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PARTHENOPE di Paolo Sorrentino (2024)

PARTHENOPE di Paolo Sorrentino (2024)

Una ragazza, Parthenope, che ha il nome della sua città, seguita in un percorso esistenziale che si confonde con la vita stessa di una Napoli di ieri e di oggi. Il tutto in “salsa” Sorrentino.

Dopo la prima in concorso al Festival di Cannes è sui nostri schermi l’ultimo parto cinematografico di Paolo Sorrentino, regista talentuoso ma divisivo: lo si ama o lo si detesta. Certamente il film non lascia indifferenti. Certamente non è lo stesso per chi è “napoletano” di nascita o di cuore e per chi è meno incline alla filosofia partenopea. Proverò dunque a esaminare la pellicola da una doppia angolazione, elencandone i motivi che possono indurre a considerarlo il miglior film del regista e le ragioni per considerarlo, invece, pretenzioso, autocompiaciuto e manierista, inutilmente “felliniano”.

Chi ha amato La Grande Bellezza non potrà che ritrovare in Parthenope la stilizzazione visiva, monologhi spiazzanti, personaggi originali quando non grotteschi, il mistero, lo stupore, alcune scene memorabili che non svelo. La musica in perfetta sintonia con le situazioni, tante battute e aforismi sull’amarezza della vita. Sorrentino ha dichiarato che È Stata la Mano di Dio rappresenta la sua giovinezza, Parthenope quella che non ha vissuto. In Parthenope, alla sua maniera, questo ha voluto rappresentare: una città che dagli anni ’50 in poi è stata una esperienza emotiva, sensoriale, intellettuale e visiva, ma al contempo goffa e tragica. Il regista sostituisce Jeff Gambardella con Parthenope (e questo già sarebbe un merito, vista l’espressività e la clamorosa bellezza di Celeste Dalla Porta) e ne fa la sirena che seduce i protagonisti della storia ma anche noi spettatori. Va detto che convincono altrimenti le altre interpretazioni seppure fortemente marcate quando non volutamente caricaturali affidate ad attori credibili. Il professore antropologo è Silvio Orlando. lo scrittore omosessuale, John Cheever il grande Gary Oldman, il vescovo Tesorone il vulcanico Peppe Lanzetta. E se la cavano anche un’imbruttita Luisa Ranieri e una seminascosta Isabella Ferrari, come nel finale ammiriamo una Stefania Sandrelli, quale Parthenope adulta..

Su tutti e tutte, però, come anticipavo, la totalizzante bellezza, freschezza e fascino di Celeste Dalla Porta probabile futura star del cinema italiano, perfetta nel ruolo di sirena e musa ispiratrice, nonché, per i detrattori del film la sola ragione che possa giustificare il prezzo del biglietto. Ma vediamo invece e in breve alcune delle ragioni di “ sconsiglio” per la pellicola in questione. Intanto diciamo che il film dura troppo in relazione alla storia, in fondo minima, che racconta. Quindi le decine di incisi di cui è infarcito il film possono risultare dei riempitivi a volte noiosi, improbabili e/o persino disturbanti. Si dice che il troppo storpia, bene, Sorrentino riempie la pellicola di tante, troppe, cose, dando la sensazione di film diversi tra loro. Quanto al livello intellettuale di alto profilo, siamo proprio sicuri che si tratta di arguti aforismi? Non è piuttosto il compitino di un buon liceale che vuole colpire con frasi solo apparentemente anticonformiste. E alcune scene, al di là, dell’uso sapiente della macchina da presa e di una fofografia impeccabile (ma il merito è di Napoli o di Capri) non sono inutilmente forzate?. E quanto c’è di un Fellini che non ce l’ha fatta in tanti personaggi caricaturali e grotteschi? In conclusione ci viene l’atroce dubbio che il film sia stato scritto magari per il mercato americano: ieri Roma, oggi Napoli, con la “speranzella” di un nuovo Oscar. Si tratterebbe allora di un film “furbo” studiato al tavolino, ma lascio agli spettatori il giudizio finale. Per quanto detto, un merito va comunque riconosciuto. Il film incuriosisce, porta gli spettatori a vederlo e farsene una propria insindacabile idea.

data di pubblicazione:30/10/2024


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ROAD DIARY: BRUCE  SPRINGSTEEN and The E street Band di Thom Zimny, 2024

ROAD DIARY: BRUCE SPRINGSTEEN and The E street Band di Thom Zimny, 2024

(19a FESTA del CINEMA di ROMA 2024)

Il tour mondiale di Bruce Springsteen con la sua formazione storica, la E street Band seguito con affettuosa partecipazione dal regista- fan Zimny. Indimenticabili concerti, prove di registrazione, il back stage, ma anche momenti più privati, il ballo con la mamma ultra novantenne e persino una preghiera laica. Tutto racchiuso in un pregevole documentario sulla leggendaria rock star.

Già nel 2019 con Western Stars il fido Zimny aveva regalato a se stesso e alle moltitudini di appassionati, sparsi in tutto il globe terracqueo (Meloni copy) un ritratto musicale ma anche intimo di Bruce Sprinsteen, in accordo con l’omonimo microsolco appena pubblicato. Torna nel 2024 con un’altra chicca, ovvero, un documentario che segue il Boss e la sua strepitosa band (la E street Band), a sua volta arricchita dalla presenza di altri eccellenti solisti e coriste, nel tour mondiale 2023-24. Concerti in tutto il mondo che segnarono il suo ritorno sulla scena dopo sette anni e la parentesi dovuta al Covid. Premesso che lo spettacolo di ottima fattura è destinato preferibilmente ai fan d Springsteen, ma un vecchio maestro del rock ancora sulla scena dopo 55 anni, unico autentico concorrente per longevità del Nobel Dylan e di quei ragazzacci degli Stones, non può che affascinare comunque, almeno per il talento artistico e l’umanità espressa. Il taglio scelto dall’occhio fidato di Zimny è infatti duplice: sicuramente memorabili concerti e le fasi di preparazione con il divertito back stage, ma anche momenti decisamente più intimi, considrazioni e riflessioni, anche profonde sulla vita e sulla morte. Non è un caso che Road Diary si concluda con la voce fuori campo di Springsteen nella recita di An American Prayer di Jim Morrison, l’autodistruttivo leader dei Doors: “O grande creatore dell’Essere/ concedici un’altra ora/per farci mostrare la nostra arte/ e rendere perfette le nostre vite.” È il finale scelto dal Boss per chiudere idealmente un percorso iniziato ufficialmente con l’album, Greetings from Ashbury Park, quando la sua chitarra non era certo molto popolare a casa sua. Di strada il ragazzo di Long Branch, New Jersey, ne ha fatta e tanta, senza perdere mai il tocco magico del grande artista ma pure quelle caratteristiche di umanità, quel radicato concetto dell’amicizia, quella coerenza che ne hanno fatto un personaggio iconico nel mondo. Thom Zimny e lo stesso Springsteen (che ha curato personalmente la scaletta e ogni dettaglio) sono stati capaci di rendere in poco meno di due ore la complessità di una storia di rock’n roll fra le più significative di sempre.

Il documentario sarà visibile in streaming sulla piattaforma Disney plus dal 25 ottobre.

data di pubblicazione:25/10/2024








THE DEAD DON’T HURT di Viggo Mortensen, 2024

THE DEAD DON’T HURT di Viggo Mortensen, 2024

Nel Nevada, prima dello scoppio della guerra di secessione americana, una coppia di immigrati, in fuga da drammi personali, tenta di ricostruirsi una nuova vita. Il luogo non è un posto facile, corruzione e violenza dilagano e mettono a dura prova le nobili intenzioni dei protagonisti.

 

Il genere Western, unico e immarcescibile si confonde e vive da sempre col Cinema e probabilmente, fra alti e bassi, classici e rivisitazioni, contaminazioni e influenze, mantiene una sua continuità. Certamente non è più sorretto dal costante successo di pubblico, come dimostra il quasi-flop del bellissimo, Horizon I di Kevin Costner, ma pur nell’evoluzione (?) del gusto degli spettatori, conserva la sua vigoria e una sua ragion d’essere. Ce lo conferma, il notevole, The Dead don’t Hurt di Viggo Mortensen, attore e regista di pregevole tatto e sensibilità. Va subito chiarito come, Mortensen abbia realizzato non un western classico, come Costner, ma, pur nutrito da western di notevole levatura, abbia preferito una rappresentazione diversa, quasi minimalista, certo non tradizionale. Qualcuno ha parlato di un western femminista, ma, certo, al di là di frustre etichettature, il focus della pellicola non è centrato tanto sul protagonista maschile, Holger, coraggioso immigrato danese, quanto su Vivienne, la fioraia franco-canadese fiera e indipendente. La sua storia, il suo vissuto di donna che rifiuta un matrimonio borghese, preferendo vendere fiori, la sua dolcezza, la sua forza morale, la sua adesione a una vita apparentemente priva di certezze con un fuggiasco, in un piccolo sperduto ranch, ne fanno il personaggio principe dell’intera vicenda, Mortensen regista affida ad una superba attrice, la lussemburghese Vicky Kreps, già etichettata come nuova Meryl Streep, il ruolo di Vivienne ed è lei, solo con i suoi sguardi, ha dar vita al personaggio centrale con una formidabile interpretazione. Tornando al film si è detto di un western atipico, poche sparatorie, paesaggi suggestivi ma non “ classici”, una colonna sonora originale, anch’essa opera di Mortensen, uno sguardo romantico a un mondo destinato a “finire”. C’è comunque una storia, declinata attraverso un montaggio che contestualizza in momenti differenti l’evolversi degli avvenimenti, C’ è la guerra di secessione, la violenza e la corruzione, la vigliaccheria, tutti caratteri distintivi del genere, ma nella mano di Mortensen vengono sfumati, alleggeriti, diventando simboli quasi contemporanei. Diversamente da Costner ma anche dal subime, Gli Spietati di Eastwood lo schema di Mortensen non è quello di Ford, Hawks, Mann, meno incline alla violenza tout court o alla vendetta come fine ultimo dell’eroe, è incentrato invece sulla psicologia dei personaggi, più intimo, privilegia le tensioni emotive, si colloca all’interno del genere “crepuscolare” e con un occhio al passato allude al presente ( le guerre, le banche, il ruolo della donna). Perchè vederlo si è detto, perché potrebbe invece deludere? Naturalmente per le ragioni opposte: poca azione, pochi cavalli, inseguimenti, sparatorie. Resta alla fine del viaggio la consapevolezza di uno spettacolo che sovverte gli archetipi del genere e ne propone una nuova scrittura con al centro una donna nella sua nobile e drammatica intensità.

data di pubblicazione:24/10/2024


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ROAD DIARY: BRUCE  SPRINGSTEEN and The E street Band di Thom Zimny, 2024

BERLINGUER, LA GRANDE AMBIZIONE di Andrea Segre, 2024

(19a FESTA del CINEMA di ROMA 2024)

Incentrato su alcuni momenti salienti della vita di Enrico Berlinguer, storico leader del PCI. In particolare, si fa riferimento al lungo e difficile cammino che avrebbe potuto portare il Partito Comunista Italiano, primo in Europa, a guidare il Paese, attraverso un dialogo con la Democrazia Cristiana, in quello che fu chiamato Compromesso Storico, ovvero il tentativo di costruire il socialismo nella democrazia. I fatti racconteranno un’altra storia!

 

Dopo, Andreotti (Il Divo, diretto da Paolo Sorrentino), Berlusconi (Loro, ancora di Sorrentino) e Craxi (Hammamet di Gianni Amelio), tocca ad Enrico Berlinguer, peraltro già omaggiato in diversi film-documentario, sin dal lontano 1984, anno dell’addio a Enrico Berlinguer di Bernardo Bertolucci, l’onore di una importante produzione cinematografica per la regia di Andrea Segre. Che il personaggio, uomo e politico sia stato importante, amato e comunque rispettato anche dagli antagonisti lo dimostrano, per restare nel mero segmento cinematografico, i tantissimi tributi (film, docu-film, trasmissioni tv) a lui riservati negli anni dai vari Minoli, Mellara, Samuele Rossi, l’immancabile Veltroni (Quando C’era Berlinguer) solo per citare i più noti.

In questi casi, ovvero pellicole su personaggi, specie se politici, molto amati o molto divisivi, il rischio che si corre è quello di farne dei “santini” o dei “mostri”. Il film del bravo Segre cerca in qualche misura di superare questi schemi. Parte dal titolo con l’incipit di Antonio Gramsci :” Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione che è indissolubile dal bene collettivo”. Chiarendo in primis che è al bene fatto popolo che guardava il giovane segretario del più forte partito comunista d’Europa nei difficili anni Settanta.

Anni in cui alle difficoltà interne, salari, occupazione, sanità (non è che Segre fa parlare il suo Berlinguer di quello che succede oggi?) si aggiungono le forti divergenze con l’URSS di Breznev. La linea tracciata da Berlinguer e chiaramente non gradita a Mosca, sarà quella di muoversi nell’alveo di un socialismo che si allinea alle regole democratiche. L’episodio dell’incidente stradale in Bulgaria, nel quale il leader italiano rimase leggermente ferito, racconta di come le sue posizioni non fossero molto in sintonia con quelle sovietiche. L’iter della pellicola per rimanere al Berlinguer- politico continua con le costanti clamorose vittorie elettorali del PCI (ma anche il Golpe in Cile, la vittoria nel referendum per il divorzio) e al contempo gli incontri con gli omologhi leader democristiani nell’ ambizioso tentativo di governare insieme il Paese. Ambizione che si tradurrà in illusione con la morte di Aldo Moro da parte delle cd Brigate Rosse. Ma, rispetto a una storia politica, già molte volte narrata e purtroppo nota, il film di Segre si distingue per la ricostruzione del privato di Enrico Berlinguer. Minuziosa e credibile è la fotografia del vissuto familiare come della coralità che ruota intorno al politico sassarese. Qui il plauso va esteso agli ottimi interpreti dal solito, per bravura riconosciuta, Elio Germano, un Berlinguer non imitato ma fedele, alla dolce Elena Radonicich nel ruolo della moglie Letizia. Ma sorprende in positivo Paolo Pierobon, persino migliore a mio parere dell’Andreotti di Servillo. Tutto il cast in ogni caso si è perfettamente calato nei rispettivi ruoli e stiamo parlando di alcuni dei migliori attori di casa nostra: Roberto Citran, Paolo Calabresi, Giorgio Tirabassi, Francesco Acquaroli, etc

A completare la buona impressione che il riuscito film di Segre ha destato, regista a parte, sono i meriti da ascrivere al co-sceneggiatore Marco Pettenello, all’autore del montaggio Jacopo Quadri e alle musiche originali di Iosonouncane.

data di pubblicazione:17/10/2024








BRENNERO – serie Tv su RAIUNO, 2024

BRENNERO – serie Tv su RAIUNO, 2024

A Bolzano cresce l’inquietudine per una serie di delitti che lasciano pensare a un serial killer. Una giovane PM, figlia di un magistrato e un ispettore caduto in disgrazia, si ritrovano a districare la complessa vicenda. Assai liberamente ispirata a quella del c.d. Mostro di Bolzano che riempì anni prima le cronache giudiziarie.

Non capita spesso, ma anche RAI riesce a sorprenderci con delle realizzazioni di buon livello. È il caso di Brennero, fiction articolata nella sua prima stagione in 8 episodi della durata di 50 minuti ciascuno. La serie è diretta da Davide Marengo e Giuseppe Bonito che si alternano alla regia ed è trasmessa su RAI UNO dal 16 settembre al 7 ottobre. Interamente fruibile su RAIPLAY da subito. A beneficio dei più giovani, ricordo che l’Alto Adige o Sud Tirol che dir si voglia, fu teatro negli anni a cavallo tra il 60 e il 70 di una serie di attentati dinamitardi da parte di frange separatiste di lingua tedesca che miravano a separarsi dall’Italia ed essere riannessi al Tirolo austriaco. Fortunatamente le cose si risolsero attraverso interventi repressivi e diplomatici e la pace tornò in quelle meravigliose lande.

Riguardo alla fiction che è definibile di genere “giudizial-poliziesco” va detto che qualche rimando a quella storia, seppure larvato, c’è, come pure non è sottaciuta la differenza tra gli abitanti di Bolzano appartenenti alle due differenti etnie. Vivaddio! I protagonisti parlano ora italiano ora tedesco (gentilmente sottotitolato). C’è dunque nella produzione un’attenzione, inconsueta per questo genere, dettagli di non poco conto. Peraltro risulta apprezzabile la caratterizzazione dei protagonisti e degli altri interpreti. Nei ruoli principali Elena Radonicich è la bella PM, Eva Kofler, ovviamente di lingua tedesca, ma quando serve con perfetto italiano in quanto funzionaria dello Stato. Abbastanza credibile nel ruolo di PM alle prime armi, seppure inevitabilmente criticata in quanto figlia dell’ex Capo Procuratore e moglie del Prefetto. Eva viene affiancata nelle indagini dal bravo e più che mai tenebroso, Matteo Martani nel ruolo di Paolo Costa, ispettore refrattario alle gerarchie, ma dotato di fascino e buon intuito. L’incipit della storia è il ritrovamento del cadavere di un uomo di cultura tedesca che induce gli inquirenti a pensare al serial killer, noto come “il Mostro-di-Bolzano” che già negli anni prima aveva compiuto sei delitti ai danni di uomini di madrelingua tedesca. Proprio l’ispettore Costa, a suo tempo, alla ricerca di questo assassino, era stato vittima di un incidente in cui aveva perso la vita la sua collega di indagini e lui stesso ci aveva rimesso una gamba. Della vicenda si era interessato il Procuratore Gerhard Kofler, padre di Eva, ora in pensione e malato di Alzheimer. Inutile dire che inizialmente i rapporti professionali e personali fra la PM e l’ispettore non saranno dei migliori, ma, si sa, nelle fiction RAI, in seguito tendono a migliorare su ogni versante. Dunque, nonostante qualche inevitabile stereotipo e situazioni di raccordo volte ad allungare “il brodo” (ma lo fanno tutti gli scrittori nostrani di gialli!), gli episodi si dipanano intriganti e risultano ben girati e con ambientazioni suggestive e non usuali. Del cast ho già elogiato i meriti, direi quindi che, al di là delle inevitabili critiche dei giallisti doc, si tratta di una serie di livello superiore alla media e certamente godibile.

data di pubblicazione:29/09/2024