da Giovanni M. Ripoli | Gen 30, 2018
Berlino 1929, la Germania è a pezzi dopo la prima guerra mondiale e la città è sull’orlo di un abisso: complotti della destra nazionalista, rivendicazioni sociali , un clima di totale incertezza e dissolutezza. Nella città arriva da Colonia il giovane ispettore Gereon Rath , che, confinato alla buoncostume, ultima delle sue aspirazioni professionali, si trova a dover risolvere un caso piuttosto spinoso riguardante pornografia e mafia. Si troverà coinvolto in ben altre situazioni ( sono sedici gli episodi che compongono le due stagioni trasmesse da Sky Atlantic ). Avrà modo di stringere amicizie pericolose, immergersi nella vita notturna popolata di droga e night clandestini, sventare golpe, reprimere il primo maggio dei bolscevichi, indagare su un misterioso carico, forse d’oro, proveniente dall’Unione Sovietica e tanto altro… Al suo fianco la stenografa Charlotte, investigatrice in erba.
Tratto dal romanzoDer Nasse Fisch, di Volker Kutscher, la serie – le prime due puntate già ammirate prima alla Berlinale e poi alla Festa del Cinema di Roma – è un affascinante e conturbante affresco della Germania di Weimar e in buona sostanza un noir ad ampio spettro perfettamente rappresentato. All’opera, tre registi del calibro di Tom Tykwer (Lola corre), Achim von Borries e Henk Handloegten, mentre la produzione ha segnato l’inedita collaborazione fra colossi: X Film Creative Pool, ARD, Sky e Beta film. Non è questa la sede per discutere se le serie televisive siano cinema o qualcos’altro oggi, peggiore, migliore; resta la certezza che nell’occasione ci si trova di fronte a uno spettacolo a tutto tondo che riesce a coniugare una trama intrigante e complessa con una introspezione psicologica dei personaggi e una rivisitazione attendibile di un momento storicamente importante della vita della Germania. Nelle diverse puntate si accentua la natura goliardica del periodo storico: la Berlino nel 1929, era la capitale del mondo, una città internazionale, magica e cosmopolita. La ricostruzione delle strade (la scenografia curata da Uli Hanisch per Studio Babelsberg ha ricostruito perfettamente i diversi tipi dei quartieri di Berlino), i locali notturni e le stanze private testimoni di crimini, la sessualità cruda e dissoluta, le lotte sociali, la povertà e la disoccupazione crescenti in contrasto con gli eccessi e il lusso della vita notturna e dell’energia dirompente e creativa dei vari personaggi, tutto viene rappresentato in modo realistico e cruento. Il suo ideatore, il regista Tom Tykwer nella presentazione alla Berlinare 2017 aveva sottolineato:“È stato un momento di cambiamento politico, solo pochi anni prima dell’ascesa dei nazisti, e mentre nessuno aveva la più pallida idea di quello che doveva arrivare, in giro per la città era tutto in ebollizione”. Tra i meriti ascrivibili alla serie non può mancare la citazione per gli attori, Volker Bruch, asciutto e dilaniato protagonista ( il poliziotto buono) e la deliziosa Liv Lisa Fries,(la vulcanica Charlotte tuttofare), Matthias Brandt, nel ruolo dell’ambiguo Brenda collega di Rath in polizia, Leonie Benesch, la disorientata Greta e Severija Janusauskaite (nome quasi impronunciabile!) nei panni della perfida ma fascinosa Svetlana, tutti magnificamente calzanti nei rispettivi ruoli della produzione, pare destinata a proseguire, sull’onda del successo riscontrato.
Babylon Berlin si compone inoltre di una colonna sonora organica alla narrazione con le musiche che fanno da sfondo agli anni ’20 eseguite dalla Leipzig Radio Symphony Orchestra e dalla Absolute Ensemble, band elettro acustica da camera di New York. Di grande impatto alcune canzoni eseguite da Bryan Ferry, che, al solito fascinosissimo, compare altresì come attore-cantante di night in diverse puntate.
Da non perdere!
data di pubblicazione:30/01/2018
da Giovanni M. Ripoli | Gen 13, 2018
Dopo le modeste proposte in salsa natalizia, ecco finalmente “un film” da leccarsi i baffi. Parlo di Tre Manifesti a Ebbing, Missouri, la pellicola che ha vinto 4 Golden Globe, quasi un’anticamera degli Oscar e che già a Venezia (migliore sceneggiatura) era stata apprezzata ben più di Downsizing di Alexander Payne con Matt Damon in versione mini uomo. La regia e lo script sono del britannico Martin McDonagh, classe 1971, di cui molti ricorderanno il gioiellino In Bruges (2008) e 7 psicopatici (2012), ma la storia potrebbe benissimo essere scambiata per un film dei fratelli Coen. Anzi direi che è da un po’ che Joel ed Ethan non riescono a raggiungere i livelli della pellicola del giovane regista che ne segue le orme. Il racconto parte dalla ricerca di una madre, Mildred (una Frances Mc Dormand da Oscar) che lotta per ottenere verità e giustizia per la figlia stuprata, assassinata e bruciata alcuni mesi prima. Il colpevole ancora non è stato trovato e la disperata donna, già di suo fuori di testa, per ridestare l’attenzione, affitta tre vecchi cartelloni pubblicitari fuori Ebbing, Missouri, in cui addossa al locale capo della polizia William Willoughby (Woody Harrelson), che scopriremo malato di cancro al pancreas, la responsabilità delle mancate indagini. Tra gli sbirri, l’agente Dixon (Sam Rockwell, premiato ai Globes), abbastanza razzista, violento ed incapace non tollera le iniziative di Mildred e cerca in tutti i modi di ostacolarne il successo, consigliato fraudolentemente da una madre ancora più razzista e bigotta. Non aggiungo altro sulla trama per non sottrarvi il gusto dell’evoluzione della storia che ha tutti i crismi di un noir della provincia USA più retriva, nell’occasione perfettamente rappresentata con tanto di stereotipi politicamente e volutamente scorretti. Non mancano, alternati a momenti di violenza fisica e psicologica, attimi di sublime poesia come, ad esempio, nella rilettura della lettera di Willoughbly, appena morto. Siamo, dunque, ai massimi livelli del genere: al film di Mc Donagh non manca niente, il ritmo, le immagini, l’empatia e i dialoghi, duri e mai banali, persino l’ironia quanto basta. Il tutto, inclusi i comprimari dei protagonisti (la deliziosa Abbie Cornish e Lucas Hedges) e la significativa colonna sonora, a farne certamente uno dei migliori film dell’anno. Buona visione!
data di pubblicazione:13/01/2018
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da Giovanni M. Ripoli | Dic 30, 2017
I valori della tolleranza e della contaminazione alla prova dell’incontro-scontro tra il centro della città e la sua periferia, con gli immancabili stereotipi e le eterne verità.
Giovanni (Antonio Albanese), collabora con il suo think tank a progetti destinati a migliorare le condizioni delle aree più disagiate nei grossi centri urbani e si fa carico di proporre a Bruxelles tali istanze. A principi ispirati alla tolleranza e alla “contaminazione” fra le diverse classi ed etnie, ha impostato la sua vita e quella della sua unica figlia. Quando la sua bambina di tredici anni inizia una relazione con un coetaneo che vive nella malfamata realtà di Bastogi, un ghetto alla periferia della Capitale, è allora che cominciano a traballare le sue convinzioni. Ancora di più, dopo il primo incontro con Monica, la madre del ragazzetto (una Paola Cortellesi vivacemente “coatta” e combattiva). Al primo scontro-incontro, i due genitori, seppure con differenti approcci, convengono che i loro figli potrebbero subire un pericoloso contraccolpo da tale improbabile infatuazione destinata a finire “come un gatto in tangenziale“, e iniziano a pedinare i figli. Fra alterne vicende, scopriranno che in fondo non sono poi così diversi e che qualche forma di integrazione- attrazione è sempre possibile anche fra gli opposti.
Riccardo Milani, che già aveva sperimentato la coppia Albanese-Cortellesi (Mamma o Papà) sviluppa insieme alla stessa Cortellesi, a GiuliaCalenda e Furio Andreotti, co-sceneggiatori, una trama non particolarmente originale che consente di raccontare due volti molto diversi di Roma e della sua gente: una intellettuale, borghese, in fondo ipocrita e una fin troppo “borgatara”. Senza scendere a livello dei film natalizi autoctoni, Come un gatto in tangenziale, rimane una commediola, moderatamente divertente con qualche intento sociale vanificato dal macchiettismo dei personaggi. Mantiene un suo minimo decoro grazie alle buone interpretazioni di Paola Cortellesi in un ruolo che ne esalta le doti di attrice brillante e di Antonio Albanese, sobrio e convincente nei panni dell’intellettuale in crisi fra “pensiero e realtà”.
Fra i co-protagonisti nella divertente e colorita fauna di Bastogi troviamo le gemelle, Alessandra e Valentina Giudicessa, nei panni delle sorellastre di Monica, Pamela e Suellen, irresistibili nel ruolo di ladre “compulsive”, Claudio Amendola, truce, quanto basta, la sempre impeccabile, Sonia Bergamasco, madre snob-sessantottina, e naturalmente i due ragazzi, Agnese (Alice Maselli) e Alessio (Simone De Bianchi).
Nel complesso, non indimenticabile, ma moderatamente godibile.
data di pubblicazione: 30/12/2017
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da Giovanni M. Ripoli | Dic 13, 2017
So che qualcuno potrebbe storcere il naso riguardo alla scelta di recensire una serie televisiva e per di più prodotta da Netflix … lo so il cinema è un’altra cosa! Ma Godless, la mini serie ideata e scritta da Scott Frank che è stato sceneggiatore di film quali Malice, Get Shorty, Out of Sight, Minority Report, The Wolverine e Logan, per citare i più conosciuti, ha troppi meriti per non essere inserita fra i piccoli gioielli dell’anno. Intanto la produzione è a cura di Steven Soderbergh (Sex, Lies, and Videotape), a garanzia di stile e dialoghi di ottimo livello. Altro punto di forza è stato riuscire a rivitalizzare un genere, il western, che, seppure non è mai morto del tutto, ha perso negli anni il suo primogenio smalto. In Godless, come avrebbe detto il grande Tullio Kezich, c’è tutto, un concentrato di John Ford, la violenza di Sergio Leone e Sam Peckinpah, la nostalgia di Mann.
Naturalmente tutto questo non avrebbe senso se si trattasse solo di un esercizio ben fatto sul genere, va sottolineato, invece, che il tocco di Soderbergh si sente nel potente connubio fra storia (donne dure che difendono il loro paese oramai senza uomini) e dialoghi, fra racconto, sempre serrato e paesaggi, non senza trascurare (merito della narrazione seriale) i risvolti psicologici dei protagonisti, tutti interpretati da magnifici attori (su tutti Jeff Daniels) e attrici (la magnifica Michelle Dockery di Downton Abbey). Accennavo ai dialoghi sempre asciutti e mai banali ma tutto in questa rappresentazione del bene e del male riuscirà ad emozionarvi.
Con l’occasione segnalo a quanti hanno a cuore il cinema, la scomparsa di Vito Attolini, per anni critico della Gazzetta del Mezzogiono, autore di innumerevoli testi sul cinema, grande appassionato e splendida persona di cui sentiremo certamente la mancanza.
data di pubblicazione:13/12/2017
da Giovanni M. Ripoli | Nov 5, 2017
In una rassegna all’insegna dello sport non poteva mancare una pellicola sul tennis, disciplina di grande attrattiva per giovani e meno e molto seguita dal vivo e nelle televisioni.
Al cinema, però, il tennis non ha mai avuto la stessa fortuna. Qualche anno fa, Wimbledon ( film del 2004 diretto da Richard Loncraine , pur impreziosito dall’interpretazione di Kirsten Dunst, si rivelò un clamoroso flop , tanto per le maldestre riprese delle fasi di gioco che per la banale storiella imbastita. E persino in, Match Point (2005), di Woody Allen, le riprese delle partite risultavano involontariamente quasi risibili. Nel film proposto alla Festa del Cinema e premiato dalla giuria del pubblico, è vero casomai il contrario: le partite del Torneo di Wimbledon, 1980, ovvero la sfida fra due dei più grandi tennisti di sempre , sono decorosamente girate, credibili e a tratti avvincenti , mentre sono le vite fuori dal campo, seguite a mo’ di tragedia greca , a suonare francamente stonate. Peraltro, si intuisce facilmente che il regista, nella composizione del quadro psicologico dei due campioni, propenda decisamente per il connazionale a scapito dell’americano. Borg (bello e somigliante nell’interpretazione di Sverrin Gudnason, adulto, come bambino, in quella del vero figlio di Bjorn) è, infatti, misurato e corretto, sia pure interiormente dilaniato dalla prospettiva dopo quattro titoli vinti sul prato inglese, di poter perdere il quinto …nella storica finale a scapito dello “scavezzacollo” newyorchese . Mentre, John Mc Enroe (interpretato da Shia Lebouf , bravo ma poco somigliante all’originale) è una specie di discolo di talento , viziato, sempre pronto a contestare e insultare pesantemente arbitri e pubblico , incline all’ ira e al turpiloquio e , talmente incosciente o stupido , da trascorrere le serate prima degli incontri, bevendo e folleggiando in discoteca.
Chiunque capisca qualcosa di tennis sa che nessun atleta farebbe mai le cose descritte nel film la notte prima di un match di Wimbledon ( nella presentazione serale lo rilevava persino Panatta che non fu certo un francescano) e, al di là di qualche intemperanza, nella realtà, Mc Enroe fu, al pari di Borg, atleta vincente e amato dal pubblico per il suo estro e il suo gioco.
Per non farsi mancare nulla, la pellicola , nella sua ambizione di rendere “immortale” quella che fu solo una delle più avvincenti pagine del tennis moderno è appesantita da una colonna sonora drammaticamente struggente che sottolinea solennemente tutte le fasi della finale e – altra pecca da poco ,ma inspiegabile- nasconde i marchi dell’abbigliamento dalle divise dei protagonisti ( problemi di mancate sponsorizzazioni?). Al pubblico, però, il film è piaciuto ( applausi e Premio) e, si sa, il pubblico alla fine ha sempre ragione . Per i palati più fini, si rimanda ad altra occasione nella speranza di vedere finalmente un giorno un bel film sul tennis senza se e senza ma.
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