da Giovanni M. Ripoli | Dic 20, 2018
(Teatro Vascello – Roma, 18/31 dicembre 2018)
La rilettura in chiave “ecologica” di un classico è la proposta del coreografo Massimiliano Volpini in scena fino al 31 dicembre al Del Vascello. La storia solo marginalmente ricorda la complessa e lunga favola di fine Ottocento, indissolubilmente legata alla grande musica di Tchaicovsky.
Non c’è delusione, ma evidente sorpresa nella fruizione del celebre balletto così rivisitato. Stupisce la nuova ambientazione ( non più la dimora borghese della fiaba di E.T.A. Hoffman) che ci conduce nei bassifondi di una metropoli fra “un popolo degli abissi” o “invisibili” o ribelli senza causa, alle prese con problemi di sopravvivenza e in lotta perenne con agguerriti “vigilanti”/topi. A ricordarci vagamente l’originale ci pensa la storia dei due giovani (Clara e Il Fuggitivo) che provano a superare il muro che divide la città affrontando cruenti scontri che ricordano La battaglia dei topi dell’originale trasformandola in lotte di strada. A un certo punto, sembra di essere dalle parti di West Side Story, ma il coinvolgente incedere della musica e la bravura dei giovani protagonisti, pur alle prese con le nuove coreografie, tranquillizzano anche gli spettatori più scettici. Il viaggio immaginato dal fantasioso Massimiliano Volpini ha certamente i suoi pregi, certamente, quello della sorpresa: non ci sono i pupazzi e soldatino di recupero ma un’ambientazione da periferia in abbandono. Ne consegue che anche i costumi nella scena di apertura sono bizzarri e gli stessi materiali come il cartone, il legno, il vetro fanno pensare a una scelta ecologica del suo ideatore (un riciclo virtuoso?). Dimenticando però tutto quello che c’è dietro (retropensieri sul concetto di festività, smarrimento delle identità sociali, lotta al sistema…), lo spettacolo ha comunque una sua forte ragion d’essere grazie alle coerenti coreografie e l’abilità dei giovani della compagnia del Balletto di Roma, tutti particolarmente espressivi e ben affiatati, con Eleonora Pifferi (Clara) e Paolo Barbonaglia (Il Fuggitivo) su tutti. A riportarci, sia pure marginalmente, dalle parti dell’originale ci pensa un secondo atto, più tradizionale, che regala anche il balletto sulle punte di innegabile fascino per i cultori del genere.
La risposta del pubblico non è mancata a riprova che, anche attraverso impostazioni originali, se ben diretti e rivisitati in modo intelligente, i “classici” riusciranno sempre a sopravvivere magari interessando nuove platee di giovani. In questa chiave Lo Schiaccianoci di Volpini può dirsi tentativo riuscito.
data di pubblicazione:20/12/2018
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Dic 13, 2018
(Sala Umberto – Roma, 11/16 dicembre 2018)
Sia chiaro, stiamo parlando di un lavoro nato negli anni ‘70, una pièce di una delle coppie più trasgressive del teatro italiano: Dario fo e la moglie-compagna Franca Rame. Questo a sottolineare che i tempi potrebbero/dovrebbero essere cambiati(?) e così alcune situazioni come la condizione della donna nella società. Ma, anche rispetto al lavoro riproposto nella interpretazione di Valentina Lodovini, che avrebbe potuto pagare dazio al tempo trascorso. Invece, a tutto merito della riproposta del testo di Fo e Rame, questa edizione non ne risente ed ha una sua nuova e provocatoria ragion d’essere anche ai nostri giorni.
Certamente questo restyling sarebbe piaciuto agli autori, come pure – siamo sicuri – la generosa prestazione della bella (quando ci vuole) e brava Valentina Lodovini li avrebbe convinti. Lo spettacolo, che in origine prevedeva cinque monologhi, ne ha, nell’allestimento di Sandro Mabellini (il regista che ha riletto il testo originario) quattro, ma regge bene nella sua giusta durata e nell’alternanza dei temi. Il monologo, “la mamma fricchettona” che compariva nell’originale, è stato sostituito da “Alice senza meraviglie”, forse il meno riuscito dei quattro riproposti alla Sala Umberto, ma, anche questo comunque ottimamente reinterpretato dall’attrice di Umbertide. In sintesi, lo spettacolo si compone di monologhi a metà strada tra il comico e il grottesco, tutti giocati sulla condizione femminile. Nel primo c’è una donna, sola in casa, anzi segregata in casa, con infante e cognato “eccitato”, che conversa con una immaginaria vicina della sua finta apparente felicità secondo i canoni del tempo(?): televisione, elettrodomestici, senza però godere del rispetto del marito. Nel secondo, assistiamo a una esilarante prova “di orgasmo”, ovvero un monologo sul sesso di sicura presa. Nel terzo, viene esplorato il complesso ruolo della donna sul lavoro (madre-moglie-operaia) e nel quarto, il già citato “Alice senza meraviglia”, a comporre, definire e completare un quadro grottesco, sociale, popolare ed etico. Molte delle frustrazioni delle donne di ieri, ma, purtroppo anche di oggi, sono riproposte in tutta la gamma dei sentimenti e delle emozioni che li connotano. Gran merito, inutile dirlo, è legato all’interpretazione della Lodovini che dimostra, più che al cinema, di avere nelle sue corde sicure doti espressive ed emozionali. Le sue donne sanno essere ora comiche, ora umane, intellettuali o trasgressive e la generosa prestazione dell’attrice rende appieno le diverse facce del ruolo della donna di ieri ma attualizzandole al contesto odierno. Valentina supera la prova, sulla scena non si risparmia: ride, balla, canticchia, soffre, offrendo una performance di grande impatto fisico e maturità artistica. Anche i tempi dello spettacolo risultano ben dosati per una fruizione che il pubblico ha decisamente gradito.
data di pubblicazione:13/12/2018
Il nostro voto:
da Giovanni M. Ripoli | Nov 22, 2018
Accompagnata dai suoi due figli, Laura torna da Buenos Aires al suo paese natale in Spagna per il matrimonio della sorella. Tutto sembra andare per il meglio quando, al termine della festa di nozze, la sua giovane figlia scompare, cambiando in modo drammatico il corso degli eventi e i rapporti all’interno della famiglia e della stessa comunità.
Accolto con grande curiosità a Cannes, dove fu film di apertura, la pellicola del talentuoso regista iraniano è piaciuto al grande pubblico e assai meno ai critici. Questi ultimi, probabilmente spiazzati dalla scelta di Farhadi al suo primo film di genere, uno psico thriller (?) girato nella regione della Mancha in un piccolo centro non lontano da Madrid, non hanno mancato di sottolineare diverse carenze della pellicola, forse non all’altezza dei precedenti capolavori del regista. In un eccesso di zelo professionale, certamente memori della perfezione di lavori quali, l’incantevole, Una Separazione e, il non distante, Il Cliente, hanno ingiustamente “massacrato” Tutti lo Sanno, relegandolo a livello di feuilleton, infarcito di clichè (il paesello spagnolo, gli amorucci dei ragazzi sul campanile), indebolito da una recitazione di maniera (Bardem) o esageratamente “calcata” (“una Penelope Cruz in cerca di Oscar”). Schierandomi, invece, decisamente dalla parte di una critica “acritica”, e quindi dalla parte di un pubblico non necessariamente di bocca buona, ma anche confortato dalla visione del film in lingua originale (il perfezionismo di Farhadi, ad esempio, fa correttamente parlare con accenti catalani o argentini i rispettivi protagonisti in base alla loro provenienza), non ho ravvisato particolari difetti. La storia non è nuova, ma la preparazione all’improvviso accadimento (il rapimento della giovane figlia di Laura), attraverso la messa in scena dell’arrivo di Laura “l’argentina”, gli aspetti della realtà provinciale del piccolo centro vinicolo della Mancha, con i suoi segreti e rancori, sono descritti con sufficiente credibilità. Il ritmo tambien è adeguato alla vicenda: toni leggeri e smorzati all’inizio, briosi per la festa di matrimonio, volutamente più lenti a sottolineare la drammaticità degli eventi dopo il rapimento repentino e misterioso della giovinetta. Ovviamente, come sempre nei film di Farhadi, tutto è studiato: ricerca dei dettagli, riprese, montaggio e colonna sonora di assoluto livello e grandi attori e comprimari a completare la prima pellicola, diversa, del talentuoso artista iraniano.
Niente di negativo sugli attori, Bardem è ormai versatile e collaudato e, nelle vesti del sanguigno, generoso Paco, combattuto fra diverse emozioni e stimoli contrapposti, offre un’ennesima confortante prova. Altresì Penelope Cruz (Laura), senza essere Sarah Bernhardt, è misurata e credibile nel ruolo di madre disperata. Quando poi, arriva dall’Argentina, Ricardo Darin (Alejandro, il marito di Laura), ci troviamo di fronte a un gigante, un attore impagabile, pur alle prese con un personaggio ambiguo e imperscrutabile. Non da meno, sono i comprimari fra cui, la bella e brava Barbara Lennie nel ruolo della dubbiosa moglie di Paco e Eduard Fernandez, il saggio cognato. Volutamente ho lasciato allo spettatore di scoprire meandri psicologici e il finale della trama thriller della pellicola per non sottrarre il piacere di un film che comunque non delude e tiene sempre alta la tensione. Sotto certi aspetti, dunque, anche muovendosi in un contesto per lui nuovo, Farhadi, nella sua prima prova in lingua spagnola, non delude e, muovendosi ancora una volta intorno ai temi delle separazioni e delle sparizioni, riesce a mantenere il pubblico concentrato e in apprensione per tutta la durata del film.
data di pubblicazione:22/11/2018
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da Giovanni M. Ripoli | Ott 23, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Nic Sheff è bello, bravo e intelligente ed è circondato dall’affetto della sua famiglia benestante e liberal, ma dopo aver provato, come tanti suoi coetanei, la metanfetamina, diventa totalmente dipendente da tutte le droghe possibili e immaginabili. La storia è il vero calvario cui si sottopone il giovane, ma anche la sua famiglia per tentare il problematico recupero. Come si dice in questi casi: tratto da una storia vera.
Beautiful boy è la dolcissima canzone di John Lennon dedicata al figlio Sean ed è anche un brano che si ascolta in sottofondo nel film di Felix Van Groeningen dal titolo omonimo. Anche nella pellicola si parla di un bellissimo ragazzo con dei problemi…
Già ammirato nei paesi di lingua inglese, il film di Van Groeningen, quarantaquattrenne regista e sceneggiatore belga (il suo Alabama Monroe del 2012 fu candidato agli Oscar) oltre a una buona storia, tratta dalle biografie degli stessi reali protagonisti, David Sheff e Nic Sheff, ha l’indiscusso merito di proporre una recitazione “da Oscar” per gli attori, il padre ( Steve Carrell) e il figlio (Timothèe Chamalet, già ammirato nel film di Guadagnino). La regia, pur solida, non mostra tracce di particolare originalità, attenendosi a uno stile sobrio e rigorosamente classico. Scelta forse meditata e voluta per una storia forse non originale, ma, purtroppo ancora attualissima in differenti realtà. Il regista sceglie di raccontarci quello che accade in una famiglia della middle class americana, aperta e felice prima della scoperta della “tossicità” del loro bellissimo e apparentemente bravissimo Nic. Nel film viviamo con il padre, la madre (AmyRyan) e la seconda moglie di David (l’intensa Maura Tierney), le innumerevoli “guarigioni e ricadute” del giovane. Più volte ci illudiamo che dopo cliniche riabilitative, ripensamenti, ansie, paure, pentimenti, rischi di overdose, il ragazzo sia finalmente uscito dal tunnel della dipendenza, ma, per quasi due ore, si tratta solo di illusioni per la famiglia e per il pubblico. l’Happy end, però, giunge nel finale e sembra legato principalmente all’affetto ritrovato nel focolare domestico e alla nuova consapevolezza del giovane. Beautiful Boy, è nel complesso un buon film che attraverso flash back, una narrazione solida e soprattutto una assai convincente prova di attori, offre uno spaccato realistico di un percorso doloroso, comune a tante famiglie. Certo la pellicola non entra nel merito di approfondimenti psicologici sulle motivazioni che portano alle dipendenze, ma si apre e bene ad esplorare il forte rapporto affettivo padre-figlio, cardine del film stesso, grazie – come detto – alle notevoli performances dei due attori, dove Steve Carrell è un padre decisamente credibile: lacerato ma mai melenso, sempre nelle righe nel dolore come nei suoi entusiasmi, e Chamalet, cui è facile prevedere una candidatura agli Oscar, è al pari perfetto, sia nei momenti più drammatici, sia in quelli gioiosi e persino poeticamente dolci (come nei giochi con i piccoli fratellini nati dal secondo matrimonio del padre). Dunque, film pur alle prese con un tema non facile, risulta avvincente e mai noioso, accettabilissimo proprio perché privo di quella retorica che spesso è sottesa in pellicole similari.
data di pubblicazione:23/10/2018
da Giovanni M. Ripoli | Ott 21, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Alla sua maniera, il regista americano racconta come vanno le cose nel suo Paese spostando la sua attenzione e invertendo le date dal terribile 11 settembre (le torri gemelle), l’l1/9 del suo precedente Fahreneith, premiato con la Palma d’Oro a Cannes, al 9/11 (giorno dell’elezione di Donald Trump a Presidente degli Usa). Nel suo lungo documentario mostra i tanti volti di un’America divisa e lacerata, con riferimenti al passato e ai tanti personaggi che la compongono, senza fare sconti ad alcuno.
Anche a Steve Bannon, non esattamente un radicale, piace Michael Moore, e non potrebbe essere diversamente, il regista nativo di Flint, Michigan, realtà che tante volte ritorna nelle sue pellicole come emblema della barbarie del capitalismo senza regole (in Roger&Me dell’89 era la General Motors a chiudere la fabbrica e gettare sul lastrico migliaia di persone con le loro famiglie, oggi è il governatore dello stato a consentire l’avvelenamento da piombo nell’acqua per gli abitanti, in maggioranza popolazione afro-americana, a causa di un nuovo acquedotto che pesca in un fiume tossico). In proposito, una scena illuminante è quella dell’ex presidente Obama, su cui fondavano molte speranze i cittadini di Flint che finge di bere l’acqua locale, sostanzialmente confermando la versione che si tratti di acqua non pericolosa per l’organismo, contro tutti i pareri medici e le tante malattie riscontrate in loco. Quindi, al di là di ogni possibile accusa di partigianeria politica, Moore ne approfitta per colpire violentemente lo stesso partito democratico, reo di aver abdicato ai temi sociali e popolari (boicottando Sanders, ritenuto candidato poco moderato) e, in pratica, ponendosi sullo stesso piano del partito di Trump. Trump che viene eletto fra lo stupore e la sorpresa generale di quasi tutti i media, ma non di Moore che girando per tutti gli stati americani aveva colto meglio le vere sensazioni della gente. Naturalmente, non è tenero verso il suo Presidente, dipinto per quello che è, un assai disinvolto imprenditore, un uomo volgare e decisamente impreparato e primo ad essere sorpreso dalla sua clamorosa elezione. Lo stile per narrare il tutto è quello provocatorio ma anche spesso decisamente ironico del regista. A volte si può non essere d’accordo con il suo grido rivoluzionario e trasgressivo, ma non si può non riconoscere una capacità indiscussa di catturare l’attenzione della gente con riprese e flash back di grande impatto. Quanto si vede, peraltro ribadito nella conferenza stampa, sta nelle due domande fondamentali che permeano l’intero godibile film : “come diavolo siamo finiti qui?” e “dove diavolo andremo a finire di questo passo?” Chissà se riuscirà a raccontarcelo prossimamente! Da vedere per riflettere ma sorridendo!
data di pubblicazione:21/10/2018
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