da Alessandro Rosi | Nov 28, 2016
(Teatro Argentina – Roma, 25 Novembre/18 Dicembre 2016)
“Da un emporio di abiti e stoffe, tre fratelli tessono un impero per tutte le stagioni; ma l’eco del crollo risuona dal futuro”.
Nel cielo dello spazio scenico un orologio disegna cerchi nell’aria, riavvolgendo il tempo e portandoci alle 7.25 dell’11 settembre 1844. Sul quarto molo del porto di New York sbarca l’ebreo aschenatiza Heyum Lehmann da Rimpar (modesto paese della Germania); nella fredda Baviera non lascia solo i parenti ma anche la sua identità: Henry Lehman è il nome con cui è registrato e che d’ora in avanti sarà costretto a utilizzare. Si trasferisce subito nel Sud Est degli Stati Uniti, a Montgomery (città dell’Alabama ricca di piantagioni di cotone) e lì apre un piccolo negozio dove vende tessuti. Lo raggiungono dalla Baviera anche i fratelli Emanuel e Mayer; insieme formano un trio che si combina alla perfezione, in cui ognuno contribuisce con la sua personalità differente: Henry è saggio e paziente, Emanuel è impulsivo e deciso, mentre Mayer media tra i due. Il ruolo di quest’ultimo all’interno della famiglia si rivelerà determinante negli affari, perché è proprio attraverso la capacità di mediare che i Lehman costruiranno la loro fortuna.
Dal commercio in stoffe alla compravendita di cotone grezzo, superando la Guerra di Secessione e l’avvento della ferrovia, i Lehman sapranno reinventarsi e superare le difficoltà. Se tuttavia il futuro sembra scintillante, la minaccia di un tracollo incombente invade prepotentemente gli incubi dei tre fratelli, un presagio del destino che attende la loro famiglia.
Nella sua ultima regia il compianto Ronconi ci lascia da equilibrista della messinscena: dosa sapientemente le parti narrate, recitate e cantate, realizzando un percorso narrativo lineare che corre lungo il fil rouge della deriva familiare:notomizza la crisi dei Lehman e la sviscera in tutti i suoi particolari, racconta di tre generazioni e delle loro degenerazioni.
Il lavoro certosino con Stefano Massini, scrittore del testo Qualcosa sui Lehman (tradotto in otto lingue e rappresentato in giro per l’Europa) su cui si basa l’opera, ha dato vita ad uno spettacolo in cui ogni elemento si combina con gli altri, come nel mosaico di insegne su cui si muovono i personaggi.
Lo spazio scenico è accuratamente assemblato da Marco Rossi: il piano inclinato del palco ricorda quello di una nave che affonda (come la deriva che aspetta la famiglia Lehman); l’orologio che ruota su sé stesso dà l’idea dell’eterno ritorno, e degli stessi sbagli in cui ricade l’uomo nella sua storia; infine, le evanescenti scritte ebraiche, disegnate dai protagonisti sulle quinte laterali, conferiscono alla rappresentazione un tocco magico e mistico.
Tra le eccellenti interpretazioni brilla Massimo Popolizio nella parte fratello minore Mayer, ma non di meno sono Massimo De Francovich nel ruolo di Henry – abile anche nella parte ballata –, Fabrizio Gifuni nell’interpretare Emanuel e Paolo Pierobon nelle vesti di Philip (il prodigioso figlio di Emanuel).
Uno spettacolo pluripremiato in cui si riflette divertendosi, attraverso un testo che racconta del continuo mutamento denaro: da frutto prezioso dei campi e del lavoro a prodromo di un’insaziabile sindrome dell’accumulo di ricchezza.
Mazeltov!
data di pubblicazione:28/11/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Nov 19, 2016
(Teatro San Genesio – Roma, 15/20 Novembre 2016)
Una concatenazione di bizzarri eventi, si trasforma in una burrascosa giornata dai risvolti divertenti.
In un tranquillo villino di Londra rivestito da lucenti mattoncini rossi, Tom e Linda sono in apprensione per l’incontro con l’assistente sociale, decisivo per l’adozione del loro primo figlio. Mentre Tom predica calma, Linda è in ansia e non riesce a trovare pace. A render ancor più tesa la situazione ci penseranno i fratelli di Tom: il perdigiorno Dick, capace solo di cimentarsi nel contrabbando di sigarette o di tentare buffi affari (come quello del vin agre: comprato credendo fosse vino pregiato per venderlo a prezzo raddoppiato!), e il modesto Harry, portantino in ospedale che cercherà – in modo molto particolare – di rendersi utile.
La situazione sfuggirà ben presto di mano a Tom, che, per coprire i guai innescati dai fratelli minori, si ritroverà invischiato in una serie di malintesi e menzogne. Incomprensioni che si aggroviglieranno fino a formare un’enorme matassa inestricabile, mettendo infine Tom con le spalle al muro. Ma quando tutto sembra andare per il verso sbagliato, un’inaspettata sorpresa farà esplodere di felicità la coppia.
A Emilia Miscio va il merito di aver portato in scena, per la prima volta in Italia, la recente opera di Ray e Michael Cooney. Il testo dei maestri inglesi lambisce temi attuali come l’immigrazione, l’adozione, il reality show, con una spensieratezza tale da controbilanciare i toni, spesso sprezzanti, usati nel quotidiano. Contribuisce a rendere sereno il clima l’atmosfera familiare che si respira in sala; un teatro dove ci si sente a proprio agio: spesso persone dal pubblico si pongono domande a voce alta o precedono le battute degli attori, oppure inneggiano e acclamano il loro beniamino.
Se la messinscena ha un ritmo allegro, frizzante e incalzante, la divisione in due atti – e l’eccessiva durata – velano la leggerezza e l’ironia raggiunta durante la rappresentazione.
Una commedia ridanciana, dove si cerca con il paradosso (anche se talvolta esasperato) di intrattenere il pubblico.
E se il colmo per un altoparlante è sentirsi male, con questo adattamento si rischia si star male per le risate!
data di pubblicazione:19/11/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Nov 10, 2016
(Teatro India – Roma, 9/20 Novembre 2016)
“Ho 28 battiti al minuto. Un’emozione per me è come un terremoto.”
Alex si allena tutto il giorno, mangia solo riso bianco e va sempre a letto alle 22. Per questo motivo non ha neanche il tempo (ne può) prendersi una birra con gli amici. Una vita costretto a sacrificarsi. Ma è realmente ciò che ama? È davvero ciò cui anela?
Roberto Scarpetti indaga nella mente di un campione travolto dallo scandalo. Si sofferma sulla fragilità della persona umana, sulle motivazioni dietro quel maledetto gesto. Nel raccontare la storia “inventata” di Schwazer, il regista si focalizza sugli eventi che inducono uno sportivo a ricorrere al doping; sceglie pertanto di restringere il campo, tralasciando le ultime vicende che hanno coinvolto la medaglia d’oro di Pechino (ovvero l’ultima squalifica del Tas di 8 anni dalle competizioni sportive per aver usato una sostanza proibita), peccato perché sarebbe stato interessante toccare anche tale aspetto del drammatico caso dell’atleta trentino.
Per raccontare questa intensa storia, si affida all’energico Giuseppe Sartori: ogni suo gesto è un fendente nell’aria, qualunque suo movimento riempie prepotentemente lo spazio, ma l’anima del suo personaggio rimane vuota, anodina. L’attore dimostra tutta la sua abilità nell’interpretare il ruolo attribuitogli, ancorché per le caratteristiche fisiche (Sartori è privo di capelli, al contrario di Schwazer) e per il modo di parlare (difficile ripetere la loquela di Schwazer, soprattutto l’inflessione tedesca) non rievoca limpidamente l’atleta di Vipiteno – impressione probabilmente dovuta alle continue immagini dell’ex campione riproposte in televisione e sui quotidiani.
Sullo sfondo di questo dramma sportivo, scorrono i filmati dell’infanzia, dei luoghi degli allenamenti, delle gare di Schwazer sopra al corpo dell’ atleta mentre marcia, attraverso la tecnica della doppia esposizione. Effetto che permette la fusione del movimento ondulatorio della camminata con le immagini dinamiche proiettate, in una danza intima e suggestiva.
Se le immagini proiettate catturano l’attenzione del pubblico, non si può dire lo stesso dei suoni e luci circostanti: il tintinnio lento e continuo della pioggia che batte sulle grondaie (il quale può essere anche rilassante e piacevole in altre circostanze, ma non durante uno spettacolo teatrale) e il bagliore accecante delle luci bianche laterali (usate per avvertire della presenza degli scalini) non ci permettono di “lasciarci andare, di sentirci liberi” di poter godere pienamente dello spettacolo. E di seguire idealmente lo sportivo sulla cresta delle montagne, in uno spazio paradisiaco, tra cielo e terra.
data di pubblicazione:10/11/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Nov 6, 2016
(Via XX Settembre, 13 – Roma, 05/09/2016)
Una visita nel cuore del reparto dei corazzieri, scoprendo, sotto le armature luccicanti, un mondo ricco di particolari sorprendenti.
La brezza mattutina sui fori imperiali viene deviata da un’invisibile aura baldanzosa, che ti protegge come uno scudo il corpo rinvigorito.
L’energia positiva delle persone assiepate sui marciapiedi si trasfonde fino alle profondità del tuo animo, rendendo l’incedere maestoso e solenne.
Le onde sonore delle grida incitanti travolgono la sabbia cutanea che ti avvolge le membra, propagandosi nella forma di un brivido caloroso, che rinfranca lo spirito e infonde sicumera.
Frazioni di vita in cui ti senti acclamato come un gladiatore che entra nell’arena, come un imperatore romano portato in trionfo dopo una campagna vittoriosa.
È questa la sensazione provata dall’ex maresciallo di palazzo, quando sfilava come corazziere al fianco del Presidente della Repubblica durante le cerimonie ufficiali; un’emozione indescrivibile, un ricordo che non riesce a trasmettere con le parole.
La visita guidata alla caserma dei corazzieri permette di conoscere da vicino il prestigioso corpo speciale dei Carabinieri e di partecipare, anche se solo per il tempo di un giro di lancette, alla vita dei 240 cavalieri che la popolano.
Trascinati dall’appassionante spiegazione del tenente colonnello Buti, impreziosita dagli aneddoti raccontati dagli altri ufficiali incontrati lungo il percorso, attraversiamo i diversi ambienti di questo luogo perfettamente autosufficiente. Dall’ampia stalla dei cavalli – dove diamo da mangiare alle imponenti creature – all’accogliente refettorio sotterraneo – in cui scopriamo un capolavoro architettonico di epoca romana appartenente alla dinastia dei Flavi –, passando infine per il lungo corridoio centrale dell’edificio – ove sono esposti i simboli appartenenti alla storia di questo corpo.
Far parte di questo gruppo è indubbiamente un onore, ma richiede anche molto sacrificio e requisiti particolari (come l’altezza). Un metro e novantacinque centimetri che consentono di incutere rispetto e proteggere il capo dello Stato in tutte le visite ufficiali, conferendo lustro al nostro paese.
Fortemente voluti da Einaudi, che ne scongiurò l’abolizione, il reggimento dei corazzieri si distingue per la vigoria, la forza, il valore, l’eleganza e la potenza. E hanno dimostrato il loro coraggio non appena se n’è presentata l’occasione, in ossequio al motto che si staglia sulla parete dell’ingresso: VIRTUS IN PERICULIS FIRMIOR.
data di pubblicazione:06/11/2016
da Alessandro Rosi | Nov 4, 2016
(Sala Umberto – Roma, 1/6 Novembre 2016)
A lezione da Federico Buffa: affabula le olimpiadi del 1936 e le rende una storia indimenticabile.
L’incredibile amicizia che legava l’ariano Lutz al record man nero Jesse Owens e il retroscena riguardo alla medaglia d’oro nel salto in lungo; la marcia estenuante del coreano Sohn Kee-chung per il riscatto del proprio popolo dominato dai giapponesi; i retroscena dietro le affascinanti sequenze del film di Leni Riefensthal, la regista tedesca che girò una pellicola capolavoro sulle olimpiadi del 1936: sono solo alcune delle storie che verranno descritte dal miglior story teller italiano in circolazione.
Aneddoti e racconti che s’intrecciano come fili di lana di uno splendido arazzo, e che tessono un discorso indubbiamente charmant.
All’apertura del sipario, entriamo nel locale che frequentava abitualmente Wolgang Fürstner (comandante del villaggio olimpico): qualche tavolino rotondo di epoca liberty in ferro battuto, un appendiabiti, un pianoforte, e l’immancabile bottiglia di liquore. In questo ambiente dal sapore d’antan, ripercorreremo le fasi salienti e le curiosità latenti di quelle storiche olimpiadi.
La narrazione è inframezzata e accompagnata dallo splendido suono emesso dal pianoforte di Alessandro Nidi – che scandisce il ritmo del racconto –, dalle note della fisarmonica di Nadio Marenco – che nel movimento ondulatorio del mantice ci trasporta come le onde del mare –, e dalla voce di Cecilia Gragnani – che dimostra il suo talento cimentandosi in canzoni in diverse lingue (anche se il pezzo di De Gregori è rivedibile) – e, ahimè, anche del suono metallico del microfono usato da Federico Buffa durante il racconto.
Uno spettacolo interessante, sia per la forma sia per i contenuti, sebbene non si possa dire breve, e le continue digressione portano talvolta a perdere l’attenzione. Un’opera è completa non quando non si ha più nulla da aggiungere, bensì nel momento in cui non si ha più nulla da togliere.
data di pubblicazione: 4/11/2016
Il nostro voto:
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