MARTIN EDEN di Pietro Marcello, 2019

MARTIN EDEN di Pietro Marcello, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Martin Eden, bel giovane dedito per sopravvivenza ai lavori più disparati, tornando da un periodo di navigazione, salva nel porto di Napoli il rampollo di una buona famiglia. Per i ringraziamenti di rito viene invitato a cena e scopre un mondo nuovo subendo il fascino della dolce e altolocata Elena che lo avvicina alla lettura e all’arte. Da quel momento in poi, da autodidatta, s’infervora di letteratura e decide di diventare scrittore di professione e di conquistare il suo amore. Il bel romanzo di Jack London, dalla California a Napoli.

Dopo Martone, con la riuscita rivisitazione de Il Sindaco di Rione Sanità, un’altra operazione di trasposizione seppure rischiosa, ma azzeccata, è quella del Martin Eden operata da Pietro Marcello, di cui ricordiamo La Bocca del Lupo del 2009 e Bella e Perduta del 2015, con il romanzo di Jack London. Lo scrittore di Auckland agli inizi del ‘900 era il romanziere più letto al mondo; Lenin e Trotzskj lo adoravano e altri milioni di lettori lo avevano reso ricco e famoso. Di umili origini, figlio illegittimo, aveva viaggiato giovanissimo in lungo e in largo, era stato cercatore d’oro in Alaska, pescatore di perle nella baia di San Francisco; poi, attraverso studi e letture disordinate, ma intense, era divenuto il primo romanziere d’America. Era stato individualista (seguace di Nietzsche), poi socialista convinto (indimenticabile il suo saggio sociale Il Popolo degli Abissi), aveva vissuto molto intensamente, si era sposato due volte, bevuto anche troppo ed era morto (probabilmente suicida), appena quarantenne sul suo yacht, dopo aver accumulato e dissipato intere fortune.

Trasferendo la vicenda dello scrittore e il suo personaggio Martin Eden – figure speculari – nella realtà napoletana degli inizi del XX secolo, Marcello compie un’operazione complicata, ma pienamente riuscita. Il suo Eden (un magnifico, a volte esagerato, Luca Marinelli) in chiave proletaria con vocazione “elitaria”, precipitato nell’antropologia italiana pre-war, non disturba, ma affascina. Mescolando con sapienza e grazie a un montaggio (Aline Hervè e Fabrizio Federico) di prim’ordine, la trama e materiali d’archivio, il regista napoletano realizza un film di ampia portata. Una pellicola che coniuga l’emozionante storia (universale) del povero che s’innamora della bella aristocratica Elena (Jessica Cressy al suo felice debutto) con la lotta di classe (quella personale di Martin contro i pre-giudizi della famiglia e quella delle agitazioni socialiste e anarchiche del contesto storico). Martin, innamorato pazzo di Elena affronta e supera, con profondo travaglio personale, gli ostacoli derivanti dalla propria origine: andrà contro tutti, editori, famiglia di origine, famiglia di Elena… Unico a dargli vero supporto e amicizia sarà il vecchio e disadattato compagno, Russ Brissenden (uno strepitoso Carlo Cecchi) che al tempo stesso ne accentuerà i   travagli interiori, portandolo al contrasto definivo con il mondo elitario di cui avrebbe voluto far parte e al rifiuto della stessa Elena. Si diceva che Martin Eden è romanzo universale e va dato atto al regista Marcello e al suo co-sceneggiatore Maurizio Braucci, pur nella sua ibridizzazione in salsa partenopea, di aver mantenuto e attualizzato il rigore e l’energia primordiali. Nella magnifica follia di Martin Eden (romanzo e film, all’unisono), c’è tanto (pubblico e critica sembra lo abbiano percepito), ma oltre storia, ideologia, interpretazioni, quello che veramente ci lascia alla fine della visione è il senso di ampio respiro che lo ha connotato, proprio dei classici senza tempo.

data di pubblicazione:03/09/2019








THE LAUNDROMAT di Steven Soderbergh, 2019

THE LAUNDROMAT di Steven Soderbergh, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Ellen Martin, pensionata, felicemente coniugata, vede morire il marito e altri turisti in un’assurda tragedia durante una crociera sul lago George. Il tragico evento porta l’ignara vedova a imbattersi nell’assurdo mondo di una certa finanza nella vana speranza di vedersi riconoscere il legittimo risarcimento per la morte del marito, da parte della compagnia di navigazione. Non sarà così, e, per assurdi e illegali passaggi fra compagnie di assicurazioni “fantasma”, Ellen avrà difficoltà ad ottenere giustizia. La sua ricerca sulla frode assicurativa le aprirà gli occhi sul mondo della finanza globale, quella dei “Panama Papers”, per intenderci.

 

Ancora una volta Steven Soderbergh, (già Palma d’Oro al Festival di Cannes per lo splendido Sesso, Bugie e Videotape e di un Oscar per la regia di Traffic) ci regala un altro piccolo gioiello, un’altra storia vera, tra le più drammatiche dei nostri tempi. La pellicola, partendo da un evento legato alla sfera personale delle vittime di un mancato risarcimento, ricostruisce, racconta e spiega la vicenda dei così detti “Panama Papers”, scandalo devastante nel mondo della finanza. A dieci anni da The Informant! il talentuoso regista di Atlanta, ci regala, alla sua maniera, una storia vera basata sul libro-inchiesta Secrecy World: Inside Panama Papers…, del reporter investigativo Jake Bernstein premiato con il Pulitzer, un evento che fece tremare il mondo della finanza internazionale e che vide coinvolte oltre 200.000 società offshore e tantissimi ignari risparmiatori. Soderbergh delega, sin dall’apertura del film, alle figure di due dei grandi truffatori, Jurgen Mossack (un sornione Gary Oldman) e Ramòn Fonseca (Banderas al meglio), il compito di spiegare agli spettatori il chi e il come del formidabile raggiro. Alla fine, oltre i responsabili in concreto ai danni della povera Ellen, effettivamente smascherati, il vero colpevole di tutto finisce con l’essere naturalmente l’ossessione per il denaro e il potere e Soderbergh non nasconde che delle conseguenze drammatiche che ne conseguono i governi di molti grandi paesi, gli USA in primis, ma anche Russia e Cina non sono estranei.

Con la direzione della fotografia dello stesso regista, la sceneggiatura di Scott Z.Burns e la solita ineccepibile interpretazione di Meryl Streep, The Laundromat è un ibrido fra un commedia nera e un film politico e intelligente che, grazie a un montaggio serrato, a un buon ritmo e al colpo di scena finale, ha buone possibilità di premi a Venezia, vista l’ottima accoglienza del pubblico in sala. A parte questa evenienza, ha comunque l’innegabile merito di riportare alla luce uno scandalo senza precedenti, che la scarsa memoria dei nostri tempi rischiava di rimuovere.

data di pubblicazione:02/09/2019








5 È IL NUMERO PERFETTO di Igort, 2019

5 È IL NUMERO PERFETTO di Igort, 2019

(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)

Peppino Lo Cicero è un guappo della vecchia camorra, ormai prossimo alla pensione. Ha una donna, Rita, che lo ama, ma soprattutto vive e lavora in funzione del suo amato figlio, il quale, nel corso di una resa di conti, viene freddato. Per Lo Cicero sarà una “mazzata” tremenda e innescherà una serie di reazioni assai violente che lo porteranno a prendere decisioni definitive e cogliere nuove opportunità.

 

Che cosa ci si poteva aspettare da un fumettaro, pardon, un creatore di graphic novel, come Igort, al secolo il talentuoso Igor Tuveri al suo approdo cinematografico? Esattamente quello che abbiamo potuto ammirare nella sezione Giornate degli Autori 2019 della 76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

In soldoni, la messa su grande schermo del suo romanzo 5 è il numero perfetto, che, nel lontano 2004, aveva registrato un grande successo nel mondo delle “nuvole parlanti”: una storia dura, un noir in salsa napoletana, fatta di immagini forti e laceranti. Girata tra la sua Sardegna e una Napoli che fa pensare a Sin City, la pellicola, girata con lo stesso perfezionismo caro a Igort e grazie alla notevole fotografia di Nicolaj Bruel, tutta ombre e colori sparati, narra una storia di camorra drammatica nei contenuti, ma con toni che vanno dall’ironico al fantasioso. Frequenti i passaggi dai campi medi ai piani ravvicinati, in un interessante mix di teatro, cinema e naturalmente “fumetto d’autore”. Igort ha raccontato (sono parole dell’autore nel corso della conferenza stampa): “una vita di malaffare intrisa di quella violenza che è il centro di quella esistenza, però attraverso uno sguardo non voyeuristico ma semmai più vicino alla coreografia con corpi che sembrano quasi danzare…” Naturalmente, nel rispetto di una storia “hard boiled” non possono mancare sparatorie, tradimenti, uccisioni e duelli, quasi da western alla Leone (e non dico altro per non togliere la necessaria suspance), a sottolineare il tessuto malavitoso della vicenda. Al servizio di un film che lo stesso regista ha definito “un ibrido”, attori in stato di grazia, il solito, perfetto, Toni Servillo (Peppino), Carlo Buccirosso (Totò o’ macellaio) e, come si dice in questi casi, una intensa e misurata Valeria Golino (Rita). Esordio nel complesso interessante.

data di pubblicazione:31/08/2019








BEAUTIFUL BOY di Felix Van Groeningen, 2019

BEAUTIFUL BOY di Felix Van Groeningen, 2019

Nic Sheff è bello, bravo e intelligente ed è circondato dall’affetto della sua famiglia benestante e liberal ma, dopo aver provato come tanti suoi coetanei, la metanfetamina, diventa totalmente dipendente da tutte le droghe possibili e immaginabili. La storia è il vero calvario cui si sottopone il giovane, ma anche la sua famiglia per tentare il problematico recupero. Come si dice in questi casi: tratto da una storia vera.

 

Beautiful boy è la dolcissima canzone di John Lennon dedicata al figlio Sean ed è anche un brano che si ascolta in sottofondo nel film di Felix Van Groeningen dal titolo omonimo. Anche nella pellicola si parla di un bellissimo ragazzo con dei problemi…

Già ammirato nei paesi di lingua inglese, il film di Van Groeningen, quarantaquattrenne regista e sceneggiatore belga (il suo Alabama Monroe del 2012 fu candidato agli Oscar), oltre a una buona storia tratta dalle biografie degli stessi reali protagonisti, David Sheff e Nic Sheff, ha l’indiscusso merito di proporre una recitazione “da Oscar” per gli attori: il padre (Steve Carrell) e il figlio (Timothèe Chamalet, già ammirato nel film di Guadagnino). La regia, pur solida, non mostra tracce di particolare originalità, attenendosi a uno stile sobrio e rigorosamente classico. Scelta forse meditata e voluta per una storia non originale, ma, purtroppo ancora attualissima in differenti realtà. Il regista sceglie di raccontarci quello che accade in una famiglia della middle class americana, aperta e felice prima della scoperta della “tossicità” del loro bellissimo e apparentemente bravissimo Nic. Nel film viviamo con il padre, la madre (Amy Ryan) e la seconda moglie di David (l’intensa Maura Tierney), le innumerevoli “guarigioni e ricadute” del giovane. Più volte ci illudiamo che dopo cliniche riabilitative, ripensamenti, ansie, paure, pentimenti, rischi di overdose, il ragazzo sia finalmente uscito dal tunnel della dipendenza, ma, per quasi due ore, si tratta solo di illusioni per la famiglia e per il pubblico. L’Happy end, però, giunge nel finale e sembra legato principalmente all’affetto ritrovato nel focolare domestico e alla nuova consapevolezza del giovane. Beautiful Boy, è nel complesso un buon film che, attraverso flash back, una narrazione solida e soprattutto una assai convincente prova di attori, offre uno spaccato realistico di un percorso doloroso, comune a tante famiglie. Certo la pellicola non entra nel merito di approfondimenti psicologici sulle motivazioni che portano alle dipendenze, ma si apre, e bene, ad esplorare il forte rapporto affettivo padre-figlio, cardine del film stesso, grazie – come detto – alle notevoli performances dei due attori, dove Steve Carrell è un padre decisamente credibile: lacerato ma mai melenso, sempre nelle righe nel dolore come nei suoi entusiasmi, e Chamalet è al pari perfetto, sia nei momenti più drammatici, sia in quelli gioiosi e persino poeticamente dolci (come nei giochi con i piccoli fratellini nati dal secondo matrimonio del padre).

Dunque film che, pur alle prese con un tema non facile, risulta avvincente e mai noioso, accettabilissimo proprio perché privo di quella retorica che spesso è sottesa in pellicole similari.

data di pubblicazione:20/06/2019


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TUTTI PAZZI A TEL AVIV di Sameh Zoabi, 2019

TUTTI PAZZI A TEL AVIV di Sameh Zoabi, 2019

Salam, uomo senza qualità, fa il pendolare tra Gerusalemme e Ramallah (la capitale amministrativa dell’Autorità palestinese), dove lavora presso lo zio produttore televisivo palestinese adattandosi a qualunque necessità sul set di una soap opera anti israeliana che si realizza con pochi mezzi e grande successo di un pubblico trasversale. Senza volerlo e senza averne le capacità, finirà con diventare l’autore di Tel Aviv in fiamme trovando anche l’insperato amore in un finale ottimistico.

 

In tempi davvero grami per le commedie intelligenti, non fatevi sfuggire un piccolo gioiello, nel quale ci eravamo imbattuti nella sezione Orizzonti della 75° Mostra del Cinema di Venezia. Parliamo di Tutti Pazzi a Tel Aviv, una pellicola che ha il pregio di far divertire con garbo su un tema drammatico come il conflitto israelo-palestinese. La trama è un mix di spie, hummus, militari machisti, amori irrealizzati, set alla Boris, che si sviluppa dietro le quinte di una fiction dai grandi ascolti traslata nella la quotidianità di un paese diviso. Con tanto di check point che diventa luogo nevralgico delle vite dei protagonisti (avverranno lì gli incontri fra l’imbranato sceneggiatore palestinese e il militare israeliano pronto a ri-scrivere un soggetto che aggiunge romanticismo a quello che è il personaggio in cui si identifica nella fiction). Siamo quindi dalle parti, non nuove peraltro, del cinema nel cinema (nella fattispecie la tv), ma, il doppio piano è solo il riuscito pretesto per consentire al regista (nato nel 75 in un piccolo villaggio palestinese, Iksal), attraverso l’arma di un umorismo surreale e persino  kitsch, di suggerire soluzioni per una narrazione realmente diversa da quella delle pieghe del reale conflitto. La pellicola si concluderà infatti con un consapevole happy end, evidentemente, aperto al dialogo, tra i due popoli oggi contendenti. Riuscire a ridere e a far ridere alle spalle di una contesa fra le più laceranti dei nostri giorni è il grande merito di Sameh Zoabi, nella doppia veste di regista e sceneggiatore, alle prese con un plot e ingranaggi sempre fluidi e mai beceri, sempre in bilico e senza schierarsi mai troppo apertamente per una delle due parti. La trama è godibilissima e ricca di spunti originali sia pure all’interno di schemi comici già collaudati. Aiutano il regista interpreti ben caratterizzati nei rispettivi ruoli: su tutti il protagonista, Kais Nashif (lo spaurito Salam, che fa pensare al nostro Troisi), premiato come miglior attore a Venezia per la sezione Orizzonti, la bella Lubna Azabal (la fascinosa spia araba, finta francese) e Nadim Sawalha, il militare cialtrone. Gli altri comprimari (dai nomi complicati) non sono da meno, come pure montaggio, fotografia e colonna sonora a completare la riuscita messa in scena di una commedia, un ricco affresco, a tratti surreale ma sempre godibilissimo.

data di pubblicazione:24/05/2019


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