da Giovanni M. Ripoli | Set 11, 2020
In un Auditorium, necessariamente a ranghi ridotti, ma alla presenza di un pubblico competente e caloroso, lo scorso 6 settembre ci è stato regalato un riuscito mix di parole&canzoni&musica&poesia con l’idea di partenza del treno, chiara metafora delle tante facce degli USA.
A guidare il simpatico drappello Alessandro Portelli, americanista, profondo conoscitore e da anni frequentatore della letteratura e della tradizione musicale americana. Così, in poco meno di due ore, partendo da un evento storico, la costruzione delle ferrovie, che avrebbe cambiato le sorti del paese e di tante persone (i capitalisti ,gli operai, i neri, gli indiani) e attraverso la mediazione di letture (Whitman, Emerson, Thoreau, Tom DeLillo) e canzoni (i gospels, i blues, le ballate di Woody Guthrie, Johnny Cash, ma anche Elvis, Springsteen e Tom Waits) i “nostri” hanno deliziato e incuriosito la platea. Una lezione di storia in musica, promossa dalla casa editrice Laterza con la collaborazione del Circolo Gianni Bosio, affidata a collaudati interpreti e giovani talentuosi. Un viaggio che ci ha condotto nei paesaggi western dell’America di metà’800, con il treno che si fa strada portando con sé lo sfruttamento e la sofferenza degli operai della ferrovia, il viaggio dei tanti hobos alla ricerca della “promised land”, la rivoluzione industriale e la nascita del grande capitalismo, ma anche il declino del treno a vantaggio dei trucks e di quelli che noi chiamiamo Pullman. Così, le parole di Alessandro Portelli, hanno trovato eco nelle letture di brani di importanti scrittori, ben interpretate da Margherita Laterza e nelle canzoni magistralmente cantate da Gabriele Amalfitano ben spalleggiato ancora da Margherita (sorprendente voce soprano) e dal puntuale Matteo Portelli, efficace poli strumentista. Dunque, con il treno a far da filo conduttore tante cose accadono durante, Mistery Train e sulla scena tutto fila a meraviglia, fra nostalgia, rabbia, mito di un paese che non è solo quello che appare, ma che ha a che fare con l’immaginario di ciascuno di noi. Lo spettacolo verrà replicato in diverse città ed è comunque ascoltabile gratuitamente su molte piattaforme di streaming. Vale la pena recuperarlo.
data di pubblicazione:11/09/2020
da Giovanni M. Ripoli | Lug 3, 2020
Predestinato a primeggiare nelle classifiche dei libri più venduti in tutto il mondo è in libreria il nuovo romanzo del giovane talentuoso e fortunato autore svizzero. Ma qualcosa non va…
“Quando si vuole veramente credere a qualcosa, si vede solo quello che si vuole vedere”. Così nella quarta di copertina del nuovo robusto (632 pagine) romanzo dello scrittore ginevrino, autore di alcuni dei più clamorosi casi editoriali degli ultimi anni. Si potrebbe dire che dopo qualche iniziale difficoltà a farsi pubblicare (è lui stesso a raccontarcelo) non abbia mai sbagliato un colpo. La Verità sul caso Harry Quebert (2013), fu un successo planetario, ma anche i successivi, Il Libro dei Baltimore (2016) e La Scomparsa di Stephanie Mailer (2018) furono “best seller”, probabilmente a ragione.
Dickert ha la capacità di costruire ingranaggi quasi perfetti, sa descrivere i personaggi, sa muoversi, come il più scaltro e consumato dei registi, su piani temporali diversi, passato e presente, romanzo nel romanzo, cambi di ritmo continui che intrigano lettori di ogni latitudine. Evidente, quindi, che ogni sua novità venga accolta con entusiasmo. E’ accaduto, sta puntualmente accadendo, anche con, L’Enigma della camera 622 (già il più venduto in Italia e Francia), comprato a scatola chiusa e inevitabilmente destinato al successo.
Confesso di essermi entusiasmato per i precedenti romanzi di Dickert, ho giudicato La Scomparsa di Stephanie Mailer il suo migliore, ma…de gustibus…, mi sono pertanto fiondato nella lettura del suo ultimo robusto e complesso enigma. Aggiungo che fino a pagina 470 circa, quasi tutto è filato, as usual, a meraviglia. Il “quasi” è legato a un certo fastidio legato ad una certa ostentazione dell’autore nel raccontarsi romanziere di successo, ma, ci può stare. Come sempre, tutto procedeva a meraviglia”: c’era una storia, un delitto, un ambiente, meticolosamente descritto, personaggi dalla doppiezza giusta, c’era un Lui con l’aiuto di una Lei a investigare. Poi, qualcosa si è inceppato… Volutamente non vi sto raccontando la trama per due ragioni, primo perché è comunque “un giallo”, secondo perché dalla pagina che indicavo la trama subisce uno scarto improvviso (in negativo) che a mio giudizio porta il racconto dalle parti del Diabolik delle ottime sorelle Giussani…e non aggiungo altro. Magari non tutti troveranno scellerato “il colpo di teatro” dell’autore come il sottoscritto, ma, onestamente, tutto l’andamento finale del racconto è, diciamo, un tantino sopra le righe. Lascio ai lettori l’ardua sentenza e mi aspetto una versione cinematografica o seriale come da copione.
data di pubblicazione:3/07/2020
da Giovanni M. Ripoli | Mag 15, 2020
Nella City del 2011, Massimo Ruggero è l’emergente della finanza: lavora per la NYLB di Londra, il cui CEO ,Dominic Morgan è considerato il drago planetario degli Hedge fund, in grado , per la sua spregiudicatezza nell’alta finanza di sconvolgere persino i destini di alcuni paesi. Fra finzione e realtà, nell’arco di 10 episodi, i diavoli della finanza si affrontano senza respiro…
L’inizio è dei migliori, il Ceo, Dominic Morgan (un viscido, ma fascinoso, Patrick Dempsey) spiega ai propri dipendenti l’essenza della finanza, ricorrendo a una storiella raccontata dallo scrittore David Foster Wallace nel suo discorso ai laureandi del Kenyon Collage. La metafora è che la finanza è invisibile e inodore come l’acqua per i pesci, ma le sue conseguenze possono condizionare ogni momento delle nostre esistenze. La fiction, deriva da un libro di successo di Guido Maria Brera, dal titolo I Diavoli, uno che ha conosciuto di persona le dinamiche “dell’ambientino”. Pur in una confezione eccessivamente patinata, tipica delle produzioni, ad alto budget, vengono mostrati gli inganni della finanza, ora con espliciti riferimenti alle reali crisi economiche di quegli anni, ora con avventure decisamente più romanzate, tra il thriller e la spy story. Al grande pubblico e alle gentili signore lo spettacolo è piaciuto: i due protagonisti maschili, Dempsey (il cattivo Morgan) e il nostro Alessandro Borghi (il meno cattivo, ma ombroso Massimo Ruggero) si sono divisi equamente il gradimento del gentil sesso. Le figure femminili, sono state affidate alla sofferente Signora Morgan, (una smunta Kasia Smutniak, da massimo due espressioni) e a Eleonor Burg (la longilinea Pia Mecher), fidata collaboratrice di Ruggero. La dolce anarchica, Sofia Flores, è interpretata da una spontanea, Laia Costa in un ruolo significativo di vera co-protagonista. La storia che non racconto, ma che sintetizzo, ricca di tradimenti, omicidi, pentimenti and so on, si muove al tempo della terribile crisi dell’Euro che coinvolse i così detti “paesi Piigs”, ovvero Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, e che costò sangue, sudore e lacrime a tanta gente. A gestire le dieci puntate, in verità, un po’ discontinue tra loro, due registi, Nick Hurran e Jan Maria Michelini. Come accennavo, la produzione non si è fatta mancare niente: scene credibili, per lo più, londinesi, ma non manca la piacevole parentesi di Cetara, monitor giganti, fuoriserie, ragazze da urlo; tutto in linea con altri prodotti similari (stile,1992,1994). Certo, vedere i filmati dei disordini seguiti al fallimento dei Tango Bond argentini, o quelli della Grecia, “massacrata” dalla Troika o, l’attacco speculativo all’Italia, con l’aria che tira, qualche perplessità la suscitano.
In definitiva una fiction popolare su splendori e miserie morali della losca finanza.
data di pubblicazione:15/05/2020
da Giovanni M. Ripoli | Apr 16, 2020
John Dutton è l’erede di uno storico ranch nel Montana su cui domina alla pari di un feudatario. Vedovo, ha quattro figli adulti, tutti con caratterini niente male. Il ranch è attiguo alla riserva indiana. Figli a parte, deve vedersela con il losco impresario che vorrebbe sfruttare parte dei terreni del Dutton Ranch per trarne profitti più meno legali. La prima stagione non risolve niente, ma accade di tutto…
Guardare Yellowstone e partire per il Montana. Magari! Per ovvie ragioni, invece, possiamo solo limitarci a seguire la serie TV con Kevin Costner su Sky Atlantic e sognare, un giorno, di poter conoscere dal vivo uno dei posti più belli degli USA. Uno stato, non a caso definito, the Big Sky Country, confinante con il North e South Dakota a sud e il Canada al nord; una terra sconfinata con una densità di popolazione pari a 3 abitanti per kmq( altro che il “distanziamento sociale”…) e per gli amanti dei western la località del Little Big Horn di custeriana memoria…Ma torniamo alla nostra serie, che, dopo il successo riscontrato negli USA (dove ne sono già state trasmesse due intere stagioni) rischia di diventare l’ennesimo tormentone che si protrae per “n” annate. Abbiamo seguito la prima con interesse ed emozioni contraddittorie; da un lato, lo splendore dei posti, la perfezione maniacale, della sceneggiatura, degli attori, della colonna sonora (country songs di alto livello), della fotografia, dall’altro, storie e drammoni già visti, seppure riciclati in salsa western-moderno. I personaggi? Buoni, neanche tanto, ma comunque rudi e conservatori, cattivi come solo i moderni speculatori sanno essere, il tutto, se vogliamo, già visto dai Borgia in poi, ma, ripeto, confezionato in modo così sapiente (i giovani direbbero “paraculo”, absit verbis iniuria) da costringere lo spettatore a volerne sapere ancora di più, dopo la prima stagione che lascia con un finale che più aperto non potrebbe. Nelle prime nove puntate, godibili e ri-godibili sulle varie piattaforme Sky, a farla da padrone in tutti i sensi è stato Costner, anche tra i producers della serie, nei panni di John Dutton, intransigente cow boy-allevatore, vecchio patriarca di una famiglia, composita a suo tempo, scioccata dalla scomparsa dell’amata madre. Con figli così e un contesto di convivenze complesse è chiaro che tutto non poteva risolversi facilmente e in breve. Detto della impeccabile regia e sceneggiatura di Taylor Sheridan ( I Segreti di Wind River, Hell or High Water, Soldado, Sicario), un plauso va ai notevoli interpreti , a parte Costner che sembra avviarsi a ruoli alla John Wayne, la sensuale Kelly Reilly (la sciagurata ma intensa figlia Beth), il tormentato Luke Grimes, novello Dean (Kayce Dutton), il viscido ma fascinoso Wes Bentley (il figlio Jamie, avvocato dalle aspirazioni politiche), il super cattivo Danny Huston (Dan Jenkins), e i molti altri non citati, ma tutti puntuali nelle rispettive caratterizzazioni. Per concludere e in estrema sintesi, ecco quanto accade in Yellowstone I: John Dutton cerca di proteggere il proprio ranch (il più grande di tutti gli USA) da speculatori, dalla Riserva Indiana (non tutti i pellerossa sono buoni…) dal Primo Parco Nazionale. È chiaro che non poteva farcela in una sola stagione!
data di pubblicazione:16/04/2020
da Giovanni M. Ripoli | Apr 13, 2020
Pensate a uno scrittore che da 67, diconsi 67 anni, venda solo negli USA oltre 400 mila copie del suo primo romanzo e pensate allo stesso scrittore che all’apice di un successo planetario si segrega per sua scelta a Cornish nel New Hampshire dove vive fino alla sua morte. Niente contatti con la stampa, l’editoria, la TV (l’esatto contrario dei nostri Carofiglio, Scurati, Sgarbi et similia…), nessuna stramaledetta voglia di pubblicità, né di avere
una vita pubblica, soltanto la legittima aspirazione ad essere lasciato in pace e a scrivere regolarmente per sé stesso, per il suo esclusivo piacere.
Questo scrittore era Jerome David Salinger che, nel 1951 a seguito della pubblicazione di The Catcher in the Rye, era divenuto il più popolare autore statunitense grazie al suo romanzo dal titolo intraducibile (alla lettera suonerebbe come “ il coglitore nella segale”(?)o, liberamente pensando alla figura del “catcher” nel baseball” il prenditore nel whiskey”). Da noi fu, direi opportunamente, reintitolato Il Giovane Holden, dal nome del protagonista Holden Caufield: il libro presto divenne quasi una Bibbia prima per le giovani generazioni americane e poi per quelli di tutto il mondo, incluso, modestamente, lo scribente. Molti sanno che al momento del suo arresto, l’assassino di John Lennon aveva in tasca una copia del romanzo. Pochi mesi prima, uscendo per un attimo dal suo ostinato isolamento, Salinger aveva dichiarato: “Holden non è che un istante congelato nel tempo”, in buona sostanza prendendo le distanze dall’eroe del suo romanzo.
La singolarità dell’uomo, agli occhi dei media, sostanzialmente un asociale, rischia di far passare in secondo piano la sincerità e la modernità del suo libro (per quello che risulta ad oggi, la sua completa carriera di esaurisce in altre tre opere, in verità meno esaltanti) “ Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e come è stata la mia infanzia schifa…e tutte quelle baggianate alla David Copperfield , ma a me non va proprio di parlarne” Così si presenta al mondo (ad oggi si contano traduzioni in 23 lingue) quel giovane studente del Pencey di Agerstown in Pennsylvenia, un tipetto da prendere con le molle, certamente l’opposto dello studente-medio dei “collage” americani ante ’68. “L’aria era fredda come i capezzoli di una strega”(che fantasia!), allorché il nostro eroe sta per tornarsene a casa (New York) con il fardello di 4 bocciature su cinque; in testa ha il suo “dannato” berretto rosso. Ha salutato amici e nemici, ha preso il treno, non senza aver attaccato bottone con la graziosa madre di un suo odiato compagno di scuola, è sceso alla Penn station, ma, invece che a casa decide di farsi accompagnare all’Hotel Edmont… Non avendo voglia di dormire, scende nel night dell’albergo (la sala Lilla) e a seguire compie piccoli innumerevoli viaggi in taxi… avventure che oggi farebbero sorridere i parroci della Valsugana, ma che colpiscono l’immaginario del tempo.
Tutto quello che fa Holden a New York in una giornata (Dimenticatevi l’Ulisse di Joyce, per carità!) per ammazzare il tempo in attesa di andare a sbattere la faccia contro i suoi è quanto di più faceto – non senza qualche frecciatina di morale – si possa leggere da Twain in poi nella letteratura americana. Oltre la storia, un mero pretesto, Giovane Holden è (o forse dovrei precisare “era”) un campionario di trovate e soluzioni solo apparentemente giovaniliste: un romanzo che rompe e in modo drastico con un certo frustro sentimentalismo, ancora in auge nella letteratura yankee del tempo, di cui Salinger non sa che farsene, spinto com’è dalla molla di una sempre più caustica ironia. Ma non è solo nell’ironia e nello stile che riproduce in larga misura lo slang dei giovani newyorchesi dei primi anni ’50, le ragioni del successo, che sfociano invece negli indefiniti confini del modo stesso di pensare, essere (o desiderare di essere) di molti americani. Holden dà un calcio all’”American Way of Life”, non prende decisioni, non s’impegna, rifiuta le proprie responsabilità, finendo col divenire una sorta di “dropout”, di “tramp” che va per il solo gusto di andare, anticipando o riprendendo, a seconda dei casi, vecchie storie di vagabondaggi, dagli “hobos” agli eroi di London prima e di Keruac poi.
Holden /Salinger, non ha illusioni né reticenze, non è negativo, ma non ha gli entusiasmi tipici del buon americano, non ama nessuno (tranne la simpatica sorellina Phoebe, una sorta di antesignana di Lucy dei Peanuts…), persino nelle peregrinazioni notturne non ha mete precise. A lui basta andare oziando, mantenendo dentro di sé un sano atteggiamento critico, verso il mondo degli adulti che lo circonda. Quasi scusandosi coi lettori che lo hanno seguito nella storia che ha narrato in prima persona, conclude con un malinconico finale. “…non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti!”
Inevitabilmente, la conclusione ci riporta alla mente, J.D.Salinger, grande scrittore triste e schivo che, relegato da solo a Cornish non riuscì comunque mai a farsi dimenticare.
data di pubblicazione:13/04/2020
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