Personalizza le preferenze di consenso

Utilizziamo i cookie per aiutarti a navigare in maniera efficiente e a svolgere determinate funzioni. Troverai informazioni dettagliate su tutti i cookie sotto ogni categoria di consensi sottostanti. I cookie categorizzatati come “Necessari” vengono memorizzati sul tuo browser in quanto essenziali per consentire le funzionalità di base del sito.... 

Sempre attivi

I cookie necessari sono fondamentali per le funzioni di base del sito Web e il sito Web non funzionerà nel modo previsto senza di essi. Questi cookie non memorizzano dati identificativi personali.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie funzionali aiutano a svolgere determinate funzionalità come la condivisione del contenuto del sito Web su piattaforme di social media, la raccolta di feedback e altre funzionalità di terze parti.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie analitici vengono utilizzati per comprendere come i visitatori interagiscono con il sito Web. Questi cookie aiutano a fornire informazioni sulle metriche di numero di visitatori, frequenza di rimbalzo, fonte di traffico, ecc.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie per le prestazioni vengono utilizzati per comprendere e analizzare gli indici di prestazione chiave del sito Web che aiutano a fornire ai visitatori un'esperienza utente migliore.

Nessun cookie da visualizzare.

I cookie pubblicitari vengono utilizzati per fornire ai visitatori annunci pubblicitari personalizzati in base alle pagine visitate in precedenza e per analizzare l'efficacia della campagna pubblicitaria.

Nessun cookie da visualizzare.

L’INCARICO basato sul racconto di Raymond Carver

L’INCARICO basato sul racconto di Raymond Carver

adattamento e regia di Luca Bargagna, con Silvia Ajelli, Claudio Di Palma, Arturo Muselli, Antonio Elia

(Teatro Biondo – Palermo, 9/13 aprile 2025)

Adattamento teatrale di un racconto di Raymond Carver, la pièce rievoca gli ultimi momenti di vita di Anton Čechov, gravemente colpito da una malattia ai polmoni, come peraltro lo stesso Carver. Traendo ispirazione da alcune pagine del diario di Olga Knipper, sulla scena si alternano ricordi del passato e citazioni letterarie, in un’atmosfera intima e drammatica insieme.

Luca Bargagna interpreta il testo di Raymond Carver – scrittore di racconti e poeta statunitense – e lo porta sulla scena mescolando biografia e invenzione, realismo e sogno. È l’incubo della morte incombente che si trasforma in visioni tanto oniriche quanto prosaiche. La poesia dei gesti quotidiani, colti nell’intimità tra Anton e la moglie Olga – accovacciarsi insieme sul pavimento, adagiare il cappotto sulle spalle dell’altro o semplicemente chiedersi come stai? – dilaga e trova spazio (materiale e simbolico) nel teatro. Rievocato, recitato e vissuto, questo, per celebrare la grandezza di chi ha scritto, creato, amato. E ancora ama.

Così gli interni domestici (casa o camera d’albergo?) che compongono la scena, nella loro sobrietà essenziale, sembrano aprire improvvisi squarci su orizzonti grandiosi. Si tratta proprio di lui, il Čechov scrittore al quale persino l’immenso Tolstoj volle rendere visita. Grande anche lui, pur nella sua modestia, e tuttavia incapace di disancorarsi da una realtà limitata, come limitata è l’umana esistenza. Proprio come i personaggi dei suoi racconti, l’uomo Čechov non è proiettato verso un’eternità, che non esiste. Alla domanda “dove vanno i suoi personaggi?” lui per primo risponderà, con squisita ironia, “dal divano al ripostiglio”, una replica che trova corrispondenza tanto nello spazio scenico quanto nei brevissimi spostamenti all’interno dello stesso.

La malattia costringe Anton in un ambiente ridotto, corto come il suo respiro, ravvivato solo dall’esuberanza della fedele moglie attrice, e dalle sue “numerose coppie di mani gesticolanti”. Eppure lui sogna di tornare a Mosca, con lei, e con un vestito nuovo di flanella bianca. E improvvisa una danza anche, lì sul palcoscenico. Una breve danza cheek to cheek sulle note di un jazz suadente, finché la tosse interrompe tutto bruscamente, e il respiro si cambia in rantolo.  Il corpo cede e la malattia ha il sopravvento, mostrando il fallimento della medicina. E di ciò il dottor Schwohrer in persona – testimone impotente della vicenda – per primo si rammarica.

Curare il corpo può essere, dunque, inutile e vano. Di contro, l’intelletto resiste, deve resistere, a costo di sforzi e fatica. Perché come dice a gran voce la stessa Olga, sempre più appassionata e audace, quello che scrive Anton “è necessario”. Per la sua poesia e bellezza, è necessario alla vita. E lui resiste, in questa sentita rappresentazione, fino al fatidico “Io muoio” plateale e sommesso insieme. A più riprese, sulla scena, Čechov muore della stessa morte di Carver, in una sorta di mise en abyme in cui si specchia e si riflette l’uomo. O lo stesso spettatore.

E dopo l’ultimo respiro? Si lascia spazio agli oggetti e alla loro simbologia: un telefono, una bottiglia di champagne, tre calici di cristallo su un vassoio, in equilibrio precario sulla testa di un improbabile cameriere, strampalato nell’aspetto e nei modi. A lui “l’incarico” di mutare il delirio dato dal dolore estremo in un ironico gioco di parole, che suscita il riso in mezzo alle lacrime. A lui il compito di raccogliere il tappo, sfuggito a quell’ultima bottiglia di Moët e che giace, superstite, sul pavimento. In attesa che qualcuno si chini a raccoglierlo e, finalmente, lo serri in pugno.

data di pubblicazione:10/04/2025


Il nostro voto:

TERRA MATTA regia di Vincenzo Pirrotta

TERRA MATTA regia di Vincenzo Pirrotta

con Vincenzo Pirrotta, Lucia Portale, Alessandro Romano, Marcello Montalto e i musicisti Luca Mauceri, Mario Spolidoro, Osvaldo Costabile

(Teatro Biondo – Palermo, 28 marzo/6 aprile 2025)

Tratta dall’omonimo libro, autobiografia di Vincenzo Rabito, questa trasposizione teatrale mette in scena il racconto di un contadino analfabeta di Chiaramonte Gulfi, in provincia di Ragusa, che ripercorrendo le tappe della sua “molto desprezzata e maletrattata vita” attraversa tutto il Novecento.

La storia è quella di Vincenzo Rabito, figlio di un Salvatore che fu e di una Salvatrice, madre tanto amata, rimasta vedova con sette creature da sfamare.

È un diseredato, lui. “Rapito” fin dalla tenera età dalla sorte, e costantemente in fuga. Sempre in cerca di salvezza e di affrancamento per sé e per i suoi familiari. Sopravvive, malgrado il destino avverso. Al lavoro “sotto padrone”, alle timpulate delle femmine nei casini, alla lingua della suocera maldicente, ai commendatori e ai ruffiani. Sopravvive alle guerre, soprattutto. Tutte e due le guerre. E ogni volta, “si salva”.

La scena è spoglia, quasi desolata, come l’esistenza. Solo una sedia, quasi sempre al centro del palco. Un caposaldo su cui “stare”, seduto oppure in piedi. Altre volte simile a un bastone, o a una stampella, da tenere sottobraccio come una baionetta. Sullo sfondo, un trio di musicanti. E di tanto in tanto qualche breve comparsa. Sono apparizioni per lo più grottesche, dal carabiniere con tanto di pennacchio al brioso barbiere dotato di mantellina svolazzante.

In primo piano, sotto le luci della ribalta, la figura di lui, lo straordinario mattatore Pirrotta, che è anche regista e ideatore della pièce. Cantastorie infaticabile, capace di recitare a perdifiato per oltre un’ora e mezza alternando toni diversi (il lirico, il comico, il drammatico), Vincenzo attore/autore esprime al meglio uno dei motivi essenziali: la capacità di adattamento. Come insegna la fame, o la necessità di mettersi addosso qualcosa, qualsiasi cosa (emblematico ed esilarante l’aneddoto delle divise distribuite ai soldati, tutte uguali e della medesima taglia: “pantaloni per uno di un metro e novanta a me che ero un metro e cinquanta… e dei quaranta centimetri in più, che me ne facevo?!”).

Un fiume di parole, dunque. Inarrestabile come l’epopea di questo contadino, soldato zappatore e carbonaio all’occorrenza. E le parole, proprio quelle, sono protagoniste assolute, padrone indiscusse della scena. Brulle come i terreni incolti, ferite e storpie come i mutilati nelle trincee. Approssimative, come il succedersi degli eventi. Imprevedibili. Eppure pregne di verità, autentiche. Vengono alla luce una dopo l’altra, così, come i figli. Turiddu e poi Tanuzzo e poi ancora Giovanni. Figli cercati, voluti, e insieme “calati dal cielo” (lanciati e presi al volo) come se nulla fosse. E riscattati, alla fine, da quella miseria vissuta realmente e realmente patita. Perché quello che “ci cunta” Vincenzo Rabito, classe 1899, forse non è tanto comprensibile, e non è detto “come si deve”. Però senz’altro, e senza dubbio alcuno, “è successo davvero”. E lascia il segno, o il solco, su questa terra matta dove trascorre la vita.

data di pubblicazione:03/04/2025


Il nostro voto:

ADOLESCENCE di Philip Barantini, 2025 – serie Netflix

ADOLESCENCE di Philip Barantini, 2025 – serie Netflix

Una famiglia apparentemente tranquilla viene sconvolta da un evento traumatico: l’arresto del figlio appena tredicenne, Jamie, accusato di aver accoltellato a morte una compagna di scuola. “Non ho fatto nulla” – ripeterà il ragazzo. I genitori, dal canto loro, sono convinti che si tratti di un errore di persona. Sarà vero? O è vero il contrario?

Si ispira al genere true crime questa miniserie britannica girata in piano sequenza, senza tagli e senza interruzioni. Solo un cambio di prospettiva, seguendo il cammino spesso tortuoso dell’uno o dell’altro personaggio. Un filo che non si spezza né si recide, ma si avvolge e si dipana via via come una matassa. O si espande come una ragnatela. Un male che coinvolge in primo luogo il giovane Jamie Miller (Owen Cooper, ottimo interprete), protagonista della vicenda. Ma anche la sua famiglia, gli amici, la comunità tutta intera.

Chi è il vero colpevole? Chi ha ucciso chi, e come lo ha fatto. Poiché si può uccidere in tanti modi. E soprattutto, come può un bambino – poco più di questo, in realtà – essere all’origine di un tale crimine. E subirne le conseguenze, proprio come fosse un uomo, un adulto.

Tra le primissime scene, l’irruzione degli agenti di polizia dentro casa dei Miller. Per arrestare lui, il ragazzino. Prelevarlo, stanarlo da sotto le coperte, lì dove appare gracile e indifeso, e col pigiama irrorato di paura. Irrompono in egual misura l’incredulità, lo sgomento, e al tempo stesso il sospetto, terribile. Ma a risultare davvero straziante, nel corso di tutta la narrazione in “presa diretta”, non è il pianto di Jamie. Piuttosto, è quel baratro negli occhi smarriti del padre, Eddie Miller (interpretato da un intenso Stephen Graham), la smorfia atroce sul viso contratto di lui, man mano che gli eventi si susseguono e il “vero” si disvela. Sono le lacrime trattenute a fatica dalla psicologa (Erin Doherty) al termine dell’ultimo estenuante colloquio col ragazzo/detenuto. È lo sguardo attonito di Luke, l’ispettore incaricato del caso (Ashley Walters), di fronte a una realtà che egli stesso (a sua volta padre di un adolescente) ignorava. Mentre gli adulti armeggiano con logiche e tecniche ormai prive di senso (ricerca del movente, testimonianze di altri per “capire perché”), i giovanissimi si muovono sotterraneamente, con linguaggi cifrati, portatori di ambiguità e violenza (“Non lo sapevo! È difficile credere a tutto questo tramite due simboli…”).

Si cerca dunque una verità che nella “rete” virtuale dei rapporti fasulli semplicemente non esiste. Distorta, deformata, mutata in pensiero fallace nella mente dei figli (“Per me è importante quello che pensi, non quello che è vero”). E proprio in questa mancata corrispondenza tra intima percezione e dato di realtà risiede il dramma di questa “Adolescence”. Che non fa più rima con “Innocence”. In un mondo di piccoli che fa paura ai grandi.

data di pubblicazione:18/03/2025

FOLLEMENTE di Paolo Genovese, 2025

FOLLEMENTE di Paolo Genovese, 2025

Indovina chi viene a cena, stasera? FolleMente è il racconto di un primo appuntamento. Uno come tanti, forse. Con lui che si presenta alla porta tenendo in mano un mazzolin di fiori mentre lei prova l’outfit fino all’ultimo secondo utile. Sarà soltanto un’avventura? Ma soprattutto, si tratta davvero di un tȇte-à-tȇte?

Tutto accade in una sera. Sono un uomo e una donna (Edoardo Leo, Pilar Fogliati) in un interno. Fatto di mobili, divani, pareti. Con una piccola veranda “fantasmagorica”, che dà sulla strada. E che si cambia, all’occorrenza, in una sorta di lanterna magica. Quinte e palcoscenico raccolti in un unico luogo, qui prendono forma le emozioni che ciascuno di noi conosce bene o ricorda. Imbarazzo e ritrosia da “prima volta”, desiderio di aprirsi e paura di sbagliare (un solo pensiero può rovinare tutto!), pause di silenzio e rossori improvvisi. Una captatio benevolentiae in piena regola mira a conquistare la simpatia dello spettatore, ad estorcere tenerezza, persino. Sin dalle prime scene. Lui che inciampa ogni tre passi sulle tante suppellettili, nell’appartamento in penombra che “fa atmosfera”. Lei che “scivola” su quel lapsus impudico (ci sdraiamo a tavola? …l’ho detto veramente?!), per poi incepparsi in un singhiozzo molesto e pressoché infantile. Tutto ciò non può che far sorridere. Ma il sale – ed anche il pepe, direi – della storia è dato dalla presenza di altri otto personaggi, quattro per parte, icone delle identità maschili e femminili, con caratterizzazioni da manuale e qualche guizzo insolito. Impersonati da attori reali – brillanti negli interventi, credibili nella mimica e nelle battute – questi personaggi “altri” altro non sono che parti della mente, di lui e di lei. Tratti diversi, spesso contrastanti, di una stessa personalità. Impeccabile Rocco Papaleo nel ruolo del disilluso, sorprendente Maurizio Lastrico che quanto a soavità batte sul campo la “sognatrice” Vittoria Puccini. Semplicemente straordinaria Emanuela Fanelli, la simpatica seduttrice. E comunque bravi tutti.

In questo allegro carosello si avvicendano erotismo e romanticismo, voglia d’indipendenza e bisogno d’amore. Ma anche razionalità, prudenza e un pizzico di disincanto. Presenti sulla scena dall’inizio alla fine, questi “prodotti della fantasia” sono in realtà più veri di quanto non si possa credere. Fanno sorridere ma tengono viva l’attenzione, discutono e si scontrano tra loro ma rimangono lì, spostandosi di un pouf appena. Sono la famiglia – talora ingombrante – che avvolge e che scalda, sono gli amici che non ti abbandonano. Che stanno lì a smussare, sostenere, lavorare di dialettica, dare una mano.  E che risolvono alla fine ciò che da soli, in una coppia, forse non si potrebbe. Perché in due è bello, ma in tanti – tutti insieme appassionatamente – è meglio. Lo abbiamo detto davvero?!

data di pubblicazione:28/02/2025


Scopri con un click il nostro voto:

FUGA DA ALCATRAZ di Don Siegel – Evento su Netflix

FUGA DA ALCATRAZ di Don Siegel – Evento su Netflix

Netflix ripropone un classico del genere, datato 1979, forse il più conosciuto tra i prison movie. Aggiunto di recente, è già tra i primi dieci film “più visti” sulla nota piattaforma. La materia è costruita a partire da un fatto realmente accaduto: l’evasione di tre detenuti – Frank Morris e i fratelli Anglin – dal penitenziario di massima sicurezza al largo della baia di San Francisco. Reclusi, come tanti altri sull’isola. Fuggiti, come nessun altro prima di loro. E mai ritrovati.

Il nome, che pare svettare maestoso già nel titolo, riecheggia nella memoria di tutti noi. Alcatraz, dal suono quasi onomatopeico, è roccia che emerge nella sua crudezza, come una mannaia pronta a tranciare carni, e vite umane.

Sin dalle primissime inquadrature lo spettatore è immerso nel buio più cupo, dentro un tunnel di rumori sordi e ripetitivi. Una pioggia battente pare sospingere il battello di Caronte, carico di prigionieri, verso la tana che non offre riparo, né lascia presagire alcuna via d’uscita.

Interpretato da un Clint Eastwood solido e carismatico, il personaggio di Morris avanza a testa alta, va incontro a quel destino che appare da subito segnato in modo irreversibile. Non ci si chiede – né si saprà – quale sia il crimine da lui commesso, cosa abbia fatto “prima”, né da dove arrivi. Si può solo seguirlo in questa discesa agli Inferi, in catene e con gli occhi dietro le spalle.

Le scene si susseguono combinando spesso brevità e lentezza, cosicché i tempi dell’azione e quelli della riflessione (o dell’apatia) risultano ora contratti ora dilatati. Le sbarre di ogni singola cella si chiudono e si riaprono come macabri meccanismi a molla. Le guardie misurano i corridoi a piccoli passi regolari. I gesti sono reiterati e opprimenti, così come gli oggetti, snaturati e convertiti in altro, al pari degli individui. Il pathos, però – onnipresente nel rapporto tra quasi tutti i carcerati – è amplificato da un fraseggio di sguardi, talora molto intensi, tanto da sopperire all’impossibile scambio di parole o al contatto fisico negato.

La tensione, specie nella seconda parte del film, cresce via via che il piano di fuga procede facendosi sempre più concreto e rischioso. Non mancano elementi di suspense degni del migliore Hitchcock (il vicino di cella, incaricato di dare l’allarme all’approssimarsi del secondino, mentre Morris “scava” sul muro, nel momento fatidico non riesce a fischiare e dalle labbra quasi atrofizzate viene fuori un soffio impercettibile). Guardando oltre gli stratagemmi narrativi, il messaggio si mostra allo spettatore di ieri e di oggi con estrema chiarezza e mira a far riflettere sulla condizione dell’uomo privato della sua stessa umanità. L’essere braccato e inerme, sottoposto a violenze di rara crudeltà, in un ribaltamento di piani che quasi mai viene messo in rilievo nella giusta misura.

Dal primo all’ultimo momento, nel corso della pellicola, non ci si chiede cosa abbia fatto ciascuno di quei condannati. Né ci viene detto, il più delle volte. Ci basta, per immedesimarci, riconoscere qualche frammento di umanità in ciò che di umano ha ormai poco o nulla. Un topolino scelto come unico e inseparabile amico, una tavolozza di colori per “liberare” l’anima… o un crisantemo, il fiore che sopravvive alla morte, pur non essendo rosa né tulipano.

data di pubblicazione:17/02/2025