da Giovanni M. Ripoli | Dic 13, 2019
Favoletta natalizia dove si narra di un parroco di paese e ladro di oggetti sacri catapultati per “miracolo” nella Palestina ai tempi della nascita di Gesù. Seguono blande complicazioni…e finale miracoloso!
Candido come un soufflè, leggero come un ruscello d’alta montagna, ecco apparire per la gioia-di-grandi-e-bambini, l’ultima fatica dei simpatici (questo sì!) Ficarra&Picone, già cabarettisti di talento, poi attori e financo registi con alterne fortune ( L’Ora Legale la loro migliore prova sullo schermo). Con il super-natalizio, Il Primo Natale (omen nomen) in uscita, si ripropongono nella loro versione più innocua, senza il cinismo di Ficarra (qui nelle vesti di un ladro miscredente e arruffone) e con un buonismo quasi d’altri tempi. L’idea di partenza non è nuova (il viaggio nel tempo a ritroso), con ben altri risultati l’avevamo già vista, tanto per citare, in Non Ci Resta Che Piangere, e la storia pure, ovviamente, rivisitata in più salse e angolazioni diverse (dal Re dei RE ai Monty Phyton). Nell’occasione il duo palermitano, aiutati (?) nella sceneggiatura dal bravo Nicola Guaglianone, s’ingegnano in un film che ha comunque dei pregi rispetto alle tradizionali pellicole nostrane: sarà per la concorrenza di Netflix ( sulla cui piattaforma è probabile che il film finisca, come già gli altri lavori dei due) o per quella dei normali “cine panettoni”, ma Il Primo Natale ha certamente il merito di non essere povero e sciatto nella sua veste. I costi produzione sono stati alti e si vede…! Le avventure in Palestina con i villaggi, gli animali, la gente sono assolutamente credibili, (indiscutibile l’omaggio ai “peplum” di cinecittà, con Romani e tigre nell’arena) e rari per prodotti analoghi ammanniti durante il Natale. Non è quindi la rappresentazione dell’epoca (puntuale e ricca) , né la narrazione della favoletta (i nostri eroi che cercano Giuseppe e Maria per ottenere il miracolo del ritorno ai nostri tempi) a deludere, bensì la mancanza di coraggio complessiva nel non volersi distaccare da battute tranquillizzanti e mai corrosive, il barcamenarsi fra adesione all’ideologia cattolica e critiche superficiali alle religioni, l’occasione di trattare il fenomeno migratorio in modo non barzellettistico. Quanto alle interpretazioni , oltre i due , al loro livelli standard (simpatia, battutine, gags più o meno scontate) va segnalata quella del bravo Popolizio nelle vesti di un superbo Erode. In conclusione, come si diceva una volta, Ficarra e Picone “strappano la sufficienza ma avrebbero certamente potuto fare di più…!”il che non impedirà al pubblico nazional- natalizio di apprezzare il più natalizio dei film.
data di pubblicazione:13/12/2019
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da Giovanni M. Ripoli | Dic 2, 2019
Due giovani studenti, lui newyorchese, lei dell’Arizona, rampolli di ricche famiglie, decidono di trascorrere un romantico fine settimana a New York, dove si alterneranno incontri più o meno fortunati e spesso bagnati dalla pioggia…Una trama apparentemente semplice svela nel migliore stile – Allen l’idea nostalgica di una città al tempo stesso reale e idealizzata, rappresentata come solo un grande regista sa fare.
A 40 anni dal suo riuscitissimo, Manhattan (migliore commedia romantica del 1979), e dopo alterni risultati (ad esempio l’ottimo Match Point, il delizioso Midnight Paris, ma anche lo sgangherato To Rome with Love), il regista newyorchese, ormai vituperato dai suoi ipocriti connazionali, torna con un nuovo capolavoro per la gioia di noi europei (negli USA la pellicola è invece sotto embargo per via di presunti pregressi comportamenti scorretti del regista alla luce dello scandalo “Me Too”).Come dicevo, la cosa non ci riguarda, fortunatamente, infatti dopo alterne vicende contrattuali l’ultima fatica dell’84enne artista di Brooklyn, è regolarmente programmata con meritato successo di critica e pubblico nelle sale del nostro paese. E se ci aveva entusiasmato, divertito, interessato, quello che fu il suo nono film con la sua spensierata visione della città- che – più- ama- al- mondo, appunto, New York, ripresa nel più bel bianco-nero di sempre realizzato dal grande Vittorio Storaro e impreziosito dalle musiche di George Gershwin, oggi a colori con gli stessi affidabili complici di sempre (ancora Storaro alla fotografia e Santo Loquasto alle scenografie, e una colonna sonora che svaria da Chet Baker a Irving Berlin), Allen è ancora in grado di ricreare la stessa magica emozione. Certo non è più lui a interpretare il ruolo del se stesso- protagonista (l’intellettuale Isac Davis di Manhattan) e nemmeno sceglie quale suo alter ego tra fascinosi attori adulti. S ’identifica, invece (dallo stile – casual raffinato nel vestire, all’amore per il piano di Irving Berlin, ai vecchi noir con Mitchum) in un giovane emergente appena ventenne per raccontare la sua città, per certi versi la sua biografia, e l’ineluttabilità del destino. Come un Holden Caufield ( di salingeriana memoria),Gatsby Welles (omen nomen…), interpretato magistralmente da Timothèe Chamalet (Chiamami col tuo nome, Beautiful boy), sogna la sua giornata ideale a Manhattan con la sua adorabile, “quasi ingenua” Ashleigh (l’altrettanto brava e deliziosa Elle Fanning). La fanciulla, aspirante giornalista, già “miss simpatia Arizona”, deve intervistare per il giornalino del college un famoso regista e l’occasione serve ai due giovani per lasciare la noiosa università di provincia, recarsi nella grande mela, vivere avventure e incontri dai differenti sapori. Naturalmente, secondo la migliore tradizione delle commedie di Allen, la trama offrirà tutta una serie di spunti, inutili da anticipare, ma che di volta in volta saranno occasioni di sorrisi, riflessioni, nostalgie, malinconie. In un crescendo che ai più attenti cinefili, ricorderà Un Provinciale a New York di Arthur Hiller, ma anche le raffinate commedie di George Cuckor o Vincente Minnelli con un “magic touch” alla Lubitsch …
Piccoli equivoci, situazioni imbarazzanti, battute fulminanti (quella della Shannon a Gatsby La vita reale è per chi non sa fare di meglio!), baci più o meno rubati, stacchi musicali sempre al punto giusto e tanta malinconia per una città da raccontare sotto la pioggia.
Ancora una volta, rivivono nel personaggio di Gatsby, sapientemente mescolati, tutti i temi e gli ingredienti cari ad Allen (i giovani direbbero “tanta roba”), riproposti al meglio in un film che sotto le finte spoglie di una commedia adolescenziale ha invece ben altro, come la critica al perbenismo borghese, a certi vacui comportamenti maschili e femminili, all’amore per il bello tout court. E così, fra immagini poetiche, citazioni colte, battute fulminanti, Allen ci offre il meglio del suo cinema dove Groucho Marx convive con Fellini e Chet Baker con Gershwin per 94 minuti di un indimenticabile sogno malinconico da vivere al cinema.
data di pubblicazione:02/12/2019
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da Giovanni M. Ripoli | Ott 26, 2019
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)
Bruce Springsteen in concerto nel suo teatro-fienile della Stone Hill Farm a Colts Neck (New Jersey) con la moglie e compagna di una vita, Patty Scialfa e un’orchestra sinfonica interpreta e racconta il suo ultimo album, Western Stars in una cavalcata musicale, impreziosita da immagini e ricordi della sua America e della sua vita..
Se un raffronto, seppure ardito, può farsi fra il tennis e la musica popolare, possiamo dire che Bruce Springsteen sta al rock, meglio, alla musica popolare tout court, come Federer sta al tennis. L’ennesima conferma del carisma e della grandezza dell’artista del New Jersey, da poco settantenne, ci arriva da questo “documento”, film, concerto, memoir e altro ancora, al tempo stesso . Aiutato dal regista Thom Zinny, (già suo prezioso collaboratore per, Springsteen on Broadway), il Boss, attraverso immagini attuali e del suo passato e filmati d’archivio, sottolinea e spiega le 13 canzoni dell’album omonimo (cui ha aggiunto la cover di Rhinestone di Glen Campbell), divenuto concerto, ma anche la sua visione dei tempi, la sua vita, persino le sue zone d’ombra. E lo fa con coraggio e ingenuità disarmanti. Springsteen che è forse la più famosa rock star del pianeta si mette a nudo come un uomo qualsiasi: la sua onestà intellettuale, evidentemente percepita dai suoi fan , lo rende unico nel panorama della musica popolare e se Dylan perse la “verginità” con il clamoroso salto dal folk al rock elettrico, il Boss può permettersi di spaziare dalle energizzanti tournee con la E street Band a tutto rock, a momenti di folk acustico , ad altri di country e persino a canzoni alla Bacharach, senza perdere l’entusiamo e la passione di chi lo segue , perchè quello è il suo autentico “sentire”. Allora, anche un album come Western Stars, vagamente ispirato ai dischi pop ascoltati tra gli anni 60’ e 70’ viene tranquillamente accettato e, nelle forti braccia del Boss, diventa un affascinante connubio di suoni e generi: il lavoro della maturità di un artista che ha ascoltato prima e realizzato poi la “colonna sonora della sua vita”. Va da sè, che una tale ibridazione di stili e armonie non poteva soddisfare tutti al primo ascolto, ma ,in seguito – e questo film contribuisce in tal senso – la maggioranza degli appassionati ha capito il lavoro e vi ha ravvisato i segni della Grande Musica a tutto tondo.Temi come l’amore, la solitudine, il senso della comunità, l’inesorabile scorrere del tempo, la famiglia e persino la spiritualità, non mancano nel racconto in prima persona a corredo dei pezzi suonati -live nel suggestivo teatro improvvisato, Se qualche critica va mossa al lungometraggio “springsteeniano”, nella versione italiana, presentata alla Festa del Cinema di Roma, è nella mancanza dei testi delle canzoni nei sottotitoli. Mentre al Boss, scontata la sua buona fede, gli si può comunque imputare una certa deriva predicatoria che a volte pervade la sua narrazione. Ovviamente, imperdibile per appassionati dell’artista e del genere.
data di pubblicazione:26/10/2019
da Giovanni M. Ripoli | Ott 18, 2019
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 17/27 ottobre 2019)
Lionel Essrog, un detective privato, affetto dalla sindrome di Tourette prende a cuore l’omicidio del suo capo e mentore, Frank Minna e, fra mille difficoltà, va alla ricerca dei mandanti e delle ragioni del delitto. Si troverà coinvolto in situazioni più complesse di come appaiano inizialmente in una città, la New York degli anni 50, già decisamente violenta e corrotta nei massimi esponenti della municipalità…
Edward Norton torna a dietro la macchina da presa a distanza di nove anni dalla commedia romantica, Tentazioni d’amore con Ben Stiller e lo fa da regista consumato nella pellicola Motherless Brooklyn – I segreti di una città, presentato in anteprima nel corso della 14esima edizione della Festa del Cinema di Roma. Rispetto alla precedente esperienza registica, una commedia brillante, il progetto, nell’occasione, è ben più stimolante e impegnativo. Parte da lontano, dall’acquisizione dei diritti di un testo di un autore importante come Jonathan Lethem, una storia che sia pure sfrondata e alleggerita, offre l’occasione per uno spaccato volutamente datato della New York degli anni 50. Per cominciare, calzante nella ricostruzione di quegli anni, al punto da pensare che poteva essere perfetto se girato in bianco e nero quasi come fosse un “noir” di quel periodo. Ma i meriti ascrivibili al film e al suo giovane “film maker” non si fermano qui; la pellicola ha spessore, ritmo e tranne, forse per qualche ingenua leziosità stilistica, scorre intenso e coinvolgente per tutto il suo andare. Norton, fra i tanti ottimi attori, si ritaglia un ruolo da autentico dominatore e protagonista, seppure nei panni di un anti-eroe con tanto di irrefrenabili tic, manie e debolezze. La sua è certamente una prova d’autore che troverà eco nelle nominations agli Oscar (fermo restando la forte candidatura come miglior attore protagonista di Joquin Phoenix in Joker) : il personaggio Essrog cattura per la sua fragilità, sensibilità e intelligenza e offre a Norton la possibilità di confermare quelle doti espressive, mai fuori dalle righe, già dimostrate in altre pellicole (su tutte, American History X, dove già ricevette la candidatura). Non sono da meno gli altri comprimari, la bella e brava, Gugu Mbatha-Raw (Laura Rose, un’attivista della comunità di colore con cui Lionel si accompagna nel corso della sua indagine), il consolidato Alec Baldwin (quasi un Trump ante litteram), Willem Dafoe (il fratello del cattivo) e i colleghi dell’agenzia investigativa ….La colonna sonora curata da Daniel Pemberton, coerente con le situazioni e lo sviluppo della trama , quasi suggerisce lo stato d’animo dei personaggi ed è impreziosito da pezzi Jazz famosi ( suonati all’interno del club di Harlem del padre di Laura e comunque funzionali alla logica del film) che col loro impatto ricreano la magica atmosfera dei “fifties”, con il celeberrimo ponte di Brooklyn, avvolto nella nebbia, a dominare molte scene. A riprova dell’amore di Norton per il grande cinema poliziesco del passato, non mancano le citazioni che i cinefili più scafati non mancheranno di individuare (Taxi Driver? Gli Intoccabili? Chinatown? Il Grande Sonno? E perché no, Hitchcock?). Dunque un bel salto nel passato per un film potente e ben costruito.
data di pubblicazione:18/10/2019
da Giovanni M. Ripoli | Set 24, 2019
Negli anni Sessanta a Hollywood , Rick Dalton è un attore alla ricerca del successo e vive quasi in simbiosi con Cliff Both, suo stuntman, ma anche grande amico e sodale. Cliff abita vicino alla villa di Polanski e Sharon Tate a Cielo Drive. Un giorno alla villa si affaccia un timido Charles Manson e…
All’interno del cinema (due giovani spettatrici sono uscite a metà della proiezione) e nei commenti ascoltati all’uscita si percepiva un certo disorientamento del pubblico rispetto al film del geniale e trasgressivo regista statunitense. C’era chi non trovava rispondente alla realtà storica il finale, chi registrava la noia durante alcune fasi di stanca della pellicola, chi ancora la trovava poco “tarantiniana”. Ora, non voglio dire che sempre i genii tendono a dividere nei giudizi , né sostenere a priori che Tarantino lo sia a pieno titolo, mi piace invece segnalare che la cifra stilistica del regista, ancora una volta, è rispettata secondo copione. La storia è inventata? Certo! Basti pensare ai tre puntini sospensivi del titolo. Del resto, non lo era anche Bastardi Senza Gloria? E il Django di Tarantino c’entrava forse qualcosa con quello di Corbucci? Nulla, solo pretesti e omaggi alla personale rivisitazione del cinema di riferimento dell’autore di Pulp Fiction. Ecco allora che il modo più onesto per fruire e godere C’era Una Volta… a Hollywood è quello di non porsi domande e lasciarsi trasportare dalla storia, dalle mille piccole invenzioni e dalle continue citazioni, anch’esse, ora vere ora create ad arte, per divertire e/o stordire lo spettatore. Evidentemente un pubblico troppo giovane o ignaro della cinematografia da B movies, cara al regista, non rimane intrigato come quanti hanno invece cognizione di quella cultura, musica, costumi e spettacolo che segnarono i “favolosi” anni 60. In tal caso, il gioco si fa piacevole e si traduce nel riconoscere, ad esempio, la vera Sharon Tate del film Missione Compiuta stop. Bacioni Matt Helm o le serie televisive western come Lancers, o quelle di investigation come F.B.I, nella messinscena girate dal protagonista del film Rick Dalton (un Di Caprio al suo meglio). Come pure, è un continuo alternarsi di presenze “reali”: Steve Mc Quinn o Bruce Lee (clamorosa la sequenza in cui Cliff Booth, un ironico e disincantato Brad Pitt, scaraventa il campione di Kung Fu contro la macchina del produttore). Per ragioni intuitive, non sto a raccontarvi quello che accade nelle quasi 2 ore e 40 del film e tantomeno il finale anti-storico, piuttosto mi soffermo ancora sulle ripetute citazioni, anche dichiarati omaggi, ai western italiani (Dalton, nella finzione, girerà in Italia con Corbucci” il secondo miglior regista di spaghetti-western”) e nella parentesi “romana” si vedranno i cartelloni, ora veri ora rifatti, di tante pellicole girate dai vari Margheriti, Fulci, Corbucci, registi che non poco hanno ispirato Tarantino. Naturalmente, non tutti i riferimenti sono espliciti: la ragazzina che lavora con Dalton in Bounty Law è forse Jody Foster? E i personaggi della Manson Family erano davvero come li ha descritti Tarantino? E quello che successe in Cielo Drive ? Niente è come sembra e il gioco del regista, perché di un gioco si tratta, è proprio quello dei continui rimandi fra realtà e fantasia, fra personaggi reali e inventati di sana pianta, in un affascinate caleidoscopio che coinvolge tanti ottimi attori: Al Pacino, Bruce Dern, Dakota Fanning, Maya Hawke, oltre ai già citati Leonardo Di Caprio e Brad Pitt e tanti altri. Ineccepibile la ricostruzione delle location del tempo, brillante la colonna sonora, azzeccato il montaggio per un film che forse dividerà , ma che ai veri cinefili non potrà che piacere mooolto!
data di pubblicazione:24/09/2019
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