da Giovanni M. Ripoli | Dic 4, 2021
La vicenda ruota intorno al faticoso viaggio in auto cui si sottopone per gratitudine, un arzillo vecchietto (?) ex campione di rodeo per riportare dal Messico in Texas il figlio di un suo datore di lavoro. Il ragazzo va sottratto alla madre messicana alcolizzata. Durante il viaggio fra i due nascerà un rapporto di solidale complicità.
Credo, nell’occasione (l’uscita del 40esimo lungometraggio di Eastwood), che buona parte della critica si sia fatta condizionare dalla statura del grande regista californiano, perdendo di vista, in buona sostanza, la modestia complessiva di Cry Macho. Da GranTorino in poi, a mio parere, il suo ultimo grande film, è iniziata una dignitosa ma inevitabile parabola discendente dell’ormai novantunenne attore e regista, vera icona della cinematografia e giustamente insignito di ben quattro Oscar. Non so se Cry Macho segnerà il suo definitivo congedo dal set, ma per non inficiare una carriera spettacolare attraverso un finale con pellicole insignificanti forse sarebbe giusto fermarsi qui. Sulla scia di, The Mule, ma con ancora meno frecce al suo arco, Clint, regista e attore, ripropone stancamente la favola del vecchietto ex qualcosa (qui cow boy ex stella di rodei) che compie atti eroici e/o sciagurati alla ricerca di nuovi stimoli. Ascrivibile al genere western moderno, Cry Macho (Macho non è lui ma il nome del gallo del ragazzo) ne riprende alcuni tratti: le fughe, gli inseguimenti, le scazzottature, naturalmente i cavalli, qualche paesaggio, il tutto condito da po’ di country music Le modalità non divergono molto da quelle di The Mule, ma qui il fiato si fa più corto, alcune scene sono imbarazzanti (il fascino che esercita sulle donne…) o improbabili ( quando monta cavalli imbizzarriti o sferra cazzotti degni di Mohamed Alì). La trama poi, quanto mai melensa, è degna del peggior Muccino: il giovane Rafo (l’attore messicano Eduardo Minett, bravino) con il suo gallo da battaglia Macho (sua la migliore interpretazione…) spera di ritrovare il padre e il sogno americano oltre il confine e Mike Milo (un Eastwood inevitabilmente insecchito e ingobbito) rappresenta la sua ultima speranza. Milo ha una grande sensibilità verso gli animali (si offrirà come veterinario in un piccolo villaggio messicano) e le vedove (flirterà con la padrona di una posada) e questo offre al regista momenti di pause nel viaggio on the road verso il Texas . Tratto dal romanzo del ‘75 scritto da N. Richard Nash, Cry Macho, tocca dirlo, è il peggior film di Eastwood ma non cambia il giudizio complessivo sulla sua straordinaria carriera (un titano come lo fu John Ford), ma ne segna una evidente battuta d’arresto che a oltre novant’anni gli si può comunque perdonare.
data di pubblicazione:04/12/2021
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da Giovanni M. Ripoli | Ott 21, 2021
Si racconta degli inizi, della vita, della crescita e del talento di Zlatan Ibrahimovic, icona del calcio mondiale. Si parte dalla sua infanzia nelle periferie svedesi. Una famiglia di immigrati balcanici che a fatica va avanti senza togliere peraltro ai figli la possibilità di studiare e praticare sport. La scuola non è l’attività preferita del piccolo Zlatan che trova invece nei campi di calcio la ragione di vita…fino a diventare un giovane campione e passare dal Malmo all’Ajax e poi alla Juventus… ed è a questo punto che la pellicola s’interrompe, dal momento che il resto è … “storia di successi” che ancora continua.
Chi si aspettava un docu-film sul famoso attaccante (uno che ha vinto quasi tutto nelle più prestigiose squadre del mondo di calcio) potrebbe rimanere deluso dalla pellicola di Sjogren, regista pubblicitario con al suo attivo diversi film in Svezia (mai distribuiti da noi). Il calciatore compare, in realtà, solo nei titoli di testa e di coda e in poche immagini di repertorio. Sono invece attori, anche molto espressivi, a interpretare il campione nelle diverse età della vita: bambino e giovinetto di belle speranze. Siamo quindi di fronte al “solito” film su uno sportivo (ma potrebbe essere una rock star) che parte da situazioni problematiche: ambiente, famiglia, scuola, coach, fidanzate, avversari per trovare, infine, la strada più congeniale ed esprimere il proprio innegabile talento. Personaggio non facile, poco incline a sottostare alle regole, l’esistenza del piccolo Zlatan, per come la racconta lui stesso nella sua biografia (Io, Ibra) e Sjogren in un racconto onesto seppure benevolo, non è stata una passeggiata, ma la forza interiore, la voglia di emergere, certamente il desiderio di riscatto sociale e naturalmente le sue doti ne hanno fatto il campione che tutti conoscono. I meriti del regista vanno ascritti a una narrazione sobria, a riprese di eventi sportivi (le partitelle fra ragazzi e poi quelle fra i team svedesi) assolutamente credibili, alla scelta degli attori protagonisti dai nomi impronunciabili (Granit Rushiti e Dominic A. Bajraktani) e dei loro comprimari (padre e madre del nostro) tutti perfetti nei rispettivi ruoli. E’ legittimo porsi una domanda: può interessare un pubblico vasto ed eterogeneo? Non saprei, ma ai giovani tifosi che conoscono e amano il calcio, certamente il film piacerà e credo anche per fanatismo/fideismo agli adulti tifosi di Juve, Inter e Milan, …che, da noi, non sono pochi. Altro è chiedersi se I Am Zlatan, sia un film da Festival o Festa del Cinema, e lì qualche dubbio rimane.
data di pubblicazione:21/10/2021
da Giovanni M. Ripoli | Ott 17, 2021
Evan Hansen, non è un ragazzo come tutti gli altri: è affetto da disturbo di ansia sociale e ha difficoltà a relazionarsi con i suoi coetanei. Ogni mattina scrive lettere a sé stesso come terapia suggerita dal suo psicologo. Un giorno, Connor, altro studente fuori di capoccia, appena conosciuto da Evan, gli ruba una lettera, che fa pensare ad una amicizia profonda tra i due. Connor si toglie la vita e questo innescherà una serie di equivoci che metterà Evan in rapporto con i genitori del ragazzo scomparso e con la di lui dolce sorellina. La bugia che dà origine a tutto non sarà, però, senza conseguenze…
Caro Evan Hansen è basato sull’omonimo musical di Broadway del 2015 che ha vinto ben sei Tony Awards, il massimo riconoscimento per le commedie musicali. Nell’adattamento cinematografico i produttori (uno dei quali padre di Ben Platt) hanno confermato come attori solo due dei talentuosi protagonisti, ovviamente, Ben Platt (Evan) e Colton Ryan (Connor), decisamente dei predestinati al successo: entrambi capaci di caratterizzare al meglio due personaggi complessi, due ragazzi che sanno recitare, cantare con voci emozionanti e ballare come acrobati. Del resto, il cinema di Stephen Chbosky non è nuovo alla narrazione di adolescenti problematici ed emotivi. Molti ricorderanno Charlie, il protagonista di Noi Siamo Infinito (2011), ottimo, riuscito progetto del quarantunenne regista di Pittsburgh, già autore del romanzo Il Ragazzo da Parete, da cui aveva tratto il film. Meriti non da poco vanno riconosciuti al co-autore della sceneggiatura, Steven Levenson, già librettista della versione andata in scena a Broadway , ai musicisti Pasek & Paul, cui si deve la splendida (a volte necessariamente ripetitiva ) colonna sonora e la maggior parte delle canzoni ben interpretate e rese da tutti gli attori – incluse Julianne Moore (la mamma di Evan) e Amy Adams (la mamma di Connor). Riconosciuti i “credits”, aggiungo solo che la pellicola pur rientrando nel nutrito alveo letterario e cinematografico dei “giovani eroi perdenti” (da Gioventù Bruciata a Giovane Holden, da Tom Sawyer a Martin Eden a vostra scelta…) ha una sua ragion d’essere. Il regista, infatti, supera quello che poteva tradursi nella rivisitazione dell’’ennesimo dramma giovanile di un ragazzo straordinariamente sensibile e quindi escluso dai “fichi” della scuola, e sceglie un differente metro per realizzare un film che attingendo al musical (e non il contrario) incuriosisce, commuove e rende lievi anche momenti oggettivamente drammatici, grazie agli inserti musicali cantati che non tolgono ritmo e ,senza mai annoiare , aggiungono sapore ad un progetto nel complesso nuovo. Film che sarebbe giusto far vedere alle giovani generazioni incapsulate in cellulari e tic toc di varia natura, ma che può essere goduto anche da adulti non inclini al cinismo.
data di pubblicazione:17/10/2021
da Giovanni M. Ripoli | Ott 5, 2021
Un giovane vedovo, che ha perso il lavoro, si nasconde col figlio nel sottotetto della ex abitazione spaventando chiunque tenti di abitarla. Con il bambino architetta una serie di situazioni (si fingono fantasmi) tali da terrorizzare gli aspiranti inquilini e indurli a lasciare presto la casa. L’arrivo di una giovane mamma israeliana con relativa figlioletta complicherà non poco le cose, anche per l’arrivo indesiderato del violento padre della bambina…
Ci si lamenta spesso e a ragione della debolezza delle sceneggiature dei film italiani: mancanza di idee, ricorso alla volgarità gratuita, trame ridotte a semplici sketches, presenza di attori che ripetono sempre se stessi. Godiamoci allora questo piccolo, diverso, I nostri fantasmi, sbucato dalla sezione Autori dell’ultimo Festival del Cinema di Venezia che, a dispetto della solita miope distribuzione vanta diverse frecce al suo arco. Per cominciare, ha un avvio intrigante: sembra un horror ma non lo è! Ha una storia abbastanza nuova e originale (la coppia che si nasconde nel sottotetto col papà che illude il figlio trattarsi di un gioco fra loro, i buoni e gli altri, gli invasori, i cattivi) che si dipana in diverse direzioni, tutte plausibili. C’è un’attenzione a problematiche, purtroppo sempre attuali: la disoccupazione, il razzismo, la violenza domestica, la rabbia sociale. Tematiche, peraltro, sfumate all’interno di un plot narrativo che ha un suo ritmo minimale, cadenzato, mai esagerato o urlato. È confortato dalla presenza di attori perfettamente a loro agio nei rispettivi ruoli: Michele Riondino (Valerio), un padre credibile, scarno e misurato pur se devastato da problemi terrificanti (mantenere un figlio, senza una casa, senza un lavoro, con i servizi sociali pronti a sottrargli il minore); Hadas Yaron (Miryam) la dolce ebrea, mamma di una piccina, in fuga da un marito possessivo e manesco, interpretato dall’accigliato e bravo Paolo Pierobon. Nei panni di un vicino, colonnello in pensione burbero-ma-comprensivo, Alessandro Haber, fa il suo.
A completamento dei meriti della pellicola di Alessandro Capitani, regista e co- sceneggiatore (già vincitore di un David di Donatello nel 2016 per il cortometraggio Bellissima) di questo gioiellino c’è da segnalare la sceneggiatura, (condivisa da Capitani con la già collaudata Francesca Scialanca e l’esordiente Giuditta Avossa) sincera, tenera, ma mai buonista, come pure il commento musicale di Michele Braga e l’attenta fotografia di Daniele Ciprì. Senza gridare al capolavoro, una piccola ventata di aria pulita nell’asfittico panorama del cinema autoriale di casa nostra.
data di pubblicazione:05/10/2021
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da Giovanni M. Ripoli | Set 19, 2021
Nell’anno 10mila e qualcosa, il duca Leto Atreides riceve dall’imperatore l’incarico di governare un pianeta difficile ma strategicamente fondamentale per l’Imperium ( fornisce, infatti, una spezia/droga vitale per la sopravvivenza e per tante altre cose…) Leto, casca coscientemente nel “trappolone” e si reca nell’inquietante e poco accogliente pianeta con compagna e figlio Paul, speranzoso di trovare negli abitanti, alleati alla sua causa. Ma nel sottosuolo ci sono i “vermoni” e tutto si complica.
Ci sono diversi modi di approcciare la fantascienza, in generale, e un film, come, il Dune di Villeneuve, in particolare. In modo dissacrante (possibile che nell’anno 10mila non abbiano i cellulari e si vestano come nel Medioevo?) o più convenzionale (nel robusto libro di Frank Herbert c’è tutto: un cupo futuro, l’imperialismo, l’ecologia, il buddismo zen, figure messianiche).
Se nell’introdurre la trama ho ironizzato, questo non significa che la pellicola sia di bassa lega, ha, invece, una sua valenza, non tanto nella narrazione degli eventi che il bravo Villeneuve ha, fortunatamente, semplificato, quanto nel come il regista abbia saputo organizzare (con dollari e tecnologia) e rendere visivamente accattivante le “solite” guerre stellari. Villeneuve ha già dato prova di conoscere il mestiere: Arrival e Blade Runner 2049, sono frecce importanti al suo arco e ne hanno fatto uno dei migliori registi di fantascienza fra i contemporanei. Quest’ultimo, Dune, preceduto 40 anni prima dal confuso film di David Lynch zeppo di“vermoni” e Risiko e dal tentativo abortito di Jodorowski (visibile nel documentario di Frank Pavich del 2013), ha ben altro spessore e rappresenta il primo capitolo di una saga che nelle mani di Villeneuve è “tanta roba”, per dirla coi “giovani”. In dettaglio, gli elementi che rendono la pellicola non marginale sono parecchi: attori del calibro di Timothèe Chalamet, Zendaya, Oscar Isac, Josh Brolin, Javier Bardem , Rebecca Ferguson che sanno il fatto loro e rendono credibili i loro rispettivi personaggi senza strafare. Gli effetti speciali? Per fortuna niente a che vedere con gli esasperati modelli Marvel: nello specifico, sono credibili e non posticci (tranne forse gli ornitotteri Atreides) e persino dei “vermoni” se ne fa un uso discreto. Non mancano poi scenografie e costumi fascinosi, una fotografia eccellente (Greig Fraser), musiche calzanti e poderose (Hans Zimmer) e tanti riferimenti a realtà più attuali che lascio all’intuito e alle diverse sensibilità degli spettatori, aspettando, naturalmente, il secondo capitolo!
data di pubblicazione:19/09/2021
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