ANSELM di Wim Wenders, 2023

ANSELM di Wim Wenders, 2023

Documentario sulla vita e le prestigiose opere di Anselm Kiefer . L’artista tedesco, pittore e scultore è considerato uno dei più grandi artisti tra il XX e XXI secolo. Il pluripremiato regista, Wim Wenders ci regala uno straordinario lungometraggio sul Maestro tedesco. Un affresco girato con la tecnica del 3D che ne esalta attraverso allegorie, figure, installazioni, forme e contenuti, l’importanza del suo percorso artistico ed esistenziale

 

Come raccontare un artista, come renderlo personaggio autentico e affascinante. Lo sa bene un grande cineasta quale, Wim Wenders che, non pago del successo di Perfect Days, ci regala un’ennesima perla della sua straordinaria filmografia. Di recente, si assiste al proliferare di docu-film sulle vite e opere di artisti e musicisti, non ultimo, quello su Edward Hopper. Quasi sempre, tocca dirlo, si tratta di onesti compitini ben svolti e improntati sul grado di interesse che generano presso il grande pubblico i personaggi coinvolti. In questo caso, invece, tutto viene stravolto dall’aspetto visivo (un consapevole utilizzo del 3D), dalla tecnica magistrale di Wenders, dall’imponenza delle opere di Kiefer, come dai luoghi e dalle storie narrate. Niente viene lasciato al caso, si parla, e spesso è l’artista stesso (ripreso ora bambino, ora giovane adulto, ora uomo maturo) a farlo attraverso le sue parole. Si racconta a tutto tondo, in modo a volte cruento, a volte poetico, sempre sontuoso, un uomo e il suo percorso esistenziale e artistico. Anselm, artista monumentale, sognatore, indagatore dell’animo umano, consapevole fustigatore dei costumi, capace anche di terribili provocazioni, per esempio, ai danni dei suoi stessi compatrioti, allorché poco inclini o pigri nel rinnegare il nazismo. Come l’uomo, geniale e controverso, così la sua opera fatta di eccessi, di ombre e di colori, di materia viva, di fuoco e di fango, di misteri ed alchimie, di angeli e diavoli anche contemporanei.

La narrazione, però, non è mai didascalica e ovvia, ma procede per sbalzi e continui salti temporali, in grado di illuminare i progetti, le ispirazioni, il processo creativo di un uomo e di tutta una vita al servizio dell’arte e della conoscenza. Un’esperienza unica, un ritratto di artista, volto a far conoscere ad un pubblico più vasto un supremo artista contemporaneo e la sua monumentale produzione. Wenders con questo lavoro torna ai fasti del documentario, Il Sale della Terra sul fotografo Sebastiao Salgado che gli valse diverse candidature agli Oscar.

Prodotto da Road Movies e distribuito in Italia da Lucky Red. L’uscita del film in Italia è prevista per il 30 di aprile.

data di pubblicazione:29/04/2024


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VANINA, UN VICEQUESTORE A CATANIA di Davide Marengo – Canale5

VANINA, UN VICEQUESTORE A CATANIA di Davide Marengo – Canale5

Il vicequestore Giovanna Guarrasi, trentanovenne palermitana, detta Vanina, viene trasferita alla Mobile di Catania , dopo una brillante carriera nell’antimafia. A Palermo ha lasciato, il ricordo del padre tragicamente ucciso e Paolo Malfitano, magistrato antimafia e suo grande amore. A Catania vuole ritrovare se stessa …

Questa volta tocca a Canale 5 l’ennesima trasposizione in serie TV di romanzi “gialli” di successo in salsa siciliana. Dopo il capostipite, Montalbano sr., dopo Makari, dopo Montalbano jr, è ora il turno della vicequestore Vanina (la bella e brava Giusy Buscemi) a interpretare sul piccolo schermo l’eroina dei romanzi di Cristina Cassar Scalia, autrice originaria di Noto già baciata dal successo in libreria. I tre episodi finora trasmessi sono da considerare prodotti onesti se anche non indimenticabili: ben girati, arricchiti dalle splendide “location” di Catania e dintorni, dai frequenti siparietti gastronomici (qui la fanno da padroni brioche & granite), da sentimenti e relazioni che intercorrono tra i questurini. Gli attori se la cavano con mestiere ed ironia senza strafare , tranne il solito poliziotto scemo “alla Catarella” ormai un must di ogni questura… Dei tre episodi, finora trasmessi, ritengo il secondo Sabbia Nera, il più riuscito anche perché il più aderente al romanzo e il meglio strutturato come impianto poliziesco. Nell’ala abbandonata di una villa signorile alle pendici dell’Etna ancora avvolta da una pioggia di cenere, viene rinvenuto un cadavere mummificato da tempo. La casa è saltuariamente abitata da un bel tenebroso (a Roma si direbbe un “piacione”) che sembrerebbe l’unico erede della dispotica e ricca zia titolare della villa e di altre proprietà.

La bella e sveglia Vanina, con pazienza e un mix tra metodo induttivo e deduttivo, sempre assistita da un ispettore esperto, ma ancor più dal precedente questore in pensione (personaggio ricalcato sul Fermin di Petra Delicado – vedi Alicia Gimenez Bartlett-, antesignana di molte poliziotte), tra un salto a Palermo, per rivedere l’ex, la corte discreta di Manfredi, medico della scientifica, le avances del nipote, Alfio Burrano, giunge alla soluzione del non facile caso.

Degli interpreti ho segnalato il generale buon livello, poco incline ai consueti gigionismi da fiction italica. Bene l’attore e regista Corrado Fortuna che presta il volto a Manfredi, sobrio, Giorgio Marchesi nel ruolo del magistrato Malfitano, come pure Claudio Castrogiovanni, Carmelo Spanò l’insostituibile braccio destro della nostra. Detto dei pregi, non possiamo per questo sostenere che la fiction in questione si elevi oltre uno standard medio, cui le fiction nostrane ci hanno abituato. La confezione è la solita, il menù, già gustato: eroina carina, triangolo amoroso, a smussare l’intrico poliziesco, il costante riferimento al dramma della mafia e del padre ucciso in circostanze da chiarire, qualche inserto musicale e la disarmante bellezza della Sicilia ad amalgamare il tutto. Ovviamente le caratteristiche della serie e la candida bellezza di Giusy Buscemi, già miss Italia, sono sufficienti per un gradimento del pubblico e tanto basta!

Per altri approdi più impegnativi bisogna rivolgersi ai fratelli Cohen!

data di pubblicazione:11/04/2024

 

I VICERÈ, regia di Guglielmo Ferro

I VICERÈ, regia di Guglielmo Ferro

(Teatro Quirino – Roma, 29 novembre/4 dicembre 2022)

Liberamente ispirato, ma in realtà abbastanza fedele, al romanzo di Federico De Roberto, martedì 29 novembre 2022 ha avuto luogo al Teatro Quirino di Roma la prima de I Vicerè nella riuscitissima trasposizione scenica della compagnia del bravo Pippo Pattavina, per la regia di Guglielmo Ferro.

Pubblicato nel 1894 a pochi anni dall’uscita di Mastro don Gesualdo del Verga, il romanzo di De Roberto tocca uno dei più alti vertici della letteratura italiana, al pari del più celebre Il Gattopardo. Nell’opera si narra la saga della nobile, e discretamente corrotta, famiglia degli Uzeda destinati a dominare “a prescindere” dalle istituzioni governanti. Lo faranno durante la dominazione spagnola, sotto il Regno delle due Sicilie, dopo l’impresa dei Mille… non a caso la rappresentazione teatrale, come il romanzo, si conclude con il lapidario commento del cinico Don Blasco: “ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri!”. Se ci pensate, mutatis mutandis, non è differente dalla battuta che Giuseppe Tomasi di Lampedusa mette in bocca a Tancredi ne Il Gattopardo: “se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi!”. Forse il finale di De Roberto suona ancora più irridente, ma la sostanza sembra essere la stessa come pure l’affresco che riproduce attraverso le vicende degli Uzeda una realtà, purtroppo, immutabile nel tempo, quella di un / del potere legato alla ricchezza, al tradimento, alla finzione, all’ipocrisia. Tutto questo ed altro è ottimamente trasposto nella narrazione teatrale andata in scena al Quirino, dove, testo a parte, a farla da padroni sono stati gli ottimi e affiatati protagonisti dello spettacolo. L’io narrante, Don Blasco (splendidamente interpretato da Pippo Pattavina) è forse il personaggio più controverso, ma anche la figura centrale: è un religioso, invidioso, baro, “puttaniere”, meschino e reazionario. Intorno a lui tutta la famiglia non è esente dai vizi tipici della peggiore aristocrazia siciliana (e non solo). Nei diversi ruoli segnalo fra gli altri le puntuali interpretazioni di Sebastiano Tringali (lo zio progressista), Rosario Marco Amato e Francesca Ferro. La rappresentazione è di ottima fattura (dalla scenografia, ai costumi, alle musiche) e tiene sempre vivo l’interesse del pubblico: i dialoghi sono intelligenti, serrati e spesso ricchi di umorismo, merito certamente dell’incompreso De Roberto, ma anche della rilettura della regia teatrale odierna.

data di pubblicazione:30/11/2022


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BUTCHER’S CROSSING di Gabe Polsky, 2022

BUTCHER’S CROSSING di Gabe Polsky, 2022

(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)

La diligenza da Ellsworth conduce il giovane idealista,William (Will) Andrews a Butcher’s Crossing, un raggruppamento di poche fatiscenti baracche, sede dell’ufficio del signor McDonald, il più importante commerciante di pelli di bisonte del Kansas. Spera di trovare un lavoro, fare esperienze e guadagnare. Sconsigliato dal vecchio e disincantato rivenditore si offre comunque di partire per un rischioso viaggio a caccia di bisonti insieme ad un’altra spedizione di un cacciatore veterano che dice di conoscere una valle segreta ricca di mandrie. Si troverà coinvolto in una corsa drammatica e sconvolgente che lo segnerà a vita.

 

Come ci insegnano i grandi critici francesi, in particolare Andrè Bazin, il western rappresenta da sempre la mitizzazione della cultura americana. Questa fascinazione ha prodotto negli anni (fin dal cinema muto) una miriade di pellicole con ambientazione nell’Ovest degli USA. Si può dire che gradualmente, la narrazione ha fatto ricorso alla leggenda prima (eroi buoni e indiani cattivi) , poi alla storia (il revisionismo che ha chiarito i rapporti di forze). Siamo passati, quindi, per sommi capi e onore di sintesi, da Ombre Rosse del mitico John Ford a Balla coi Lupi di Kevin Costner, ovvero da un meraviglioso cinema di intrattenimento ad uno più attento alla storia e critico sul passato. Con Butcher’s Crossing il western segna un altro punto a suo favore, inserendosi nel solco del “western letterario” pur sempre nella sfera del revisionismo che, nell’occasione, parla del tema della distruzione dei bisonti da parte “dell’uomo bianco”. Il film come il bel romanzo di John Williams (l’autore del super best seller, Stoner) è una storia dura, spietata e refrattaria ad ogni romanticismo sulla speranza di poter controllare la natura. Ci sono scene che restano impresse nello spettatore: cavalli assetati, carri che precipitano verso torrenti, bufere spaventose e soprattutto la violenza dell’uomo verso le migliaia di placide bestie, i bisonti, uccisi senza necessità particolari. Ma, anche nei momenti di quiete , quando i quattro protagonisti si ritrovano nel fuoco di bivacco o quando sognano dolcezze o incubi, non c’è tempo per sentimentalismi di sorta. Come in Revenant (2015) di Inarritu che valse l’oscar a Leonardo di Caprio, anche Butcher’s Crossing ha una trama semplice che non racconterò, ma ha nei personaggi, nella natura e nella morale i suoi punti di forza. La regia di Polsky che è anche sceneggiatore con Liam Satre- Meloy è sobria ed efficace e, nell’occasione, pur stravolti dal blizzard e coperti da barbe e pellicce gli attori ben figurano.

Persino il tanto criticato, Nicholas Cage ( lo spietato Miller) , al primo western della vita,dopo oltre 100 film non tutti indimenticabili, fornisce una prova credibile , al pari del giovane e promettente , Fred Hechinger (il tenero Will Andrews ) e del rude Jeremy Bobb (lo scuoiatore di pelli , l’unico con un po’ si sale in zucca). Alla fine, tocca dirlo, quelli che escono meglio sono i poveri bisonti, inermi di fronte allo sterminio che nel 1874 portò il loro numero a ridursi a soli 300 esemplari rispetto ai sei milioni che pascolavano nelle praterie. Oggi, ce lo ricordano i titoli di coda, grazie all’impegno delle popolazioni native (gli indiani per intenderci) i bisonti sono ritornati in gran numero e sono specie protette e patrimonio della Nazione. Della serie “non è mai troppo tardi!”

E così anche narrando una storia del 1874 un film riesce a dare un contributo di verità a eventi storici per troppo tempo ignorati o manipolati.

data di pubblicazione:16/10/2022


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ASTOLFO di Gianni Di Gregorio, 2022

ASTOLFO di Gianni Di Gregorio, 2022

(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)

È la storia di un tranquillo pensionato, il professor Astolfo bla bla bla (cognome nobiliare) che, sfrattato d’improvviso dal suo appartamento romano, torna a vivere nella casa di famiglia in un paesino del centro Italia. Si ritrova nell’antico palazzotto di proprietà che, però, ha subito i segni del tempo, dell’incuria e delle intrusioni di vicini indesiderati e/o prepotenti. Il docile Astolfo s’imbatterà in personaggi dalle stravaganti e non sempre limpide esistenze, intratterrà cattivi rapporti con il potere locale (il sindaco traffichino e il prete, impiccione), e troverà, fuori tempo massimo, in una gentile appassita vedova, non ancora in totale abbandono, nuovi entusiasmi e gioia di vivere.

 

Dopo un ‘estate di block buster USA, eccessivi e ripetitivi, dopo i flop veneziani, dopo un autunno di soporiferi, ambiziosi polpettoni nostrani, (spesso derivazione di altrettanti gonfiati premi letterari), ecco tornare il fresco e semplice (nella migliore accezione del termine) cinema del bravo Di Gregorio. Astolfo, non diversamente da, Lontano, Lontano, è il prodotto pulito, autentico, privo di sovrastrutture e ambizioni esagerate e, proprio per questo, onesto e godibile che ci si aspetta dal regista romano. Non delude neanche la trama che ha una sua originalità e un suo fluire leggero, ironico e mai banale. Ancora una volta, il contesto, ieri Trastevere, oggi, Artena, dunque la piccola provincia, sono il centro della narrazione di Di Gregorio. In questo mondo, vero, reale, anche se non sotto i riflettori, si agitano piccoli protagonisti, persone con i loro difetti, i loro rimpianti, le loro speranze. È allora la normalità la vera cifra distintiva di questo cinema che trova in Di Gregorio il suo miglior narratore. Paradossalmente, i suoi film a basso costo sembrano più ricchi di tante pellicole inutilmente destinate a mercati d’oltre confine e le storie raccontate, certamente credibili e godibili in ogni paese. Scomodando paroloni si potrebbe parlare di riuscita antropologia provinciale, ma farei torto al regista, nonché co-sceneggiatore (con Marco Pettenello) e misurato interprete. Astolfo, è un film, ben girato, senza eccessi, efficace nella descrizione dei personaggi, un piccolo gioiello dal giusto carattere. Con Di Gregorio (Astolfo) reggono il gioco i bravi co-protagonisti: Alfonso Santagata (Carlo), Mario La Mantia (Daniel) Alberto Testone (Oreste) e la tenera e appassita Stefania Sandrelli (Stefania). Certamente una boccata d’aria fresca per un film che conferma il discreto (in termini di understatement) talento del bravo Gianni Di Gregorio.

Chiudo con una curiosità irrilevante: avete notato la spiccata somiglianza del regista col giornalista Antonio Padellaro (quasi un sosia giovane)?

data di pubblicazione:16/10/2022


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