito esistenziale per eccellenza. Non sono i boschi di quella “notte di mezza estate” e soprattutto, non è Stratford-upon-Avon.
In questa sera ancora tiepida d’autunno, nel cuore di Palermo, approda e rivive un corteo di spiriti mai sopiti. Dodici monologhi per far risorgere gli eterni “eroi” delle tragedie shakespeariane.
Da Iago a Shylock, da Giulietta a Desdemona e a Cleopatra. Passando attraverso Amleto e il suo inconfondibile dubbio sull’essere, partecipato e condiviso col pubblico presente. Guardando negli occhi – da vicino – ora l’uno ora l’altro uditore in sala.
Odio e vendetta, amore e paura sembrano snodarsi senza soluzione di continuità, mediante un filo ininterrotto di versi e di movenze, gesti e parole senza tempo. È un gioco di luci e ombre – metaforiche e reali – scomposte e ricomposte con maestria per mano del regista Ugo Bentivegna.
La materia comune – l’umanità nella sua essenza profonda e in ogni sua sfumatura – è rappresentata simbolicamente da un telo di stoffa di colore chiaro, quasi lucente. Che, non a caso, dall’inizio alla fine della mise en scène, è maneggiato, sostenuto, trasformato e ripreso da ciascuno degli attori. Un tessuto tangibile per una trama invisibile quale è quella dei sentimenti e della stessa natura umana. Fatta com’è – e come ci viene ricordato, alla fine – “della stessa sostanza dei sogni”.
data di pubblicazione:21/11/2024
Il nostro voto:
da Daniela Palumbo | Nov 10, 2024
Approda su Netflix questo film svedese di recente uscita, diretto e interpretato da Josephine Bornebusch, qui nei panni di Stella, la protagonista. Pochi i personaggi: una famiglia con due figli, madre e padre sull’orlo di un divorzio che si annuncia quasi inevitabile. La trama si snoda lungo un ultimo viaggio vissuto insieme, cercando di aiutare Anne, la figlia adolescente, a realizzare un sogno.
Questa storia non ha argomenti nuovi. C’è una coppia in crisi. Ci sono due figli intorno a una tavola imbandita con pane e conflitti quotidiani. Lui (Pål Sverre Hagen, irritante e convincente insieme) vuole il divorzio, ha un’amante e tanta voglia di evasione. Lei si ostina a tenere unita la famiglia, nonostante tutto. Perché lui impari a fare il padre, perché qualcuno si occupi dei ragazzi quando lei non ci sarà più. Un copione già visto e udito, nulla di inedito o di particolarmente originale.
Si avverte, però, una leggerezza che sa di nuovo. Una tenerezza speciale. Sarà anche per l’ironia, quella di cui sono rivestite le tensioni più affannose. La giovane Anne (Sigrid Johnson) partecipa ad una gara di pole dance, da molti scambiata per un banale strip tease. Il “palo” in miniatura per allenamento personale non passa i controlli in aeroporto (mamma, glielo spieghi tu…?). Il piccolo Manne (Olle Tikkaskoski) indossa una maschera da wrestler – praticamente una seconda pelle – eppure è emotivamente fragile e non tollera il glutine, tra le altre cose. A casa dei nonni il cibo per chi è affetto da celiachia non esiste perché “con una fetta di pane non è mai morto nessuno”. In compenso, il nonno completamente paralizzato possiede “i superpoteri” (ma è vivo? sì, è vivo).
E Gustav, quel padre incapace di gestire le situazioni più elementari – come custodire il bagaglio della figlia coi costumi di scena – riuscirà finalmente a “prendersi cura”, trovando soluzioni fantasiose, esilaranti. La maschera da wrestler – passata a lui come un testimone e da lui indossata in modo a dir poco inusuale – sarà l’esempio più “calzante”. E con l’ironia leggera, viaggia on the road, lungo tutta la pellicola, il messaggio più importante: è necessario svestirsi di sé per “vestire” l’altro (ciò che comunemente si chiama “mettersi nei suoi panni”). Per nulla facile, ma unica via possibile per salvarsi e salvare.
Accettare di mascherarsi, non più per dissimulare o nascondere ma per conoscersi a fondo e svelarsi. Troll danzante, wrestler nano, vecchio supereroe… Padre maturo, sul cui viso sarà cresciuta una folta barba da babbo premuroso. Extraterrestre calva, infine. Da lasciare andare in un nuovo viaggio, o pianeta, o “Stella” nuova
data di pubblicazione:10/11/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniela Palumbo | Ott 13, 2024
Netflix ripropone – per i nostalgici e per le nuove generazioni – due piccole gemme del cinema firmato Ferzan Özpetek. Da vedere e rivedere, per la prima volta o come se lo fosse. E riscoprire anche il talento acerbo di attori come Elio Germano o Stefano Accorsi. Senza dimenticare la giovane Margherita Buy.
Magnifica presenza e Le fate ignoranti sono film che incantano, sempre. Storie che sembrano uscite dalla penna di uno scrittore di fiabe. Per il titolo di per sé magico, evocativo. Per l’accento “un po’ straniero” di certi personaggi. Per le musiche. Contes de fées e storie di fantasmi. Presenze “magnifiche”, che per mille e una volta ritornano nell’immaginario collettivo, ma senza fare paura. Sulla scena c’è una compagnia di teatranti, prigionieri nella casa dove le loro vite si spensero, insieme a una stufa a gas difettosa. Mentre fuori c’era la guerra (…ma ci dica, è finita?). Garbati e inconsapevoli, empatici e discreti, si stringono intorno ad uno sprovveduto Pietro Ponte – aspirante attore ed ennesimo locatario dell’appartamento – quasi come una famiglia. È lui l’unico a vederli, a dare loro voce e “sostanza”. A farli uscire, persino.
Mostrare ciò che gli altri non vedono. È il filo conduttore anche del più celebre Le fate ignoranti. Una storia declinata nel segno di un perenne dualismo. Doppia è la vita del protagonista – Massimo, marito di Antonia e amante di Michele – che lentamente riaffiora dopo la morte di lui. Così come le luci della ribalta sul palco della vita diurna e la penombra del “dietro le quinte”. La villa sul lago, teatro di armonia coniugale, e il condominio délabré a più piani, rigorosamente senza ascensore. L’immagine, presente ovunque, di un’erma bifronte dove bellezza androgina e fascino efebico si intrecciano come trama e ordito in una tela.
Il “tradimento” – che sia adulterio o delazione – non esiste più. Sorpassato, o sublimato in uno spazio nuovo di pura umanità, o di umanità pura. In quella terrazza all’aperto tra le casse di frutta e i fili della biancheria. Oppure in quella sala da pranzo antiquata, dal fascino retrò. Dove si mangia tutti insieme – nell’uno e nell’altro film -, si apparecchia la tavola, si cucina. E si ride, persino della morte. I personaggi sono tutto questo e non lo sanno. Sono “ignoranti”, come tutti noi. Noi spettatori, che per ritrovare la verità – pare ci bisbigli Ferzan – dobbiamo provare a squarciare un velo. Che sia una tenda, un sipario, la pagina di un libro di poesie, o di un album di figurine…
O una mappa segreta, con la parola d’ordine e la sua controprova.
Finzione, finzione…
Ma quale finzione. Realtà!
data di pubblicazione:13/10/2024
da Daniela Palumbo | Ott 1, 2024
Il 19 aprile 1989 una donna viene aggredita al Central Park di New York mentre fa jogging come di consueto. Gravissime, per lei, le conseguenze: rischia di non sopravvivere. Cinque ragazzini neri – colpevoli di trovarsi nel luogo del crimine quella stessa sera – sono catturati, interrogati per ore, minacciati, quindi costretti a “confessare”. Sono pecore in mezzo a un branco di lupi bianchi – in toga o in divisa – da cui finiranno per essere sbranati. Anch’essi prede troppo facili, perfette vittime sacrificali. Tratta da una storia vera, e da un fatto di cronaca, questa serie firmata Ava DuVernay, sebbene non di recente uscita, è ora disponibile su Netflix, dove è possibile visionarla per intero, senza interruzioni, oppure fermandosi di tanto in tanto. Giusto il tempo di riprendere fiato e coraggio. Particolarmente toccante è l’interpretazione dei giovanissimi attori, tra cui Jharrel Jerome, vincitore di un Emmy Award.
La vera storia di cinque ragazzi di Harlem è rappresentata in questa miniserie drammatica di notevole impatto. Una storia di soprusi e di impotenza, di crudeltà perpetrate su quella solita odiosa scacchiera bianca e nera, come tante ne ha raccontate il cinema, da The Hurricane a Il miglio verde. Con qualche tratto appena più originale. Primo fra tutti, il richiamo del passato, che riecheggia più volte, nella mente dei protagonisti, attraverso la voce di chi era lì prima che tutto accadesse. Dalla compagna di scuola, primo amore giovanile, al padre perduto e poi ritrovato e poi perduto di nuovo. Un passato a cui ci si aggrappa per ricordare che qualcosa di autentico, “prima”, è esistito. Che il disastro, la caduta, il fango, le sbarre, i topi, i lividi, la cella d’isolamento, la fila per una telefonata, le guardie buone, le guardie cattive possono “incidere” ma non cancellare. Che la “ricostruzione” non è opera di fantasia, come non lo è questa narrazione.
Perché si respira, dall’inizio alla fine, un’aria autentica, appunto. Tra i viali bui del parco come nelle aule dei tribunali o nei cortili del carcere.
Ma la più bella commistione tra realtà e fiction, tra persona e personaggio, viene offerta allo spettatore proprio al termine dell’episodio conclusivo. A dare un senso all’intero racconto, a reinterpretare il titolo stesso: When they see us. “Quando ci vedranno”, ci vedranno veramente. Una breve ma intensa carrellata di primi piani con i quali i protagonisti della storia – quelli veri – si presentano e al contempo si congedano da noi. Svelando la propria identità, ad uno ad uno, puntando su di noi lo sguardo innocente. Senza livore o risentimento, senza l’orgoglio della rivalsa. E nessuna amarezza, persino. Occhi sereni, di volta in volta appena sorridenti o semplicemente risoluti, fissano la telecamera. Mentre i nomi e le parole scorrono, per dare un’idea – riparatrice, consolatoria almeno in parte – di cosa è accaduto “dopo”, e a chi. A ciascuno di loro, i cinque di Harlem.
Kevin Richardson, Antron McCray, Yusef Salaam, Raymond Santana, Korey Wise.
data di pubblicazione:01/10/2024
da Daniela Palumbo | Set 23, 2024
Presentato al festival di Toronto nel settembre 2023, questo dramma familiare giunge esattamente un anno più tardi nei cinema statunitensi ed è da poco approdato su Netflix. Diretto e sceneggiato da Azazel Jacobs, il film affida alla magistrale interpretazione di tre brave attrici il difficile compito di raccontare la storia di una agonia. Si tratta dell’imminente morte di un padre, che costringe le tre figlie (di cui una adottiva) a riunirsi nella stessa casa – la casa di lui – affrontando ciascuna a modo proprio il dolore di una perdita inevitabile e cercando di superare divergenze ed incomprensioni.
Sorelle si diventa. Non sempre si nasce. Questo film, che pone in primo piano le “figlie” di qualcuno (His, di lui) già nell’insolito titolo, in realtà delinea il ritratto di tre sorelle. Biologiche e non. E parla di morte. Continuamente parla di morte. Con parole e con immagini (fotogrammi di “natura morta” – tazze, libri, sedie vuote – spesso sono mostrati in successione). Una morte annunciata pervade ogni singola scena. È uno “stare per morire” il leitmotiv della storia, scandito da una nota – sempre la stessa – che ossessivamente si ripete. Regolare come un ticchettio, è il suono emesso dal macchinario che monitora i valori vitali del padre agonizzante, espediente usato per “battere il tempo” che gli rimane. Un tempo fatto di atmosfere cupe, di silenzi pesanti e molto più spesso di dialoghi. O piuttosto di monologhi, recitati secondo un copione che pare già scritto da tempo, per caratteri ben definiti. Così, l’arcigna e inflessibile Katie – impegnata a redigere il necrologio e a far firmare documenti – si contrappone all’indocile e più spontanea Rachel, che fuma erba e gioca alle scommesse. Nel mezzo si colloca Christina, ex figlia dei fiori dall’istinto materno quasi morboso, ebbra di prolattina e stucchevole come marmellata (lo dice il nome stesso della sua bambina, Mirabella, non a caso pronunciato più volte e replicato persino nella figura dell’assistente domiciliare). Tre figlie dello stesso padre, dunque. Tanto diverse, apparentemente inconciliabili. Prigioniere di ruoli troppo rigidi, intrappolate tra le pareti di casa fino al momento fatidico, le tre donne – bene interpretate dalle talentuose Carrie Coon, Natasha Lyonne ed Elizabeth Olsen – avranno il merito di far evolvere nel corso della narrazione ciascuna il proprio personaggio, trasformandolo in qualcosa di diverso e più compiuto. A tutto tondo. E se è impossibile sottrarsi alla morte, cui ogni essere umano è destinato, non lo è altrettanto il poter mutare, rinnovare se stessi rinnovando così la vita. E allora ecco che quel papà Vincent (Jay O. Sanders) il cui volto è celato per tutto il tempo dietro una porta socchiusa, si svela, alla fine, in un epilogo per nulla scontato: fantasioso, come un gioco di prestigio (papà potrebbe fare il giocoliere!), commovente senza risultare melenso, visionario senza perdere il contatto col reale. Un epilogo che chiude il cerchio in armonia, con una triade tutta al femminile. Tre donne, tre sorelle, riunite davvero nel profondo. Nel nome di quel padre che non si fa pregare e che non predica, ma che fa bip, bip, biiiip…
data di pubblicazione:23/09/2024
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