da Giovanni M. Ripoli | Nov 30, 2022
(Teatro Quirino – Roma, 29 novembre/4 dicembre 2022)
Liberamente ispirato, ma in realtà abbastanza fedele, al romanzo di Federico De Roberto, martedì 29 novembre 2022 ha avuto luogo al Teatro Quirino di Roma la prima de I Vicerè nella riuscitissima trasposizione scenica della compagnia del bravo Pippo Pattavina, per la regia di Guglielmo Ferro.
Pubblicato nel 1894 a pochi anni dall’uscita di Mastro don Gesualdo del Verga, il romanzo di De Roberto tocca uno dei più alti vertici della letteratura italiana, al pari del più celebre Il Gattopardo. Nell’opera si narra la saga della nobile, e discretamente corrotta, famiglia degli Uzeda destinati a dominare “a prescindere” dalle istituzioni governanti. Lo faranno durante la dominazione spagnola, sotto il Regno delle due Sicilie, dopo l’impresa dei Mille… non a caso la rappresentazione teatrale, come il romanzo, si conclude con il lapidario commento del cinico Don Blasco: “ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri!”. Se ci pensate, mutatis mutandis, non è differente dalla battuta che Giuseppe Tomasi di Lampedusa mette in bocca a Tancredi ne Il Gattopardo: “se vogliamo che tutto rimanga com’è bisogna che tutto cambi!”. Forse il finale di De Roberto suona ancora più irridente, ma la sostanza sembra essere la stessa come pure l’affresco che riproduce attraverso le vicende degli Uzeda una realtà, purtroppo, immutabile nel tempo, quella di un / del potere legato alla ricchezza, al tradimento, alla finzione, all’ipocrisia. Tutto questo ed altro è ottimamente trasposto nella narrazione teatrale andata in scena al Quirino, dove, testo a parte, a farla da padroni sono stati gli ottimi e affiatati protagonisti dello spettacolo. L’io narrante, Don Blasco (splendidamente interpretato da Pippo Pattavina) è forse il personaggio più controverso, ma anche la figura centrale: è un religioso, invidioso, baro, “puttaniere”, meschino e reazionario. Intorno a lui tutta la famiglia non è esente dai vizi tipici della peggiore aristocrazia siciliana (e non solo). Nei diversi ruoli segnalo fra gli altri le puntuali interpretazioni di Sebastiano Tringali (lo zio progressista), Rosario Marco Amato e Francesca Ferro. La rappresentazione è di ottima fattura (dalla scenografia, ai costumi, alle musiche) e tiene sempre vivo l’interesse del pubblico: i dialoghi sono intelligenti, serrati e spesso ricchi di umorismo, merito certamente dell’incompreso De Roberto, ma anche della rilettura della regia teatrale odierna.
data di pubblicazione:30/11/2022
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Ott 16, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
La diligenza da Ellsworth conduce il giovane idealista,William (Will) Andrews a Butcher’s Crossing, un raggruppamento di poche fatiscenti baracche, sede dell’ufficio del signor McDonald, il più importante commerciante di pelli di bisonte del Kansas. Spera di trovare un lavoro, fare esperienze e guadagnare. Sconsigliato dal vecchio e disincantato rivenditore si offre comunque di partire per un rischioso viaggio a caccia di bisonti insieme ad un’altra spedizione di un cacciatore veterano che dice di conoscere una valle segreta ricca di mandrie. Si troverà coinvolto in una corsa drammatica e sconvolgente che lo segnerà a vita.
Come ci insegnano i grandi critici francesi, in particolare Andrè Bazin, il western rappresenta da sempre la mitizzazione della cultura americana. Questa fascinazione ha prodotto negli anni (fin dal cinema muto) una miriade di pellicole con ambientazione nell’Ovest degli USA. Si può dire che gradualmente, la narrazione ha fatto ricorso alla leggenda prima (eroi buoni e indiani cattivi) , poi alla storia (il revisionismo che ha chiarito i rapporti di forze). Siamo passati, quindi, per sommi capi e onore di sintesi, da Ombre Rosse del mitico John Ford a Balla coi Lupi di Kevin Costner, ovvero da un meraviglioso cinema di intrattenimento ad uno più attento alla storia e critico sul passato. Con Butcher’s Crossing il western segna un altro punto a suo favore, inserendosi nel solco del “western letterario” pur sempre nella sfera del revisionismo che, nell’occasione, parla del tema della distruzione dei bisonti da parte “dell’uomo bianco”. Il film come il bel romanzo di John Williams (l’autore del super best seller, Stoner) è una storia dura, spietata e refrattaria ad ogni romanticismo sulla speranza di poter controllare la natura. Ci sono scene che restano impresse nello spettatore: cavalli assetati, carri che precipitano verso torrenti, bufere spaventose e soprattutto la violenza dell’uomo verso le migliaia di placide bestie, i bisonti, uccisi senza necessità particolari. Ma, anche nei momenti di quiete , quando i quattro protagonisti si ritrovano nel fuoco di bivacco o quando sognano dolcezze o incubi, non c’è tempo per sentimentalismi di sorta. Come in Revenant (2015) di Inarritu che valse l’oscar a Leonardo di Caprio, anche Butcher’s Crossing ha una trama semplice che non racconterò, ma ha nei personaggi, nella natura e nella morale i suoi punti di forza. La regia di Polsky che è anche sceneggiatore con Liam Satre- Meloy è sobria ed efficace e, nell’occasione, pur stravolti dal blizzard e coperti da barbe e pellicce gli attori ben figurano.
Persino il tanto criticato, Nicholas Cage ( lo spietato Miller) , al primo western della vita,dopo oltre 100 film non tutti indimenticabili, fornisce una prova credibile , al pari del giovane e promettente , Fred Hechinger (il tenero Will Andrews ) e del rude Jeremy Bobb (lo scuoiatore di pelli , l’unico con un po’ si sale in zucca). Alla fine, tocca dirlo, quelli che escono meglio sono i poveri bisonti, inermi di fronte allo sterminio che nel 1874 portò il loro numero a ridursi a soli 300 esemplari rispetto ai sei milioni che pascolavano nelle praterie. Oggi, ce lo ricordano i titoli di coda, grazie all’impegno delle popolazioni native (gli indiani per intenderci) i bisonti sono ritornati in gran numero e sono specie protette e patrimonio della Nazione. Della serie “non è mai troppo tardi!”
E così anche narrando una storia del 1874 un film riesce a dare un contributo di verità a eventi storici per troppo tempo ignorati o manipolati.
data di pubblicazione:16/10/2022
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da Giovanni M. Ripoli | Ott 16, 2022
(Festa del Cinema di Roma, 13/23 Ottobre 2022)
È la storia di un tranquillo pensionato, il professor Astolfo bla bla bla (cognome nobiliare) che, sfrattato d’improvviso dal suo appartamento romano, torna a vivere nella casa di famiglia in un paesino del centro Italia. Si ritrova nell’antico palazzotto di proprietà che, però, ha subito i segni del tempo, dell’incuria e delle intrusioni di vicini indesiderati e/o prepotenti. Il docile Astolfo s’imbatterà in personaggi dalle stravaganti e non sempre limpide esistenze, intratterrà cattivi rapporti con il potere locale (il sindaco traffichino e il prete, impiccione), e troverà, fuori tempo massimo, in una gentile appassita vedova, non ancora in totale abbandono, nuovi entusiasmi e gioia di vivere.
Dopo un ‘estate di block buster USA, eccessivi e ripetitivi, dopo i flop veneziani, dopo un autunno di soporiferi, ambiziosi polpettoni nostrani, (spesso derivazione di altrettanti gonfiati premi letterari), ecco tornare il fresco e semplice (nella migliore accezione del termine) cinema del bravo Di Gregorio. Astolfo, non diversamente da, Lontano, Lontano, è il prodotto pulito, autentico, privo di sovrastrutture e ambizioni esagerate e, proprio per questo, onesto e godibile che ci si aspetta dal regista romano. Non delude neanche la trama che ha una sua originalità e un suo fluire leggero, ironico e mai banale. Ancora una volta, il contesto, ieri Trastevere, oggi, Artena, dunque la piccola provincia, sono il centro della narrazione di Di Gregorio. In questo mondo, vero, reale, anche se non sotto i riflettori, si agitano piccoli protagonisti, persone con i loro difetti, i loro rimpianti, le loro speranze. È allora la normalità la vera cifra distintiva di questo cinema che trova in Di Gregorio il suo miglior narratore. Paradossalmente, i suoi film a basso costo sembrano più ricchi di tante pellicole inutilmente destinate a mercati d’oltre confine e le storie raccontate, certamente credibili e godibili in ogni paese. Scomodando paroloni si potrebbe parlare di riuscita antropologia provinciale, ma farei torto al regista, nonché co-sceneggiatore (con Marco Pettenello) e misurato interprete. Astolfo, è un film, ben girato, senza eccessi, efficace nella descrizione dei personaggi, un piccolo gioiello dal giusto carattere. Con Di Gregorio (Astolfo) reggono il gioco i bravi co-protagonisti: Alfonso Santagata (Carlo), Mario La Mantia (Daniel) Alberto Testone (Oreste) e la tenera e appassita Stefania Sandrelli (Stefania). Certamente una boccata d’aria fresca per un film che conferma il discreto (in termini di understatement) talento del bravo Gianni Di Gregorio.
Chiudo con una curiosità irrilevante: avete notato la spiccata somiglianza del regista col giornalista Antonio Padellaro (quasi un sosia giovane)?
data di pubblicazione:16/10/2022
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da Giovanni M. Ripoli | Ott 4, 2022
Conosco troppo bene Daniele per cui stento a credere che questo sia veramente il suo ultimo libro. E penso da suo lettore che sia invece un bene che continui a sfornare ora saggi impegnati, ora gialli intriganti ora, come nella fattispecie, una singolare raccolta di racconti e -non solo- come reciterebbe una ovvia pubblicità. Nell’occasione si tratta, in realtà, di un “ibrido” in quanto contiene più situazioni non facilmente etichettabili.
Nel mondo delle fake news e della globalizzazione è difficile tracciare un identikit del ricco/povero Paese che è l’Italia. Ci prova attraverso il connubio letteratura/saggistica Daniele Poto che nell’antologia di racconti Veramente falso si destreggia tra realtà e virtualità rispondendo inconsciamente alla domanda: “Ma è un’autobiografia?” con l’ovvia replica: “Si, un’autobiografia ma di un altro”. Così scorre il racconto di un migrante che viene accolto ipocritamente con presunti buoni sentimenti da “politicamente corretto” che celano ben altro sottofondo, le vicende di un pugile un po’ coatto mandato allo sbando inseguendo il sogno americano, un femminicidio d’altri tempi nell’ancora profondo sud. Tipologie bizzarre che vanno a chiudere un insieme omogeneo. Come sottolinea la nota di copertina “il sottotesto disegna un’Italia gretta cinica e meschina con qualche sprazzo di vitalismo e un piccolo barlume di speranza”. Tra invenzioni vivaci e sulfuree osservazioni sulla vita di tutti i giorni come quando indica vari gradi di manutenzione (nell’amore, nella cura della città e delle amicizie). Il volumetto ha ambizione della piccola guida etica nel difficile percorso quotidiano e giunge alla fine di un lungo cammino dell’autore, intrecciato nella diversità, attraverso 23 libri. Sarà il punto d’arrivo dopo i dossier sulla mafia nel calcio, l’azzardo, la povertà? Poto lo promette anche in virtù della manifestata stanchezza di una parola scritta e raramente letta, memore di una statistica illuminante. Solo un italiano su due legge almeno un libro all’anno. Tendenza enfatizzata dalla pandemia: i lettori forti hanno aumentato le dosi, quelli deboli si sono dedicati al loisir delle serie televisive. La visione e la superficialità hanno avuto la meglio sull’approfondimento e la riflessione. E il mondo dell’editoria, sempre più crudele e vorace, ne paga immancabilmente le conseguenze. Ovviamente consigliato a quanti dispongono ancora di un cervello e di un cuore non atrofizzati
data di pubblicazione:04/10/2022
da Giovanni M. Ripoli | Ago 26, 2022
Ladybug (coccinella), un killer non particolarmente assistito dalla fortuna in altre missioni, per di più in crisi esistenziale, è inviato dal suo capo a Tokyo su un treno ad altissima velocità (?) con obiettivi apparentemente di facile soluzione (salire su un treno e recuperare una valigetta). Lo sfigato sicario non vuole deludere il committente ma l’avventura si complica a dismisura per la concorrenza inattesa di un manipolo di assassini ben più determinati del nostro. Seguono inenarrabili peripezie sul treno in corsa.
Presentato a Roma il 24 agosto nell’ambito della III edizione del Floathing Theatre, manifestazione ideata da Alice nelle Città (quasi a non farci rimpiangere le produzioni USA della gestione Monda della Festa del Cinema?), Bullet Train è un divertente action movie con un grande merito: non prendersi mai sul serio! Innegabili e dichiarati echi e crediti verso il cinema di Tarantino, di Park Chan-wook, di Guy Ritchie, di Bong Joon-ho: quasi omaggi, che sul concetto non originalissimo della sorte inanellano una serie di situazioni ora splatter, ora decisamente comiche, ora divertenti tout court. Il tutto al solo scopo di un totale divertimento cui per primi sembrano partecipare gli attori, individuati dal poliedrico David Leitch (Deadpool 2 e poco altro). Dunque, poco importa se nelle pieghe del racconto ci sono sprazzi di temi universali (la sorte che si può mutare) o filosofici , il film è un puro intrattenimento scanzonato, lo ribadisco, è come tale dev’essere fruito in tempi davvero grami per il cinema su grande schermo. Alla festa partecipa un cast di attori in grande, direi, grandissimo spolvero. Non c’è solo Brad Pitt , in splendida forma (le signore confermano!) a regalarci gags e scazzottature d’altri tempi. Con lui ci sono uno stuolo di grandi professionisti, tra cui cito Joey King, Aaron Taylor-Johnson, Brian Tyree e il super cattivo Michael Shannon, tutti in armonia, e, come dicono i “ggiovani” tutta gente fichissima! Adattamento per lo schermo di un best seller giapponese, I sette killer dello Shinkansen, dello scrittore Kotaro Isaka, Bullet Train è scritto da Zak Olkewicz e ben diretto da David Leitch, già stunt man di Brad Pitt in altre pellicole. Ovviamente il romanzo originario viene traslato secondo i parametri hollywoodiani accentuandone i momenti d’azione a scapito dei dialoghi filosofici e dei personaggi giapponesi, orientali, come pure il regista calca la mano sulla caratterizzazione dei criminali, un coacervo di mafia russa, Yakuza giapponese, killer statunitensi. Film corale all’insegna di intrattenimento “scacciapensieri”, un ibrido tra un film di Guy Ritche e uno di Quentin Tarantino. Un assordante ma giustificato commento hard rock si incastra alla perfezione.
data di pubblicazione:26/08/2022
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