da Giovanni M. Ripoli | Feb 22, 2020
Un terzetto di anziani romani di trastevere ipotizza di cambiare vita e godersela in un paese lontano dal potere d’acquisto più alto. Ma quando la decisione è imminente nella combriccola affiorano molte incertezze…
Di quante frecce al suo arco dispone questo nuovo film di Gianni Di Gregorio, già apprezzato al Torino Film Festival 2019? Davvero tante, pur nella garbata malinconia e nella sua apparente leggerezza. Ancora una volta il mondo, ma meglio sarebbe dire il microcosmo, in cui si muove il regista romano “tuttofare” ( self made man, stonerebbe nello specifico!) è ancora una volta quello “trasteverino”, una Roma in parte scomparsa, con Piazza San Cosimato, l’indolenza, il vino bianco, le chiacchiere da bar. Questa volta, Di Gregorio, dopo i ritratti generazionali, in prima persona (Il Pranzo di Ferragosto, Gianni e le Donne) e lo “scatto” di Buoni a Nulla, si avvale di forti comprimari per una commedia che non rinnega il suo cinema, sempre caratterizzato da umanità, ironia e leggerenza, senza essere mai banale.
Questo autore che i Francesi ci invidiano alla stregua di un Paolo Conte o Gian Maria Testa nella canzone o di un Nanni Moretti nella Settima Arte, da piccolo artigiano e quindi con pellicole dai costi risibili si riafferma con la sua cifra distintiva ai massimi livelli. La storia è apparentemente semplice: due amici, uno professore di latino e greco (lo stesso Gianni Di Gregorio), l’altro, Giorgetto, ignorantello che non ha mai lavorato veramente (Guido Colangeli) s’imbattono in Attilio (il compianto Ennio Fantastichini nella sua ultima magistrale interpretazione) e con lui, previe le consulenze di un amico (il grande Roberto Herlitzka) decidono di espatriare nelle Azorre. Nelle mani di Di Gregorio la materia si trasforma in una commedia che fa sorridere, ridere, ma anche riflettere in modo mai urlato sul nostro presente.
Così, ad esempio, anche il tema dell’immigrazione è affrontato con mitezza e in modo mai didascalico, attraverso il ruolo di Abu, giovane clandestino, lui sì vero viaggiatore, voglioso di raggiungere il fratello in Canada. Il film, dunque, può dirsi pienamente riuscito e godibile per tanti versi: la magnifica caratterizzazione della sonnolente fauna trasteverina, bonaria, non priva di tolleranza e umanità quando necessaria, un plot minimalista, ma che sa parlare di precarietà e immigrazione, di vecchi e nuovi poveri, e tre attori in stato di grazia, tutti perfetti nei rispettivi ruoli. Insomma, un piccolo grande film, ovvero cinema artigianale ma di altissimo livello: un gioiellino dove l’autorialità e l’originalità di scrittura lasciano il segno. Se proprio un appunto minimo gli si può muovere è forse un finale – che non sveliamo – diremmo, un tantino “veltroniano”, leggi buonista, che comunque nulla toglie alla sincerità e all’autenticità di uno dei migliori film italiani della stagione.
data di pubblicazione:22/02/2020
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da Giovanni M. Ripoli | Feb 11, 2020
La storia vera di Bryan Stevenson, giovane avvocato, laureato ad Harvard, che divenne famoso per aver difeso i detenuti di colore del braccio della morte di un carcere dell’Alabama privi dei più elementari diritti in un sistema giudiziario ostile e razzista.
Se questa fosse una pellicola degli anni ’50, ma che dico, ’60 potremmo anche non sorprenderci più di tanto delle ingiustizie, dei pregiudizi, del razzismo tout court di cui sono vittime gli afro americani. Il dato sconfortante è invece che i fatti narrati dal regista Destin Daniel Cretton nel suo sodalizio artistico con Brie Larson (qui anche come attrice nel ruolo di un’avvocatessa locale che si batte per la gente di colore), si sono svolti di recente e sono stati raccontati prima che nel film, nel libro di Stevenson Just Mercy, Storia di Giustizia e Redenzione del 2014, dunque in piena epoca Obama. Del resto, la cronaca e di conseguenza la filmografia statunitense non hanno mai mancato di raccontare le continue umiliazioni patite dai neri d’America. Dai tempi di Il Buio Oltre la Siepe ai film di Spike Lee, alle innumerevoli e spesso notevoli pellicole sui comuni abusi da parte di poliziotti spesso in odore di razzismo (ne cito solo alcune del 2018: Skin, Il Coraggio della Verità, Che Fare Quando il Mondo è in Fiamme, Se La Strada Potesse Parlare ……), tutte pellicole che spesso iniziano con l’arresto di un ignaro afro americano fermato in auto dalla polizia in cerca di colpevoli a prescindere… Anche nella storia narrata da Cretton l’incipit è il medesimo: Walter MacMillan, che nel film ha il volto di Jamie Foxx, lavoratore nero, viene fermato e in seguito accusato del delitto di una giovane bianca. La più becera provincia dell’Alabama all’unisono (polizia, magistratura, governatore) si accontenta di prove e testimonianze superficiali e “condanna” Mac Millan (“..basta guardarlo in faccia!”). Ed è a questo punto della storia che entra in campo il brillante avvocato Stevenson, interpretato da Michael B. Jordan (Black Panter, Creed),il quale non crede alla colpevolezza di Mac Millan e decide di difenderlo nonostante il suo stesso assistito, oramai già nel braccio della morte e in attesa dell’esecuzione della sentenza, e con lui la locale comunità nera abbia perso ogni speranza. Ovviamente il regista è totalmente in sintonia con il giovane “eroe” e lo segue nella sua drammatica lotta contro pregiudizi e ingiustizie riuscendo infine a rendere giustizia all’innocente. Come dicevo in premessa non è il primo e temo non sarà l’ultimo film sul razzismo e più in generale, sulla paura del diverso, ma la pellicola ha efficaci frecce al suo arco: è asciutta, mantiene un buon ritmo, è ottimamente recitato e, purtroppo, riesce a fotografare ancora una volta in modo impietoso il volto di un’America che tollera a tutt’oggi inique disparità sociali e razziali.
data di pubblicazione:11/02/2020
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da Giovanni M. Ripoli | Gen 27, 2020
1944, Jojo ha dieci anni ed è convinto di essere un perfetto giovane nazista: vive con la mamma, odia gli ebrei che non conosce ed ha un amico immaginario che è una versione bizzarra di Hitler. I problemi di identità si accentuano quando scopre che la madre nasconde in casa una giovane ebrea…
Periodicamente, spesso con giustificato entusiasmo di pubblico e critica, vengono alla luce pellicole che riescono a trattare in modo ora grottesco, ora delicato, ora decisamente surreale, il serio e tragico racconto dello sterminio degli ebrei, attraverso parodie del nazismo, più o meno riuscite.
Da Ernst Lubitsch (Essere o non Essere del 1942) a Mel Brooks (omonimo remake del 1983) da Benigni (La Vita è Bella, del 1997) a Radu Mihaileanu (Train de Vie del 1988) per citare i più celebri, molti registi si sono cimentati nella narrazione ironica della Shoah, spesso facendo storcere il naso agli ebrei più ortodossi… L’ultimo, in ordine di tempo è il geniale Taika Waititi, regista neozelandese del ‘75 (padre maori, madre ebrea) che offre una nuova prospettiva, in grado di far sorridere – a volte anche ridere tout court– spiegando ai ragazzini che cos’è stato il nazismo. E lo fa con uno scenario, solo apparentemente rivolto agli adolescenti: una piccola città di provincia, campi di addestramento per bambini che si conoscono fra di loro, macchiette naziste a gestire il locale campo paramilitare. Il film, presentato a Toronto e da noi a Torino, in anteprima, è candidato a ben sei Oscar (peraltro quasi un destino segnato per le pellicole che trattano la tematica dello sterminio) e certamente si può dire che colpisce nel segno. Tratto dal romanzo della scrittrice Christine Leunens, l’eclettico Taika Waititi, sceneggiatore, attore e regista, ha realizzato una commedia surreale, a volte musical, a tratti parodia, in grado di catturare spettatori di ogni età, parlando di nazismo, una tantum, senza toni cupi. Con citazioni che vanno da Il Grande Dittatore del supremo Chaplin al sopravvalutato La Vita è Bella, Jojo Rabbit è un’opera riuscita e accattivante, resa quasi perfetta dall’alchimia di una sceneggiatura semplice ma diretta, una coerenza stilistica ineccepibile di musica, fotografia, costumi, dialoghi e, soprattutto, interpretazioni di altissimo livello da parte degli attori prescelti. L’undicenne James Rolleston ha espressione e pudori propri dell’innocenza infantile. Il suo miglior amico Jorki, interpretato da Archie Yates, forse, è giovane attore ancora più versatile. Ma, giustamente candidata come migliore attrice non protagonista ritroviamo una Scarlett Johansson (risoluta, divertente e sfortunata madre di Jojo), ormai uscita dal frusto clichè di “bella senz’anima” e destinata a ruoli sempre più impegnativi (vedi Marriage Story) che ne attestano la crescente bravura. Di sicuro, però, nessuno dimenticherà l’Hitler-nazista burlone frustrato, modello angelo custode immaginario, il personaggio più esplosivo del film, interpretato proprio da Taika Waititi, cui si deve un’impresa che di certo lascerà il segno nella storia delle migliori gags del cinema grottesco. Tanto e tant’altro ci sarebbe da dire su questo film che si presenta alle apparenze come una piccola pellicola destinata alle giovani generazioni, ma che ha invece enormi pregi da scoprire in ogni sua sequenza. Al di là dei significati, della valenza storica, dei valori che trasmette, siamo di fronte a un autentico gioiello, che certamente si valorizzerà ancor più nel tempo. Onore, dunque, al geniale Waititi, autentico one-man-show!
data di pubblicazione:27/01/2020
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da Giovanni M. Ripoli | Gen 20, 2020
Checco è un piccolo imprenditore di Spinazzola nelle Puglie che progetta in modo truffaldino affari inevitabilmente votati al fallimento. Nei guai con l’Agenzia delle Entrate e costretto a fuggire in Kenia, si ricicla come cameriere, si fa un amico, s’innamora di una bella locale. Scoppia, però, una guerra e, costretto a fuggire, si ritrova a compiere un viaggio non diverso da quello di migliaia di migranti per raggiungere porti europei più o meno ospitali….
Derubricato a fenomeno di costume, previa esclusione da consessi civili o almeno alle “ classiche quattro chiacchiere tra amici”, oggetto di studio per psicologi, politici diversamente schierati, tuttologi vari, Checco Zalone è tornato a colpire, registrando, as usual, il tutto esaurito con il suo Tolo Tolo. Per quanto in premessa, la risposta del pubblico è stata immediata almeno nelle prime due settimane di programmazione, registrando gli attesi record di affluenza. Al cinema si andava perchè c’era il nuovo film di Checco, poi, gradualmente, è scattata l’incognita del passa parola e chi non si era precipitato “per dovere” ha cominciato a farsi un’opinione… i giornali di destra, forti di opinioni “autorevoli”(Gasparri, La Russa) hanno bocciato il film, a loro dire insulso e mai divertente, quelli, diciamo di sinistra, leggendolo in chiave pro-immigrati lo hanno accolto decisamente meglio. Entrambe le sponde hanno evidentemente frainteso. Tolo Tolo non è un film comico tout court, come non lo era Quo Vado?, ma è sul piano del puro spettacolo cinematografico che onestamente segna un passo in dietro rispetto al precedente successo di Zalone. E non perchè non sia lodevole il tentativo di Luca Medici, assistito (fin troppo?) da Paolo Virzì in qualità di co-sceneggiatore, di realizzare una pellicola ricca di riferimenti all’attualità e al sociale, quindi solidale con la gente dei barconi, quanto, piuttosto perchè quando c’è troppo si rischia di generare confusione o, a tratti, anche noia. Se nei precedenti tre film, Zalone si limitava a sfoggiare le sue indiscutibili doti comiche, ben diretto da Gennaro Nunziante in pellicole ben scritte e chiaramente pensate per un divertimento intelligente, ma mai sofisticato, qui, Medici/Zalone ha voluto essere tutto: autore, regista, musicista, cantante, attore e, non essendo Chaplin, come è facile evincere, ha esagerato! Il film, sia chiaro, non è brutto, Checco ha alcune battute e gags molto divertenti, ha scene credibili, non lesina mezzi (non a caso è costato alla produzione 23 milioni di euro), ha alcuni momenti di eccellenza (la auto-parodia di Nicki Vendola, come lo straordinario episodio della cicogna strabica, a mezza strada tra il musical e il cartoon ), ma il tutto appare un po’ slegato, discontinuo, disomogeneo, vanificando il corpus e le nobili intenzioni dell’autore.
La sensazione ultima è che Luca Medici e con lui il produttore Valsecchi abbiano voluto rinnegare in parte i precedenti lavori, rilanciando un personaggio sempre “alla Checco” ma, più impegnato, meno frivolo, col risultato meritevole di non piacere al più becero qualunquismo italico ma, al contempo, non riuscire a concepire un film in grado di coniugare appieno impegno e divertimento. In conclusione Zalone, promosso come attore e musicista, rimandato come regista!
data di pubblicazione:20/01/2020
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da Giovanni M. Ripoli | Gen 1, 2020
TEATRO SALA UMBERTO – Roma, 26 dicembre 2019/19 gennaio 2020)
Equitalia all’attacco di Alberto Pisapìa, ristoratore sull’orlo del fallimento, in totale crisi. Malato in preda ad esaurimento nervoso, in rotta col cognato avvocato e la spietata suocera, insicuro persino della fedeltà della moglie…!Solo un miracolo potrebbe salvarlo.
Questa volta il bravo Buccirosso ha fatto tutto da solo. Si è scritto un testo, tratto dal suo, Il Miracolo di Don Ciccillo, se lo è diretto riservandosi il ruolo di protagonista per la sua ultima fatica in scena dal 27 dicembre alla Sala Umberto di Roma, affollata per la sua prima.
Il risultato non può che essere una commedia paradossale e grottesca costruita sulle indubbie doti comiche ma, nell’occasione, anche drammatiche, dell’attore partenopeo. A metà strada tra una recitazione che cita i grandi della tradizione napoletana e il più recente Woody Allen, Alberto è un personaggio ambiguo che incuriosisce e cattura per le molte sfumature e i tanti riferimenti all’attualità. In sott’ordine sono le“maledette tasse” con le sue “inique” cartelle le vere protagoniste della piece, incarnate nelle vesti della suocera e del “postino”(nanetto) latore delle cartelle che tolgono sonno e salute al titolare del “Picchio Rosso”.Come si potranno risolvere i problemi economico-esistenziali del Pisapia non è politicamente corretto rivelare, di certo l’uomo (come forse molti italiani) non trova la forza di patteggiare con lo Stato il dovuto e quindi temporeggia in una asfissiante lotta contro cavilli e burocrazia. Nellafattispecie, l’odiata suocera, piccola funzionaria di Equitalia ne diviene il capro espiatorio e la causa principale delle sventure del ristoratore che più volte cercherà di sopprimerla dando luogo ad alcune delle scene più divertenti e grottesche dell’intera commedia.Inutile negare che buona parte del pubblico “tifa” con Alberto e giustifica le sue reazioni esasperate. Si ride? Si spesso, ma un sottofondo amaro impernia tutto il lavoro che ha l’indiscusso merito di essere una rappresentazione corale grazie al molto spazio lasciato da Buccirosso agli altri comprimari, tutti abilmente calati nei rispettivi ruoli. Così, oltre alla solita apprezzabile performance di Carlo Buccirosso si ha l’occasione di apprezzare anche il gruppo di attori messi in scena. Sono attori ben amalgamati da segnalare all’unisono: Donatella De Felice (la moglie), che si fa apprezzare anche per le doti canore, Elvira Zingone (la figlia anarchica ma fedele), Giordano Bassetti (il figlio Matteo), Gennaro Silvestro (il cognato) e ancora Tilde de Spirito, Fiorella Zullo e Beppe Miale, tutti, ripeto, bravi e affiatati con una citazione ulteriore per Davide Marotta (l’attore più piccolo di statura ma anche il più divertente). Se vogliamo un intrattenimento divertente che, nelle attese dell’autore, induce anche a qualche riflessione più seria sull’impotenza del cittadino verso le istituzioni. Attenzione: il qualunquismo è dietro l’angolo, ma per una sera, ridiamo sulle tasse con Buccirosso e non ci pensiamo!
data di pubblicazione:01/01/2020
Il nostro voto:
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