UNBELIEVABLE di Susannah Grant – Netflix

UNBELIEVABLE di Susannah Grant – Netflix

La serie è ispirata a una storia vera e il plot si basa su un articolo, vincitore del Premio Pulitzer, che ne trattò il caso, An Unbelievable Story of Rape. La protagonista, Marie Adler, denuncia uno stupro, avvenuto in casa sua, di notte, mentre dormiva nel suo letto. Ad opera di uno sconosciuto, incappucciato ed armato, svanito poi nel nulla senza lasciare tracce. Marie racconta più volte l’accaduto, in sedi diverse, con testimonianze verbali e deposizioni scritte. Ma è un’adolescente con problemi, poco più che una bambina “senza famiglia”, cresciuta tra assistenti sociali e genitori affidatari diversi. Dunque, soggetto non attendibile. Dovrà rispondere a reiterati interrogatori, replicare le versioni del proprio racconto, rivivere quella notte mentre la accusano di avere inventato tutto. E infine, ritrattare. Incredibile, non è vero?

 

Unbelievable è l’atto di non credere. A qualcuno o a qualcosa. Non si crede per diffidenza. Per convenienza. Talvolta per cinismo o per presunzione. Come nel caso dei detective ed altri “esperti” indagatori che qui si impongono sin dai primissimi episodi. Questi pretendono di saper riconoscere la verità, al di là di ciò che potrebbe ragionevolmente essere ritenuto una prova (evidence) perché venuto fuori da chi ha appena “patito” un male.

È ciò che accade alla giovane Marie, protagonista della storia (e non sarà l’unica), interpretata da Kaitlyn Dever. Si comincia a scavare nel suo passato, infelice sin dalla prima infanzia. A rovistare nei suoi dossier come tra le pieghe dei suoi traumi precedenti. Si perquisiscono le “stanze” del suo vissuto volendo repertoriare le “prove contrarie”: bisogno di attenzioni, comportamenti manipolativi, tendenza alla bugia per eccesso di immaginazione. L’indagata diventa lei. Nella “anatomia del dubbio”, il sospetto ricade su di lei. Con un peso maggiore di quel corpo che le crollava addosso, a più riprese, quella notte. Nessuno le crede. E piuttosto, incredibilmente, viene condannata per falsa testimonianza.

In una sorta di universo parallelo, da un’altra parte di quell’America tanto vasta quanto varia, un’altra donna, avendo patito il medesimo male, viene ascoltata. Ascoltata davvero. E dopo di lei – o grazie anche a lei – una social catena di altre creature si va delineando. Più efficace di quell’introvabile DNA, che talvolta risulta persino duplice e ingannevole, oltre che ostile.

Due ispettrici, Karen e Grace (rispettivamente Merritt Wever e Toni Collette), dal temperamento opposto – una credente e tendenzialmente mite, l’altra razionale e impetuosa – si ritrovano unite, e complici. Tanto nella “caccia all’uomo” quanto nella tutela di chi è riconosciuto come vulnerabile, a rischio di “estinzione” o annullamento di sé. Finalmente, tutto diventa degno di attenzione e di fiducia. E finalmente, si crede. Si crede per fede, si crede per solidarietà. Solidarietà di specie e non soltanto di genere. Per dare un senso alla propria vita, preservando quella degli altri. È tutto qui, l’aspetto più originale di questo crime thriller sceneggiato, diretto e prodotto da Susannah Grant. Ascoltare, accogliere, condividere il pathos, lottare insieme. Per essere chiamate donne, per essere chiamati uomini. Esseri umani, col privilegio di vivere in una società libera.

Una nota particolare meritano, quasi per legge di contrappasso, certe inquadrature di quel corpo maschile (un metro e ottanta, massiccio ma con un ventre quasi molle), privato degli abiti (tolga tutto!), sottoposto ai flash di una macchina fotografica e manipolato coi guanti sino nelle parti più intime. Le gambe divaricate, lo sguardo fisso in avanti, questo molosso – grottesca caricatura dell’uomo vitruviano – si mostra agli occhi dello spettatore come icona del non umano. Da cui non lasciarsi contaminare, mai. E dunque, per non correre il rischio, poliziotti investigatori infermieri assistenti sociali giornalisti semplici amici o conoscenti, persone comuni insomma, in futuro “facciano di meglio”.

Next time, do better.

data di pubblicazione:09/06/2024

SEI FRATELLI di Simone Godano, 2024

SEI FRATELLI di Simone Godano, 2024

I cinque figli di Manfredi Alicante, avventuriero impunito e padre latitante da sempre, si ritrovano a condividere per alcuni giorni la stessa casa, dopo la morte improvvisa di lui. Il tempo di aprire il testamento e decidere il da farsi. L’eredità è un allevamento di ostriche a Bordeaux, convertito in una coltura di perle, illusoria come un miraggio in una duna di sabbia; un mucchio di debiti, qualche mollusco dal sapore salmastro e un’unica perla, imperfetta e di poco valore; una perla di nome Luisa.

 

Sei fratelli è una storia di famiglia. Una come tante, ma amplificata tanto nel numero quanto nella materia. In questo nucleo “allargato” e sfilacciato, Luisa (interpretata da Valentina Bellè) è la sorpresa, la sesta figlia, fino a quel momento ignota a tutti; la sesta punta della stella, il lato nascosto dell’esagono (la storia è ambientata in Francia, forse non a caso), una sesta nota “stonata”, che fa fatica ad entrare nel coro, in una polifonia già di per sé dissonante. Cinque fratelli “legittimi”, noti e riconosciuti, ciascuno con un suo “carattere” senza mai essere fino in fondo stereotipi si contendono la scena, in perenne conflitto con se stessi e con gli altri a loro vicini; perennemente alla ricerca di un proprio centro di gravità, di un legame da recuperare – o da creare – malgrado tutto. Con gli abbracci o con le botte. Urlando vecchi rancori o sussurrando nuove confidenze.

Al di sopra di tutto – narratore onnisciente già dall’incipit del film attraverso la voce fuori campo di Gioele Dix – quel padre che ha dato più volte la vita, ma senza curarsene, e generando menomazioni dell’anima come del corpo: così Marco, il prediletto (Riccardo Scamarcio), zoppica per un male al tallone, il giovane Mattia (Mati Galey) è quasi muto e Leo (Gabriel Montesi) ha problemi d’udito, oppure finge. E poi c’è l’ibrido, Luisa, l’intrusa nella famiglia, simbolo dell’alterità straniante che però aiuterà a chiudere il cerchio (anche fisicamente, attorno al tavolo del notaio, in esordio e in chiusura). Lei che di quel padre “anche suo” ha preso quel “poco” che ha potuto, e che se l’è “fatto bastare”.

E adesso che sono lì, tutti quanti, orfani di colui che era insieme pecora nera e capro espiatorio, quel padre amato e odiato, voluto e respinto, lontano e accusato in contumacia di essere il cattivo per eccellenza… “a chi daranno la colpa, per la loro infelicità”.

Il regista Simone Godano, metteur en scène e direttore d’orchestra, scandisce bene tempi e dinamiche all’interno del film, e si lascia seguire, grazie anche a una sceneggiatura semplice ma intensa, che non cede a facili coups de théâtre, né a luoghi troppo comuni.

Belle le luci di Bordeaux di notte; suggestive le note di quella sonata in si minore, eseguita al piano sin dalle prime scene e che ritorna, più volte, nella storia.

data di pubblicazione:20/05/2024


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