da Alessandro Rosi | Giu 29, 2016
(Teatro Argentina – Roma, 28/30 Giugno 2016)
“Quando ero in Ghana non ho mai recitato, mentre qui ho avuto l’opportunità di entrare nel gruppo teatrale; e sono molto emozionato di poter recitare in teatro, mai l’avrei pensato quando ero nel mio paese.” (Mubarak Rabin Bawa)
Ogni anno un milione di persone attraversa la sconfinata e traslucida distesa azzurra del Mediterraneo per trovare rifugio nella terra del tramonto. Di queste anime liquide, 3900 non riusciranno a portare a termine il viaggio, e il mare “spolperà le loro ossa in sussurri”. Mubarak Rabin Bawa è tra coloro che sono scampati al mare e fuggiti dai telegiornali; insieme con altri richiedenti asilo del C.A.R.A. — Centro Accoglienza Richiedenti Asilo — di Castelnuovo di Porto (RM) ha rinunciato a raggranellare qualche soldo durante la sua permanenza per investire otto mesi del suo tempo libero nel teatro, incontrando altri uomini e altre donne sulla “spiaggia del palcoscenico”.
Respiro è il secondo spettacolo della trilogia del Teatro del Deserto e segue l’acclamato Sabbia. Respiro come l’atto quotidiano, automatico, incondizionato; ma anche ciò che ci distingue da chi non è più vivo. Il regista, tuttavia, ci avverte che non è un’opera di teatro sociale ma una composizione poetica di scene tra teatro, danza e musica. Non c’è nessuna idea da comunicare, nessun messaggio; non c’è alcuna recita drammatica, né personaggi dove ogni attore fa finta di fare qualcun altro: una forma di teatro che contrasta con la tradizione scenica del realismo discorsivo. Al posto del recitato vi è un intreccio di parole di lingue diverse, musiche di differenti etnie, danze coreografiche eterogenê (nel ballo si distingue per la sua forza dirompente Eva Grieco, che fende il palco con movimenti estemporanei ma ben calibrati). Un pot-pourri senza intento pedagogico; diversamente dal teatro che illustra e giudica, l’azione scenica qui si presenta come semplice evento.
Tavoli, sedie, materassi costituiscono la scena, che rimembra i centri di accoglienza che ospitano gli attori: non luoghi dove i rifugiati attendono una pronuncia sulla richiesta di asilo e che sono spesso teatro di rivolte, ma anche posti di convivialità.
Una rappresentazione allegra, vivace, variopinta in cui il pubblico rimane “ferito a morte dalla vitalità” e che scatena un maremoto di emozioni alla vista della reazione degli attori all’acclamazione del pubblico: inebriati dalla gragnuola di applausi, c’è chi improvvisa uno stage diving; chi invece si guarda spaesato intorno, realizzando solo in quel momento di trovarsi in un teatro così ricco di storia come l’Argentina; e, infine, chi si stropiccia gli occhi perché non crede a ciò che vede.
Non tutti i sorrisi sono uguali, quelli che si disegnano sui loro volti a fine spettacolo sono speciali.
La loro gioia è la speranza che si può migliorare, che l’uomo possa apprendere l’uno dall’altro; e che le morti infauste e premature di qualcuno possano fungere da monito per il futuro. Pensiero condensato alla perfezione nella seguente poesia di T.S. Eliot:
La morte per acqua
Fleba il fenicio, morto da quindici giorni
dimenticò il grido dei gabbiani, e il gorgo profondo
del mare
e il guadagno e la perdita.
Una corrente sottomarina
spolpò le sue ossa in sussurri. Mentre affiorava e affondava
attraversò gli stadi della maturità e della gioventù
sprofondando nel vortice.
Gentile o giudeo, tu che volgi la ruota
e guardi nella direzione del vento, pensa a Fleba
che un tempo era bello e alto al pari di te.
— T. S. Eliot
Prezzo dei biglietti:
– Intero: 8€
– Ridotto: 5€
data di pubblicazione: 29/06/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Giu 11, 2016
“Non giriamo più film qui. C’è la guerra ora.”
Amhed (mercenario ceceno al servizio degli abcasi) e Nika (miliziano georgiano) sono nemici seduti uno di fronte l’altro, convalescenti dalle ferite riportate in seguito a un conflitto a fuoco. Non c’è solo un tavolo a separarli; le loro religioni, i loro rituali, la loro musica diventano una barriera insormontabile. E alla violenza delle armi, si sostituisce quella della favella: nella loro lingua fredda, spigolosa, tagliente il suono delle parole risuona duro e secco come quello dei colpi di un’ascia.
La scure è utilizzata anche da Ivo, proprietario della casa che li ospita, per tagliare la legna e costruire cassette utili al vicino Margus nella raccolta dei mandarini. I due sono tra gli ultimi a essere rimasti in un piccolo villaggio estone (retaggio di un’emigrazione di parte della popolazione del paese baltico per volere dello Zar, ai tempi dell’immenso impero russo) situato in Abcasia, regione della Georgia, dove tra il 1991 e il 1993 gli abcasi lottano per l’indipendenza, ma trovano la strenua opposizione dei georgiani.
I motivi che hanno spinto i due estoni a rimanere sono differenti: Margus vuole raggranellare più denaro possibile dal raccolto di mandarini prima di ritornare in Estonia; Ivo, invece, è legato alla terra da un segreto orfico, che ha radici ben più lontane e profonde della guerra che imperversa. Dopo uno scontro armato avvenuto innanzi alle loro abitazioni, salveranno la vita ad Amhed e Nika; ma la convivenza tra i miliziani non sarà semplice. L’anziano canuto Ivo, tuttavia, si dimostrerà capace di sradicare dai due l’odio e il veleno che li corrode e di introiettare in loro l’amore e la fratellanza. I mandarini allora, frutto dalla buccia ruvida ma con la polpa interna dolcissima, finiscono per tramutarsi in allegoria dei due combattenti che, tolte le loro armature, si riveleranno disponibili e affabili; perché, come afferma il regista, “anche i più fieri nemici possono superare l’innaturale opposizione e i massacri istituzionalizzati dettati dalla guerra, se credono nell’umana bontà, nella capacità di perdonare e proteggersi l’un l’altro”.
La pellicola realizzata da Zaza Urushadze inquadra la guerra da un punto di vista insolito, più intimo; un lavoro completo, quello del regista estone, che per la seconda volta vede una sua opera selezionata tra i migliori film stranieri agli Academy Awards; e quest’anno, per giunta, ha ottenuto anche una candidatura per la scintillante statuetta dorata (e pensare che un film così intenso e ben arrangiato è stato scritto in sole due settimane e realizzato in cinque!).
Contribuiscono a elevare il film l’oculata scelta degli attori, che si addicono alla perfezione ai ruoli rivestiti, e la malinconica colonna sonora composta dal georgiano Niaz Diasamidze: tra il suono penetrante del panduri (strumento a corde: ibrido tra mandolino e chitarra) e la voce soave di un cantante georgiano, lanciamo anche noi insieme a Ivo lo sguardo oltre l’orizzonte, con la promessa di un ritorno.
data di pubblicazione: 11/06/2016
Scopri con un click il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Giu 3, 2016
(Teatro Sala Umberto – Roma, 1 Giugno 2016)
Una coltre di fumo inonda il palcoscenico fino ad avvolgere gli spettatori presenti in sala. Tra le nubi s’intravede una sagoma oscura, imponente, inquietante; nonostante la densità dell’aria, le sue parole fulminanti squarciano la nebbia: si chiama Aron ed è qui per raccontarci la sua storia.
La figura testé palesatasi non è altro che un sicario al libro paga di un’organizzazione criminale. La sua unica compagna è una Colt calibro 45, per il resto la solitudine lo divora, lo consuma. Mentre la sua arma fa fuoco verso le vittime designate, a far infuocare il suo cuore sarà Juliet, una splendida cantante incontrata in un night. La relazione che nascerà sconvolgerà la vita del criminale: spietato e cinico durante il lavoro, si dimostrerà un amante comprensivo e passionale ma, proprio per la sua inesperienza in campo amoroso, vivrà una profonda crisi d’identità e, pertanto, mediterà di lasciare il suo lavoro. La vita che Aron sogna di costruire, tuttavia, è puntellata da evanescenti illusioni e il suo progetto è destinato a crollare. La rottura con la splendida giovane aprirà una frattura indelebile e lo farà ripiombare nell’oscurità. Si addensano nuovamente le nubi intorno a lui, e prendono la forma dei suoi fantasmi, dei suoi demoni, pronti ad assalirlo di nuovo; perché non si possono rinnegare le proprie radici e Aron lo sa, lui è il professionista.
Ai continui sconvolgimenti tellurici dell’animo del protagonista, fa da pendant la scenografia realizzata da Fabrizio Bellaci e Davide Germano che, utilizzando del truciolato, forgiano gli elementi della scena in guisa che possano assumere varie forme, incastrandosi durante la messinscena come tessere di un mosaico.
Il conflitto interiore è reso adeguatamente con la personificazione del lato oscuro di Aron, interpretato efficacemente dall’adone Marco Rossetti, che realizza, in coppia con Maurizio Tesei, una delle scene più intense della rappresentazione.
La dark-comedy di Tommaso Agnese si rivela interessante e al contempo divertente, mercé il monologo esilarante di Antonino Iuorio (nei panni del rivale in amore di Aron) che consente di alleggerire la narrazione.
Lo spettacolo lanciato Fabrique du Cinéma, affiancato dalle mostre d’arte contemporanea, è un’idea innovativa che ha il merito di aver sperimentato e, soprattutto, di aver dato spazio ai giovani, rischiando dal punto di vista del risultato; d’altronde, come recita lo stesso protagonista durante la rappresentazione: “La vita è come un dado, non sai mai quale numero ti uscirà.”
data di pubblicazione: 03/06/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Mag 24, 2016
(Museo Carlo Bilotti – Roma, 21 Maggio 2016)
Non appena varchiamo la soglia del Museo Bilotti, una figura minuta, scheletrica, deforme si dirige minacciosamente verso di noi. Il suo volto è coperto da una maschera demoniaca — che rievoca quella di Hannibal Lecter —, mentre il suo corpo si contorce, si dimena, si rotola per liberarsi dalla tela nera in cui è intrappolato, simbolo delle sue paure e angosce. Ai suoi lamenti inumani, si contrappone la melodia incantevole di un violino, che scandisce il frenetico alternarsi delle sue emozioni.
L’essere animalesco non è altro che Calibano (nome che, con tutta probabilità, deriva da cannibale), personaggio de La tempesta di Shakespeare; e noi siamo entrati nel suo mondo incontaminato — nella sera in cui le Muse permettono di visitare il loro tempio anche in notturna — disturbando la quiete imperante nella sua dimora. Con una danza sincopata e inquietante, ci inseguirà per le stanze del museo per riconquistare la supremazia perduta.
Ma nell’ultima sala del palazzo, l’essere mostruoso si dilegua e da dietro un quadro appare un’altra maschera: stavolta è quella dell’ebreo Shylock, o meglio, di un attore che racconterà di essere rimasto intrappolato nel personaggio e che gli unici momenti in cui gli è concesso togliersi la maschera sono determinati dalla musica di un violino. Ed è proprio trasportato dalle onde sonore dello strumento a corde che ripercorrerà la storia del Mercante di Venezia, evidenziando la misera condizione del suo personaggio: avido di denaro, perde ogni suo avere per aver chiesto illegittimamente, ancorché in virtù di un accordo, una libbra del cuore del cristiano Antonio. Nonostante la sua richiesta appaia a prima vista turpe, il suo intento era di rendere più umano il suo antagonista, togliendo dal suo cuore quella parte malvagia che lo portava a macchiare con la sua saliva le vesti del cupido giudeo.
Lo spettacolo è sensazionale sia per le prestazioni degli attori — Vittorio Pavoncello si esalta nell’interpretare i diversi personaggi del Mercante di Venezia; mentre spaventevole e intensa è l’abilità mimica di Ro’ Rocchi — sia per il luogo in cui si svolge: nella sala dedicata a De Chirico anche i capolavori del pittore assistono alla messinscena, contribuendo a realizzare un’atmosfera magica, dove le raffigurazioni dei quadri si fondono con i personaggi dello spettacolo. Anche i manichini dei suoi dipinti — invero —, poiché possiedono a un dipresso l’aspetto dell’uomo, ancorché siano privi di vita, fanno paura e irritano come Calibano e Shylock. In questo mélange tra ambiente e attori, prende vigore il messaggio veicolato dallo spettacolo per una società capace di accettare le peculiarità di ognuno senza discriminazioni, perché: più ci sono diversità e meno sono le differenze.
data di pubblicazione:24/05/2016
da Alessandro Rosi | Mag 15, 2016
(Teatro Arcobaleno – Roma, 11/29 Maggio 2016)
“Meine Damen und Herren, Ladies and Gentlemen, Signori e Signore” pronti a scoprire quale vincolo straordinario, inspiegabile, irrazionale lega i personaggi di questa storia?
Germania. 1933. Lo Stato mitteleuropeo è in pieno fermento nazionalsocialista; il calore dei sentimenti lascia spazio al freddo acciaio delle armi. Una fiumana di persone si riversa nei paesi confinanti, costretta a fuggire perché considerata impura o non all’altezza dell’emergente razza ariana: non sembra esserci più posto per i sentimenti. E, invece, in un teatro di cabaret rimane ancora un barlume di speranza; in questo luogo, mitico e incontaminato, si formeranno coppie e l’amore sorprenderà gli attori e riscalderà i loro cuori doloranti.
400 anni sono trascorsi dalla morte di Shakespeare, ma le sue opere sembrano non avere età, capaci di vincere il tempo.
In questa rilettura della commedia del drammaturgo inglese (datata 1600), Ilaria Testoni sceglie di attualizzarla ambientandola nella Germania del 1933, in guisa da conferire maggior risalto al contrasto tra i nobili sentimenti e le azioni inumane compiute durante il regime. Attraverso la tecnica metateatrale si catapulta lo spettatore sul palco, rendendolo maggiormente partecipe della narrazione. Siffatta scelta registica è resa adeguatamente da Bruno Vitale attraverso il posizionamento di un velo posto a metà del palco – come la patina che ricopre le antiche fotografie, donando allo spettacolo ancor più fascino – e che permette di dividere gli ambienti (dietro le quinte e palcoscenico) del teatro tedesco dove avviene la messinscena.
La rappresentazione è piacevole e armoniosa; la Compagnia Mauri Sturno – composta di professionisti del mondo teatrale che lavorano insieme a giovani attrici e attori – si rivela uno strumento perfettamente accordato, in cui i commedianti suonano la loro parte come le corde di un violino (tra cui spicca la brillante l’interpretazione di Camillo Marcello Ciorciaro). In questa storia universale, tuttavia, non solo gli attori recitano, ma anche il pubblico finisce per essere emotivamente coinvolto, perché:“Tutto il mondo è palcoscenico”.
data di pubblicazione:15/05/2016
Il nostro voto:
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