da Alessandro Rosi | Set 3, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
Una rapina in una gioielleria finisce in un bagno di sangue. Il padre e la compagna di Jose sono pestati brutalmente, e quest’ultima si spegne davanti ai suoi occhi. Senza più nulla da perdere ricatterà l’unico malvivente condannato, al fine di scovare i suoi complici e placare la sua sete di vendetta; ma scoprirà che la strada della giustizia privata è irta di spine.
Al bar Carrasco si ride e si scherza; si gioca a carte e si viene allietati dalle forme sinuose e provocanti della donna che serve ai tavoli: la sensuale ed elettrizzante Ana. Jose ne rimane subito colpito, e per superare il dolore provocato dalla perdita della compagna (vittima di un rapina nella gioielleria del padre) inizia a corteggiarla. Inizia così una intensa relazione tra i due, che ben presto decidono di trasferirsi nella casa in campagna di lui.
Un uomo facoltoso che strappa una donna affascinante dai quartieri malfamati: sembrerebbe una relazione idilliaca e a lieto fine; ma Ana in realtà è già sposata con Curro, rinchiuso in carcere per essersi reso complice in una rapina in un gioielleria. La stessa in cui è stata uccisa la moglie di Jose.
Si rivela allora il piano vendicativo di Jose, ossia ricattare Curro per scovare gli altri tre complici della rapina. Ed è solo il primo dei colpi di scena presenti durante il film; in una narrazione che procede incalzante e senza freni, come l’ira esplosiva di Jose.
Il regista Raùl Arévalo si dimostra abile anche dietro la macchina da presa – e non solo come attore (veste che indossa abitualmente). Non c’è spazio per le pause durante la proiezione e il film corre veloce, risultando ben congegnato. L’abilità del giovane direttore è ravvisabile particolarmente nella costruzione dei momenti di tensione, i quali, attraverso il sapiente uso della musica in crescendo e con le fugaci e strette inquadrature, riescono a tenere lo spettatore sulle spine durante tutti i periodi di spannung.
La pellicola porta inevitabilmente a riflettere sulla scelta di Jose di farsi giustizia da sé: una soluzione rischiosa ma più semplice di quella legale, e che permette di liberarsi del sentimento opprimente e insaziabile di vendetta. Un film ben strutturato, che si segue piacevolmente e mostra la rabbia in tutte le sue forme.
data di pubblicazione:03/09/2016
da Alessandro Rosi | Set 3, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
Il cammino vocazionale di Michael alla ricerca dell‘amico d’infanzia ferito. A piedi nudi attraverso il deserto cileno per riuscire nel miracolo di curarlo, in lotta costante con la diffidenza generale.
Tra le sterpaglie dell’arida regione cilena della Pampa del Tamarugal, l’unico suono che rompe il silenzio è il sibilo del vento tra i rami secchi. Nessun altro rumore a colmare il vuoto che circonda questa regione desertica. Nessuna speranza per la devastante indigenza in cui versano gli abitanti della zona.
Michael ha bisogno di credere che ci sia la possibilità di migliorare questa terribile condizione; vuole un segnale divino. Perciò s’inoltra nel deserto insieme all’amico fraterno e qui si fa trafiggere le mani da due chiodi, restando in attesa di un miracolo. Ma nulla accadrà; e il sangue continuerà a gocciolare incessantemente dalle sue ferite. Sono invece i frammenti di fiducia in lui che si coagulano e illuminano i suoi occhi, che brillano di una nuova luce.
Rinvigorito nello spirito, Michael cercherà di trasmettere agli altri la rinnovata fiducia in se stesso. Suo malgrado, si ritroverà ad essere tacciato di essere un millantatore e deriso pubblicamente. La sua fede però non cesserà sotto i colpi inferti dalle offese altrui, e, venuto a conoscenza dell’infortunio occorso al suo amico fraterno – trasferitosi in precedenza presso una città di minatori per lavorare – deciderà di compiere un pellegrinaggio per riuscire nel miracolo di ridargli speranza.
Inizia così il viaggio messianico del cristo cileno di La Tirana verso il paese di La pisagua. Un cammino in cui incontrerà diverse persone in situazioni disagiate e alla disperata ricerca di aiuto. Man mano che prosegue nel suo percorso, il silenzio che pervade l’ambiente circostante sarà interrotto dalla sua musica interiore, che tocca le corde delle persone che incontra: la fede diventerà il suono che riempie il loro vuoto.
Il regista Cristopher Murray sceglie di dirigere una pellicola dai forti connotati religiosi. Sebbene il cineasta non sia credente, C. Murray ha dichiarato che l’interesse per la religione nasce per due ordini di motivi: “perché è il più grande mistero e perché è radicata nei problemi concreti, nel vuoto della società. Segnatamente, in Cile la religione è una forma di costruire, per sopperire alle evidenti carenze sociali”.
Una pellicola che si distingue positivamente per l’attiva partecipazione degli abitanti della zona, che durante le riprese si sono spinti a consigliare quale luce utilizzare o quali dialoghi e conversazioni inserire. E nella proiezione traspare profondamente la sinergia e l’interazione creatasi.
Lo sviluppo del film, tuttavia, appare poco fluido e ripetitivo; e ciò inficia la storia del film, che nonostante tocchi tematiche profonde (e indubbiamente interessanti) non riesce nell’obiettivo di tener incollato lo spettatore allo schermo.
data di pubblicazione: 03/09/2016
da Alessandro Rosi | Set 2, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
Dialogo tra un uomo e una donna all’ombra di un placido bersò. La natura circonda i personaggi e si fonde nei loro racconti poetici; ma sulla luminosa e trasognata atmosfera estiva incombe l’oscura attualità.
Una luce calda e intensa abbaglia gli Champs Elysee, la Tour Eiffel e la Senne. Le inquadrature dei più affascinanti luoghi della capitale francese si susseguono lentamente, e dolcemente si allontanano dal centro storico per portarci in un incantevole giardino del suburbio bucolico parigino: una sequenza emozionante e resa ancor più efficace dalla profondità espressiva che dona il 3D. Sensazioni confermate dallo stesso regista in conferenza stampa che, alla nostra domanda su quale fosse il motivo che lo ha spinto a ricorrere al cinema tridimensionale, ha risposto affermando di voler optare per tale tecnica innovativa per coinvolgere maggiormente lo spettatore, in guisa da circondarlo dei suoni provenienti dallo stormire delle fronde e dal cinguettio dei volatili; e di carezzarlo virtualmente con le foglie degli alberi.
Sul giardino paradisiaco dove si è posata la cinepresa, si affaccia la stanza di uno scrittore, il cui sguardo fisso nel vuoto etereo è alla ricerca d’ispirazione. Un tavolo, due sedie e una mela: è quanto basta per dare inizio ad una nuova storia. Seduti sotto un rigoglioso pergolato – e suggestionati dal frutto del peccato originale – un uomo e una donna iniziano un periglioso jeux d’amour verbale. Nel dialogo platonico che coinvolge i due, l’entusiasmante Sophie Semin si racconta al confidente, il quale è abile nel ghermirle i segreti più inconfessabili sul rapporto con il suo sesso e con l’altro. Ed è in questo scambio di esperienze, perfuse da afflato poetico, che emerge con forza dirompente la natura, quale elemento onnipresente e determinante nelle azioni di ognuno di noi – sia nella sua veste pura e candida che in quella laida.
Wim Wenders sceglie di riadattare per il grande schermo l’opera teatrale di Peter Handke. Un testo profondo dove le anime dei due personaggi si scontrano e si fondono, ancorché senza violenza; una rappresentazione con un forte impatto emotivo, specialmente per i temi delicati che vengono toccati. L’adattamento cinematografico, tuttavia, difetta della sublime empatia che solo la mise-en-scene teatrale può conferire al pubblico, specialmente per un testo di tal fatta.
Una pellicola che indubbiamente porta a riflettere sulle relazioni tra uomo e donna, ma che al contempo finisce talvolta per essere un’opera estetizzante: un divertissement en plein air.
data di pubblicazione: 02/09/2016
da Alessandro Rosi | Ago 28, 2016
Un padre, una figlia e un esame di maturità per poter fuggire dalla realtà; una prova in cui devono districarsi entrambi, nel fitto groviglio di problemi che affliggono la Romania.
La telecamera apre il suo occhio sul desolante panorama offerto dall’urbanizzazione industriale rumena. Edifici squadrati, bianchi e asettici affondano le loro radici di cemento nel terreno, una volta verde e incontaminato. Non solo il suolo è corrotto, anche coloro che lo vivono sono ingabbiati in un intricato sistema clientelare – sotto le mentite spoglie di una solidarietà reciproca e benevola (io aiuto te, così tu aiuti me) – che lega ministri, medici, poliziotti. In un Paese dove è difficile emergere senza avere le giuste entrature, Romeo – sanitario onesto e alacre – cerca di costruire un futuro altrove alla giovane figlia Eliza. Dopo aver ottenuto la borsa di studio per la prestigiosa università di Cambridge, alla studentessa rumena manca solo l’esame di maturità per poter emigrare. “Una semplice formalità”, secondo il sentir comune, che invero nasconde innumerevoli insidie, le quali si paleseranno dopo che Eliza, mentre si avvicinava alla scuola per sostenere l’esame, viene aggredita e subisce un tentativo di violenza sessuale. Un evento che scatenerà il pandemonio: Romeo proprio mentre stava per posizionare l’ultima carta sul castello costruito per la figlia, si vede crollare repentinamente tutto ciò che aveva edificato.
Cristian Mungiu, a quasi dieci anni dalla Palma d’oro ricevuta per 4 mesi, 3 settimane, 2 giorni, plasma un film ricco di tematiche sociali di stringente attualità. Non c’è spazio per la cura della fotografia, per preziosismi o virtuosismi; la pellicola è volutamente scarna sotto il punto di vista estetico, ma altamente introspettiva per quanto attiene alla caratterizzazione dei personaggi. Il ritmo cadenzato e limaccioso, a scapito del coinvolgimento emotivo, permette di osservare la vicenda in modo critico e distaccato.
La Romania dipinta dal regista non è così distante dal nostro Paese: la corruzione e l’emigrazione dilaganti sono fenomeni che imperversano anche in Italia. Ed è in virtù di questo contesto che il protagonista della storia matura la convinzione di approntare un futuro migliore alla figlia; lui che, tempo addietro, fu costretto a tornare in patria. Il disperato tentativo di Romeo, tuttavia, sembra essere più una ricerca egoistica di realizzazione personale attraverso la figlia, la quale – invece – è estremamente legata all’heimat. D’altronde, come ammonisce la madre del protagonista durante il film, se tutti partissero per cercare fortuna in un’altra nazione, chi resterebbe per provare a cambiare la situazione?
Consigliato a: chi ricerca un film che racconta una vicenda profondamente umana, tra corruzione, tradimenti, rapporti familiari farraginosi; ed a cui piace molto l’aspetto psicologico.
Sconsigliato a: chi piacciono i film che indugiano sulla fotografia o sulla colonna sonora; qui prevale il dramma della storia raccontata.
Scopri con un click il nostro voto:
data di pubblicazione: 28/08/2016
da Alessandro Rosi | Lug 15, 2016
(Casa del Jazz – Roma, 14 Luglio 2016)
Musicisti in erba suonano al chiaro di luna sul manto verde del parco di Villa Oslo. Tra i fili d’erba del giardino spunta un giglio del Nilo con i suoi inconfondibili petali bianchi: è la giovane Margherita Vicario con indosso una candida gonna larga a crinolina, la cui forma ricorda il fiore di origini africane; il nettare della sua voce è profuso sul pubblico presente mercé alcuni pezzi del suo repertorio, nonché con alcune cover di cantautori italiani, da Daniele Silvestri a Lucio Battisti. Le melodie della cantautrice e compositrice (ma anche attrice in diversi film, tra cui The Pills – Sempre meglio che lavorare) si fondono con il suono caldo e vibrante della chitarra di Gian Marco Ciampa, abbracciato al suo strumento come se fosse la sua compagna, carezzando in alcuni passaggi docilmente le corde, mentre in altri le afferra e scuote con vigore. Il formidabile chitarrista italiano – insignito, tra l’altro, del premio “Chitarra d’oro” come miglior giovane talento – brilla per virtuosismo ed eleganza sia quando accompagna le canzoni della Vicario, sia durante l’esibizione in solitaria con l’arrangiamento di una canzone di Francisco Tarrega; e per la sua straordinaria abilità ricorda il maestro spagnolo Andres Segovia: tant’è che mentre suona la chitarra sembra di sentire un’orchestra su sei corde. Non è tuttavia la sola orchestra presente sul palco, anche quella giovanile di Roma – che annovera tra i suoi 52 componenti una musicista giovanissima (di soli 10 anni!) ed è diretta da un esaltante Vincenzo di Benedetto – esegue diversi componimenti classici, come l’indimenticabile overture di Rossini de L’italiana in Algeri.
Ad arricchire la serata è l’ospite speciale Marco Zitelli (moniker: Wrongonyou), artista italiano eclettico che segue le orme tracciate dalle tonalità folk di Bon Iver. Durante lo spettacolo, attraverso il campionamento in loco della sua voce delicata, riproduce in loop i suoni creati realizzando una performance degna di nota, in special modo nell’esecuzione della cover di Mad World, il celebre brano composto da Gary Jules.
I diversi musicisti e i brani che si susseguono contribuiscono a offrire una serata piacevole, dove l’alternarsi di musica classica e leggera finisce per mescolarsi dando vita ad un’unica melodia. Un concerto allegro, vivace, spensierato, non solo per la giovane età dei partecipanti, ma anche per il modo in cui sono eseguite le canzoni. Un evento che merita di essere ripetuto, se non altro per vedere la crescita musicale di questi talentuosi ragazzi.
data di pubblicazione:15/07/2016
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