da Giovanni M. Ripoli | Dic 30, 2017
I valori della tolleranza e della contaminazione alla prova dell’incontro-scontro tra il centro della città e la sua periferia, con gli immancabili stereotipi e le eterne verità.
Giovanni (Antonio Albanese), collabora con il suo think tank a progetti destinati a migliorare le condizioni delle aree più disagiate nei grossi centri urbani e si fa carico di proporre a Bruxelles tali istanze. A principi ispirati alla tolleranza e alla “contaminazione” fra le diverse classi ed etnie, ha impostato la sua vita e quella della sua unica figlia. Quando la sua bambina di tredici anni inizia una relazione con un coetaneo che vive nella malfamata realtà di Bastogi, un ghetto alla periferia della Capitale, è allora che cominciano a traballare le sue convinzioni. Ancora di più, dopo il primo incontro con Monica, la madre del ragazzetto (una Paola Cortellesi vivacemente “coatta” e combattiva). Al primo scontro-incontro, i due genitori, seppure con differenti approcci, convengono che i loro figli potrebbero subire un pericoloso contraccolpo da tale improbabile infatuazione destinata a finire “come un gatto in tangenziale“, e iniziano a pedinare i figli. Fra alterne vicende, scopriranno che in fondo non sono poi così diversi e che qualche forma di integrazione- attrazione è sempre possibile anche fra gli opposti.
Riccardo Milani, che già aveva sperimentato la coppia Albanese-Cortellesi (Mamma o Papà) sviluppa insieme alla stessa Cortellesi, a GiuliaCalenda e Furio Andreotti, co-sceneggiatori, una trama non particolarmente originale che consente di raccontare due volti molto diversi di Roma e della sua gente: una intellettuale, borghese, in fondo ipocrita e una fin troppo “borgatara”. Senza scendere a livello dei film natalizi autoctoni, Come un gatto in tangenziale, rimane una commediola, moderatamente divertente con qualche intento sociale vanificato dal macchiettismo dei personaggi. Mantiene un suo minimo decoro grazie alle buone interpretazioni di Paola Cortellesi in un ruolo che ne esalta le doti di attrice brillante e di Antonio Albanese, sobrio e convincente nei panni dell’intellettuale in crisi fra “pensiero e realtà”.
Fra i co-protagonisti nella divertente e colorita fauna di Bastogi troviamo le gemelle, Alessandra e Valentina Giudicessa, nei panni delle sorellastre di Monica, Pamela e Suellen, irresistibili nel ruolo di ladre “compulsive”, Claudio Amendola, truce, quanto basta, la sempre impeccabile, Sonia Bergamasco, madre snob-sessantottina, e naturalmente i due ragazzi, Agnese (Alice Maselli) e Alessio (Simone De Bianchi).
Nel complesso, non indimenticabile, ma moderatamente godibile.
data di pubblicazione: 30/12/2017
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da Giovanni M. Ripoli | Dic 13, 2017
So che qualcuno potrebbe storcere il naso riguardo alla scelta di recensire una serie televisiva e per di più prodotta da Netflix … lo so il cinema è un’altra cosa! Ma Godless, la mini serie ideata e scritta da Scott Frank che è stato sceneggiatore di film quali Malice, Get Shorty, Out of Sight, Minority Report, The Wolverine e Logan, per citare i più conosciuti, ha troppi meriti per non essere inserita fra i piccoli gioielli dell’anno. Intanto la produzione è a cura di Steven Soderbergh (Sex, Lies, and Videotape), a garanzia di stile e dialoghi di ottimo livello. Altro punto di forza è stato riuscire a rivitalizzare un genere, il western, che, seppure non è mai morto del tutto, ha perso negli anni il suo primogenio smalto. In Godless, come avrebbe detto il grande Tullio Kezich, c’è tutto, un concentrato di John Ford, la violenza di Sergio Leone e Sam Peckinpah, la nostalgia di Mann.
Naturalmente tutto questo non avrebbe senso se si trattasse solo di un esercizio ben fatto sul genere, va sottolineato, invece, che il tocco di Soderbergh si sente nel potente connubio fra storia (donne dure che difendono il loro paese oramai senza uomini) e dialoghi, fra racconto, sempre serrato e paesaggi, non senza trascurare (merito della narrazione seriale) i risvolti psicologici dei protagonisti, tutti interpretati da magnifici attori (su tutti Jeff Daniels) e attrici (la magnifica Michelle Dockery di Downton Abbey). Accennavo ai dialoghi sempre asciutti e mai banali ma tutto in questa rappresentazione del bene e del male riuscirà ad emozionarvi.
Con l’occasione segnalo a quanti hanno a cuore il cinema, la scomparsa di Vito Attolini, per anni critico della Gazzetta del Mezzogiono, autore di innumerevoli testi sul cinema, grande appassionato e splendida persona di cui sentiremo certamente la mancanza.
data di pubblicazione:13/12/2017
da Giovanni M. Ripoli | Nov 5, 2017
In una rassegna all’insegna dello sport non poteva mancare una pellicola sul tennis, disciplina di grande attrattiva per giovani e meno e molto seguita dal vivo e nelle televisioni.
Al cinema, però, il tennis non ha mai avuto la stessa fortuna. Qualche anno fa, Wimbledon ( film del 2004 diretto da Richard Loncraine , pur impreziosito dall’interpretazione di Kirsten Dunst, si rivelò un clamoroso flop , tanto per le maldestre riprese delle fasi di gioco che per la banale storiella imbastita. E persino in, Match Point (2005), di Woody Allen, le riprese delle partite risultavano involontariamente quasi risibili. Nel film proposto alla Festa del Cinema e premiato dalla giuria del pubblico, è vero casomai il contrario: le partite del Torneo di Wimbledon, 1980, ovvero la sfida fra due dei più grandi tennisti di sempre , sono decorosamente girate, credibili e a tratti avvincenti , mentre sono le vite fuori dal campo, seguite a mo’ di tragedia greca , a suonare francamente stonate. Peraltro, si intuisce facilmente che il regista, nella composizione del quadro psicologico dei due campioni, propenda decisamente per il connazionale a scapito dell’americano. Borg (bello e somigliante nell’interpretazione di Sverrin Gudnason, adulto, come bambino, in quella del vero figlio di Bjorn) è, infatti, misurato e corretto, sia pure interiormente dilaniato dalla prospettiva dopo quattro titoli vinti sul prato inglese, di poter perdere il quinto …nella storica finale a scapito dello “scavezzacollo” newyorchese . Mentre, John Mc Enroe (interpretato da Shia Lebouf , bravo ma poco somigliante all’originale) è una specie di discolo di talento , viziato, sempre pronto a contestare e insultare pesantemente arbitri e pubblico , incline all’ ira e al turpiloquio e , talmente incosciente o stupido , da trascorrere le serate prima degli incontri, bevendo e folleggiando in discoteca.
Chiunque capisca qualcosa di tennis sa che nessun atleta farebbe mai le cose descritte nel film la notte prima di un match di Wimbledon ( nella presentazione serale lo rilevava persino Panatta che non fu certo un francescano) e, al di là di qualche intemperanza, nella realtà, Mc Enroe fu, al pari di Borg, atleta vincente e amato dal pubblico per il suo estro e il suo gioco.
Per non farsi mancare nulla, la pellicola , nella sua ambizione di rendere “immortale” quella che fu solo una delle più avvincenti pagine del tennis moderno è appesantita da una colonna sonora drammaticamente struggente che sottolinea solennemente tutte le fasi della finale e – altra pecca da poco ,ma inspiegabile- nasconde i marchi dell’abbigliamento dalle divise dei protagonisti ( problemi di mancate sponsorizzazioni?). Al pubblico, però, il film è piaciuto ( applausi e Premio) e, si sa, il pubblico alla fine ha sempre ragione . Per i palati più fini, si rimanda ad altra occasione nella speranza di vedere finalmente un giorno un bel film sul tennis senza se e senza ma.
da Giovanni M. Ripoli | Nov 4, 2017
(12^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 26 ottobre/5 novembre 2017)
Considerato dai fan di Dylan il periodo peggiore della sua lunga e multiforme vita artistica il film ripropone stralci dei concerti immediatamente successivi alla pubblicazione degli album della cosiddetta “conversione al cristianesimo”( Slow Train Coming, Saved, Shot of Love).
Quindi, seppure in quegli anni la parabola musicale del menestrello di Duluth fosse oggettivamente in declino, per gli appassionati duri e puri l’idea di ascoltare un Dylan diverso (nei concerti ripresi ci sono solo brani relativi agli album cristiani) non era occasione da andare persa. Ecco, allora, che Lebeau va incontro a tale “esigenza” offrendoci filmati relativi a concerti obiettivamente meno noti intervallati da – più o meno insopportabili sermoni – letti dall’attore Michael Shannon e scritti da Luc Sante. Per onestà, va rilevato che i concerti ripresi non sono indimenticabili ma nel complesso di buona fattura. Come al solito, infatti, Dylan si accompagna a musicisti di ottimo spessore (Spooner Oldham alle tastiere, Jim Keltner alle percussioni, Tim Drummond al basso, in più coristi & coriste appassionati) anche se, ripeto, l’operazione non è destinata a lasciare tracce memorabili così come quei concerti (molta soul music, spruzzi & sprazzi di gospel, voce roca e profonda, cori di ampio respiro, nessun capolavoro). Il senso del film, escludendo quindi interpretazioni maliziose squisitamente commerciali, trova la sua ragion d’essere nel ritrarre, dal solo punto di vista musicale, uno spaccato del Neverending Tour del nostro amato premio Nobel, qui nel suo momentaneo passaggio al cristianesimo, parentesi forse prescindibile ma comunque interessante.
data di pubblicazione:04/11/2017
da Giovanni M. Ripoli | Ott 31, 2017
(12^ FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 26 ottobre/5 novembre 2017)
Selton Mello, uno dei più promettenti fra i cineasti brasiliani, complice il romanzo di Antonio Skarmeta, romanziere cileno che ha partecipato anche alla sceneggiatura del film, mette in scena un dramma familiare in salsa buonista, ma non stucchevole, che racconta uno spaccato della vita di Tony Terranova, giovane professore di provincia e dei suoi problemi legati principalmente al primo amore e alla apparentemente immotivata scomparsa del padre. Legato alla sua terra, alla sua amorevole madre, al suo lavoro di insegnante di francese e con grande amore per il cinema, Tony verrà a capo del mistero e troverà le risposte ai suoi conflitti generazionali.
Quindi, una storia semplice, quella di The Movie of My Life (Filme da Minha Vida), grande successo in Brasile ma certamente ascrivibile ad ogni latitudine, in quanto fa leva su sentimenti ed emozioni universali. La narrazione, ed è questo il maggior pregio della pellicola, scorre fluida e credibile, gli attori tutti a loro agio nei rispettivi ruoli, con citazioni d’obbligo per la deliziosa Bruna Linzmeyer, per il protagonista Johnny Massaro, sensibile idealista e per Vincent Cassel, il padre scomparso e ritrovato, mai stato così sobrio ed essenziale in un personaggio dalle variegate sfaccettature. Non trascurabili fra i plus del film, il peso della colonna sonora impreziosita da canzoni del repertorio francofono (Aznavour,ma non solo) e la splendida fotografia (ora luminosa ora virata seppia) in grado di riflettere un’ ambientazione che è a sud del Brasile (Rio Grande Sul) ma che potrebbe benissimo rappresentare qualsivoglia realtà rurale persino europea, come ad esempio l’arredamento del bordello della immaginaria Frontera odora di Francia. Mello certamente coglie l’atmosfera retrò della vicenda ma è abile nel renderla fruibile e attuale restando sempre con i piedi per terra senza cercare poesia ad ogni costo. Non marginale è un ultimo messaggio che The Movie Of My Life ci lascia, allorché (come già fu in Nuovo Cinema Paradiso) mostra quanto l’amore per il cinema finisca per rappresentare per il protagonista quasi una redenzione, una passione salvifica riconfermata dalle parole del regista durante la conferenza stampa: il cinema ad ogni latitudine ancora non vuole tramontare ed è ancora un sogno per tanti!
data di pubblicazione:31/10/2017
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