da Daniela Palumbo | Gen 12, 2025
(Immagine tratta dal film Ad Vitam- Netflix)
Franck e la moglie Léo sono due agenti speciali del GIGN. Decidono di avere un figlio, incoraggiati dai colleghi del gruppo, che per loro costituiscono già una famiglia. Coinvolti in un losco affare di Stato, i due rischiano la vita. E soprattutto, vengono separati l’uno dall’altra: lei rapita, lui ricercato per un omicidio che non ha commesso.
È un film d’azione, ma à la française. Non mancano gli “effetti speciali”, dalla motocicletta lanciata in una folle corsa al volo col parapendio, passando attraverso le acrobazie del parkour sui tetti di Parigi. Né si fanno attendere sparatorie ed inseguimenti su strada. E complotti e sotterfugi ad ogni angolo. Il tocco francese è dato piuttosto da una certa malinconia, che sfiora l’anima. Quel mal de vivre che, nonostante un dinamismo spesso senza pause o freni, non risparmia nessuno. Per ragioni diverse.
Così, man mano che il protagonista – braccato – ascende ai cieli sopra Versailles o volteggia tra i comignoli delle case, noi spettatori ci caliamo nel profondo delle emozioni tra le più oscure. Perdere un amico, sentire il peso di una colpa senza rimedio, guardare negli occhi il bambino cui è stato sottratto il padre. E ancora, andare via – per non farvi ritorno – dal luogo cui sentivamo di appartenere. Che non ci vuole più, e ci respinge. Ormai a noi estraneo. Tutto questo lo “viviamo”, lo sentiamo, insieme a lui, il protagonista della storia. Eroe ed antieroe insieme, interpretato dall’ottimo Guillaume Canet, perfetto tanto nel ruolo del “duro” (come da manuale) quanto in quello di compagno premuroso e tenerissimo padre. Apprezzabile anche la prova di Stéphane Caillard, nel ruolo di Léo, coraggiosa con naturalezza, ora nella lotta ora nella resistenza. Ad vitam. Per la vita.
data di pubblicazione:12/01/2025
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniela Palumbo | Dic 22, 2024
Una giovane donna, di ritorno da un breve viaggio nell’Oklahoma delle proprie origini, sbarca all’aeroporto JFK di New York. Il tragitto in taxi, più lungo del previsto, sarà l’occasione per intraprendere una conversazione illuminante con Clark il tassista. Quasi un gioco della verità, favorito dall’iniziale anonimato e dalle ombre della notte, in quella che è annunciata da lui come la sua “ultima corsa”.
Immaginate, una notte qualunque, di scivolare dentro un taxi, convinti che questo vi riporterà a casa nel breve spazio di qualche chilometro. E di ritrovarvi, invece, a bordo di una sorta di macchina del tempo. Dove l’ora che vedrete scattare sul tassametro, al vostro ingresso, non è altro che l’inizio di un conto alla rovescia, verso un passato che riemerge per lasciarsi vivere ancora. Immaginate, alla guida, uno sconosciuto. Uno “del mestiere”. Di cui dovrete fidarvi, comunque. Al quale consegnerete alcune delle “cifre” della vostra vita, a cominciare dal numero della via dove abitate (tra la quarantaquattresima e la nona – dirà la ragazza; un incrocio che sembra quasi il convergere di due sinfonie). E poi, lungo tutto il percorso, un unico paesaggio: gli occhi, lo sguardo di lui, quasi sempre attraverso lo specchio retrovisore. Beffardo, ironico e provocatorio. Ma anche intenerito, addolorato, commosso.
Primissimi piani dell’uno e dell’altra protagonista – Sean Penn e Dakota Johnson, ispirati nelle loro rispettive parti – con inquadrature spesso al limite dell’invadenza, lasciano trasparire stati d’animo fugaci e svelti come le ruote sull’asfalto. I pensieri fluiscono, lungo tutto il film, inseguiti dalle parole, dalle tante domande. E l’abitacolo dell’auto diventa alcova di paure e desideri.
Quanto è difficile svelarsi ad uno sconosciuto? Quanto sospetto, quanta diffidenza o indifferenza fanno il paio con quel gesto ormai troppo consueto di pagare con la carta, o digitando codici “senza mai aprire la borsa”?
Eppure è proprio l’incontro fortuito di due solitudini nella notte – uomo e donna, tassista e passeggera – a dare la misura di quella che è la dimensione umana. Guardarsi, chiamarsi per nome, raccontarsi, provare compassione. Senza vergogna né imbarazzo. Come in un gioco, si vince o si perde (da due a zero a due pari e poi oltre…), ma essendo comunque esentati dal giudizio.
E mentre i messaggi dell’anonimo (o innominato) “uomo sposato”, sul telefono di lei, incalzano con la loro ortografia difettosa, rivelatrice di ben più gravi “errori” (Your’re skin * your), le mani del tassista battono il tempo sul volante. Un tam tam quasi tribale, autentico, scandisce un qui ed ora che non ha alcunché di finto, né di virtuale. Sebbene spesso si richiami ad una surrealtà più prossima al sogno, o alla memoria – forse distorta – di quel passato lontano. Hai mai danzato per tuo padre? – chiederà lui, rabdomante metropolitano, quasi evocando quella “danza della pioggia” che ha del primitivo e del prodigioso insieme. Lui, disilluso dalla vita eppure ancora pieno di tenero vigore, verso se stesso e verso ogni sconosciuto compagno di viaggio, con una storia da raccontare.
E così scorre e si snoda tutto il film, in un percorso che quasi vorremmo non finisse più, che non giungesse mai a destinazione. Per non separarci da loro, il tassista e la ragazza. Che sentiamo vicini, tra di loro e a noi stessi. Per ragioni diverse, simili a noi. Come fratelli che non sapevamo di avere.
data di pubblicazione:22/12/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniela Palumbo | Dic 16, 2024
È una spy story in piena regola. Orchestrata con sufficiente maestria e ben confezionata. Ci sono segreti, innanzitutto. Coperture che a volte si svelano, o che vengono svelate, strada facendo. Colpi di scena, colpi inferti alle spalle, colpi al cuore. Il gioco degli inganni – condito con l’immancabile presenza accessoria di oggetti misteriosi e messaggi sibillini – è il filo conduttore della storia. Come nella migliore tradizione del genere, da “Intrigo internazionale” ai mitici 007.
Il tratto più originale della serie – sebbene non proprio inedito nell’ambito dei film di spionaggio – è la presenza di una eroina. Helen, interpretata da una matura e sofisticata Keira Knightley, è la “colomba nera” (black dove) richiamata al nido dai suoi datori di lavoro clandestini.
La affianca, nel suo volo solitario, un vecchio amico, Abile quanto lei, fragile più di lei, Sam (Ben Whishaw) si delinea come un personaggio a tuttotondo. Commuove il suo amore mai sopito per Michael (Omari Douglas), che ha dovuto abbandonare anni prima, dopo averne messo in pericolo l’incolumità. Fa sorridere il suo destreggiarsi tra i tanto attesi messaggi di lui sul cellulare (“Ti ho pensato moltissimo“) e lo scoccare degli ultimi secondi utili, nel bel mezzo di un’operazione ad alto rischio. Ma soprattutto colpisce la sua dimensione umana, fatta di antichi rimorsi e insieme di immutata lealtà per la compagna di “avventure”.
Al contrario lei, Helen, elegante e carismatica come si addice al ruolo, offre di sé un ritratto appena abbozzato. Madre di due figli, pare esserlo soltanto quando si tratta di dare libero sfogo alla propria rabbia, col pretesto di proteggerli dalle minacce dei nemici. È moglie di un uomo che non ama, ma per la cui devozione sembra essere quasi grata. È stata, infine, amante di quell’enigmatico Jason di cui si dice ancora “innamorata” e per il quale è disposta a tutto. Lui, assassinato in circostanze oscure, misteriose almeno quanto questo sentimento, o passione che sia, che non arriva allo spettatore se non attraverso qualche breve flashback al ralenti.
Ben addestrata a “studiare tutte le uscite”, a individuare strategie e vie di fuga, Helen finisce per risultare – proprio lei – un personaggio un po’ sfuggente. Una “colomba” scappata da una indefinita gabbia, che non sa bene dove volare né dove restare, dall’inizio alla fine della vicenda.
L’unico punto fermo nella notte inutilmente accesa di luci natalizie è, forse, l’amicizia. Grazie a Sam, antieroe che si evolve, nel corso dell’intera storia, mantenendo comunque salde le sue radici. “Ti aspetto qui. Se non hai bisogno di me, chiudi le tende“.
data di pubblicazione:16/12/2024
da Daniela Palumbo | Dic 12, 2024
La famiglia Pierce ogni anno celebra il Natale con addobbi festosi e filmati ricordo, perché nulla vada perduto. La perdita improvvisa del padre tanto amato, però, porterà apatia e malumore, e una triste rassegnazione. Mamma lavora in ospedale con turni impietosi, il figlio maggiore frequenta cattive compagnie e non crede più nel Natale. Ma la piccola Kate, proprio la sera della vigilia…
Potrebbe essere un film di Natale come tanti, da guardare una sera in famiglia. Protagonista è Santa Claus con la sua slitta trainata da renne volanti e il suo inconfondibile costume rosso fuoco. Prima della sua apparizione, quasi ad annunciare il suo arrivo, una bambina davanti a una videocamera accesa riprende se stessa mentre affida a lui speranze e desideri.
È la storia nella storia, o meglio il sogno nel sogno. Ed ha inizio tra le pareti di quella casa che la morte prematura del papà ha reso desolata e spoglia. Pareti troppo anguste per i due giovani “eroi”, il fratello maggiore “Teddy bear” e la sorellina Kate (Judah Lewis e Darby Camp). Insufficienti a contenere tanto la voglia di evasione dell’uno quanto le fantasticherie dell’altra.
Babbo Natale è la via di fuga che si materializza all’improvviso, come un’uscita d’emergenza indicata da scie luminose. È la magia “in carne ed ossa” – con meno carne di quanto ci si aspetti, in realtà ( “I cartelloni pubblicitari mi ingrassano di quaranta chili almeno!”).
Uno strepitoso Kurt Russel dà vita ad un personaggio scanzonato, ironico e a tratti irresistibilmente vanesio. L’interpretazione del suo “Santa”, determinato a riparare la propria slitta per consegnare in tempo tutti i doni, attinge al repertorio dei ruoli più cari al cinema americano. Driver spericolato sulle strade di Chicago, stuntman sui tetti delle case, gangster per una notte e rockstar d’eccezione dietro le sbarre. Sempre e comunque ostinato nel voler difendere lo “spirito del Natale”, a tutti i costi. Diverte e commuove, questo “San Nick” che chiama per nome chiunque incontri, nel corso di questa sua breve avventura. Buoni o cattivi – che importa – ciascuno ha un nome, un’infanzia, un giocattolo preferito da ricordare, un sogno, realizzato o infranto. E lui li ricorda tutti.
E cosa c’è di più magico di questo? Qualcuno che ti conosca veramente. E che si ricordi di te, di com’eri… Un vero “miracolo” che in fondo ogni essere umano desidera, a tutte le latitudini e su tutte le strade del mondo. Non solo nella trentaquattresima.
data di pubblicazione:12/12/2024
Scopri con un click il nostro voto:
da Daniela Palumbo | Dic 6, 2024
con Anna Raimondi, Maurizio Maiorana, Sebastiana Eriu, Vincenzo Crivello
(Teatro Santa Cecilia – Palermo, 5 dicembre 2024)
È molto umana, la Rosalia di questa pièce teatrale. Nel suo esilarante monologo di apertura quanto negli accesi dibattiti con gli altri personaggi. Da san Benedetto il Moro al Genio di Palermo.
Patrona della città, per aver liberato i suoi abitanti dalla morsa della peste diversi secoli or sono, Rosalia è una donna stanca, esausta. Scalza e a tratti discinta. Sfinita da quattrocento anni di “santità”. Una santità profanata da ridicole processioni in abiti carnascialeschi. Una donna, dunque. Che troppi anni di solitudine – sull’eremo della Quisquina o nelle grotte del Monte Pellegrino – hanno fatto dimenticare “cosa sono gli uomini”. Cosa sono veramente, questi uomini? Sono lingue, innanzitutto. Lingue che parlano, o pregano, comunque chiedono. Con grida sguaiate o con cantilene monocorde. Oppure con tono sommesso, come quello di cui Belzebù in persona (che qui ha la voce di Ricky Tognazzi) riveste le proprie lusinghe.
Sono uomini diversi, che invocano – ciascuno per sé – il miracolo. Ma solo quando il male estremo li “tocca” da vicino, pronto ad esplodere come un bubbone. E una sola donna, una “santuzza”, costretta in un diminutivo mortificante malgrado la sua antica aspirazione a compiere il più “grosso” dei miracoli, in una città così controversa. Di acque dolci e fiele.
Si prepara al “festino”, come ogni anno, Rosalia. Acconciata e abbigliata come un fenomeno da baraccone, con l’ausilio della sua Perpetua, incarnazione dello spirito popolare (al femminile) più devoto e fedele. Ma sognando una sacralità silenziosa. Come quella della Natura, madre e dea, consolatrice delle miserie umane. E qualcuno che non la lasci da sola “in mezzo ai botti”. E magari, di poter scrivere un libro, con la sua vera storia.
Perché “una donna può rinascere al mondo solo se racconta sé stessa”.
data di pubblicazione:6/12/2024
Il nostro voto:
Gli ultimi commenti…