da Alessandro Rosi | Gen 15, 2017
(Teatro Belli – Roma, 10/22 gennaio 2017)
“Un bando europeo da assegnare. Una regista teatrale da aiutare. Un’improvvida soluzione tutta da gustare.”
Silenzioso tramestio. Rumoroso vociare. Un gesto invita a far presto. Lo spettacolo deve iniziare.
Arriva trafelato, facendosi largo tra il pubblico, il terzo componente della Banda dell’Uku. Ma non sono loro a dover andare in scena; sono lì perché il barista del Teatro gli ha concesso uno stretto angolo di tempo per poter provare.
Accade però un imprevisto: il protagonista dello spettacolo non può recitare, a causa di un volo cancellato. E allora il verace barista prende in mano la situazione e si propone alla regista come sostituto, unendo alla sua prestazione quella della banda.
Ne nasce uno spettacolo spiritoso e leggero, dove si è intrattenuti dalle battute dell’energico Fabio Avaro e dalle canzoni pizzicanti del trio, che si cimentano, tra l’altro, in una riuscita rivisitazione del celeberrimo sketch di Monty Python: la partita di filosofia.
Il testo di Vanina Marini ha diversi punti deboli, suturati faticosamente dalle scene comiche. La prima parte, in cui il barista tenta di convincere la regista, non procede con speditezza; meglio invece la seconda, dove si entra nel cuore dello spettacolo.
L’interpretazione di Fabio Avaro è interamente in dialetto romano: per chi ama il genere, senza ombra di dubbio apprezzerà il suo vigoroso personaggio. Opaca, al contrario, la prova di Vanina Marini, impegnata in un ruolo non agevole.
Cala il purpureo sipario. Le luci si spengono. Lo spettacolo si è concluso. “Ma si riparte sempre”.
data di pubblicazione:15/01/2017
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Gen 12, 2017
(Teatro Quirino – Roma, 10/29 Gennaio 2017)
“Il riscatto di una donna che non conosce la legge, ma sa cos’è la giustizia”
Non si dà pace Domenico Soriano – ricco dolciere napoletano –, mercé un’astuta gherminella, Filumena (la cocotte con cui conviveva da venticinque anni) l’ha indotto a sposarla in fin di vita, in modo da evitare che Don (giovanni) Domenico l’abbandonasse per contrarre matrimonio con una donna più giovane.
Il piano architettato da Filumena non è tuttavia volto a estorcere denaro al marito, bensì a garantire un futuro ai suoi tre figli oramai adulti. Appresa la notizia della copiosa prole, Domenico reagirà furiosamente, ma resterà pietrificato dalla sorpresa che lei gli ha riservato: uno dei tre figli è suo. La rivelazione permetterà all’imprenditore di maturare quel senso di paternità che non l’aveva mai lambito, però sarà divorato al contempo dal dubbio di quale dei tre sia il suo discendente naturale. Ed è proprio senza svelare a Domenico la verità che Filumena riuscirà a proteggere ognuno dei suoi figli: ” ‘E figlie so’ figlie e so’ tutt’eguale!”.
La commedia di De Filippo, scritta nel 1946 e forgiata sulla base di una storia vera, pone in risalto i valori cristiani della maternità e della famiglia, in contrasto con il denunciato sfruttamento delle classi borghesi, e si inserisce proprio in quegli anni di scontro tra forze cattoliche (Democrazia Cristiana) e di sinistra. La versione proposta da Liliana Cavani è senza stravolgimenti e fedele all’originale; alleggerita in alcuni punti (togliendo opportunamente la figura della sarta) e rappresentata in dialetto napoletano.
Gli attori si muovono con disinvoltura sul pavimento a scacchiera presente sul palco, sulle linee invisibili tracciate con arte sapienziale dalla regista emiliana – alla sua prima esperienza nella direzione di uno spettacolo teatrale.
La compiutezza dell’opera si nota anche dall’accuratezza della messinscena realizzata da Raimonda Gaetani, e segnatamente: nella selezione dell’arredamento “stile 900”, come descritto da De Filippo nel testo; nell’abbinamento dei colori dei costumi con quelli degli elementi scenici; nella scelta del quadro con due destrieri (bianco e nero) appeso alla parete della sala da pranzo, che simboleggia la passione di Soriano per le corse ma anche l’unione degli opposti (Domenico e Filumena). Scelte non casuali, che sottolineano la cura per il dettaglio, la ricercatezza e l’eleganza dell’allestimento.
Seppur un principio incerto – l’uso iniziale del dialetto napoletano stretto (talvolta di faticosa comprensione) e il taglio di alcuni dialoghi, che non consentono un’immediata contestualizzazione della vicenda – la narrazione procede speditamente, arricchita dalle battute degli attori, con cui si ride di gusto. Se da un lato risulta apprezzata l’evidenziazione dei momenti più divertenti, parimenti appare eccessiva l’esasperazione di alcune scene – in particolare quella finale –, che nonostante permetta a Mariangela D’Abbraccio di esibirsi in tutta la sua bravura, sembra sproporzionata rispetto al resto dell’opera.
Quanto alla straordinaria interpretazione di quest’ultima, la sua figura rievoca l’inimitabile Titina De Filippo (per cui in origine era stata scritta l’opera dal fratello Eduardo), la sua chioma corvina e i suoi occhi morati rifulgono sul suo incarnato madreperlaceo, ogni suo gesto è una scarica di emozioni che percorre tutto il corpo, le sue parole vibrano nell’aria come fendenti di sciabola che si scagliano contro il marito; il quale è reso magistralmente da un affascinante Geppy Gleijeses, che dona al suo personaggio quel tocco in più di spavalderia che non guasta. Alla stessa stregua delle due precedenti, si pongono le prove attoriali di Mimmo Mignemi (Alfredo Amoroso: collaboratore di Domenico Soriano) e Nunzia Schiano (Rosalia Solimene: domestica e confidente di Filumena); e non da meno sono gli altri attori che si avvicendano sul palco, per una compagnia brillante e in perfetta sintonia. Applausi a scena aperta da parte di un pubblico pieno d’autorità, tra cui spicca il presidente della Repubblica: Sergio Mattarella.
Una commedia che, nonostante abbia più di settant’anni, rimane tuttora attuale. Il riconoscimento della tutela per i figli illegittimi, oltre alla possibilità di ricorre alla prova del DNA per conoscere la paternità, non toglie forza alla lotta di una donna di strada per far valere un diritto che la legge non le riconosce: quello di crescere dignitosamente i propri figli. E quale altra donna, se non Filumena (dal greco philos “amico” e menos “forza”: amica della forza) può portare avanti una battaglia del genere; lei che non ha mai pianto in vita sua, perché: “Sai quando si piange? Quando si conosce il bene e non si può avere. Ma Filumena Marturano il bene non lo conosce; quando si conosce solo il male, non si piange”.
data di pubblicazione 12/01/2017
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Gen 7, 2017
(Teatro dei Conciatori – Roma, 6/15 Gennaio 2016)
Uno stupefacente carteggio tra un’apparentemente inconsapevole donna di corte e il suo arguto maggiordomo
“Il sentimento che nutro nei vostri confronti è duro come la roccia, ma la carne è friabile come l’argilla”
Con queste parole la duchessa Dorothy Wellington verga d’inchiostro una delle lettere spedite al marito George, partito per la Cina quattro anni prima (1856) e non ancora tornato dall’Oriente, dove sta combattendo per il Regno Unito nelle cosiddette guerre dell’oppio.
Il messaggio non verrà tuttavia mai letto dal destinatario, atteso che il consorte è deceduto in battaglia. E neppure la notizia della sua morte giungerà alla moglie, giacché Thomas (il maggiordomo di famiglia), per timore di perdere l’incarico a seguito della dipartita del duca, ha sagacemente distrutto la comunicazione del decesso. Per illudere la duchessa che il marito sia ancora vivo, Thomas inizierà a scrivere di suo pugno lettere alla nobildonna; e nonostante qualche esitazione iniziale – il maestro di palazzo, invero, non sa nemmeno leggere molto bene –, si rivelerà abile nel fascinare la signora con le sue parole, ancorché finirà per rimanere stregato lui stesso dal carteggio intrattenuto con Mrs. Wellington.
Lo spettacolo scritto da Antonio Pisu (che interpreta anche la parte del maggiordomo) è allegro e leggero. La sua figura si completa alla perfezione con quella di Tiziana Foschi: lei con il suo volto espressivo – che riesce ad atteggiare a suo piacimento, quasi fosse una maschera d’argilla –, mentre gli sguardi sono meno penetranti; lei con le linee del viso più nette, dure e decise, al contrario di lui con i lineamenti più dolci, tondi e aggraziati; lei con la sua voce stentorea e decisa, lui invece con un timbro più basso e sommesso. Caratteristiche che uniscono gli attori in un rapporto simbiotico, e che suscitano in particolare la curiosità di vedere Antonio Pisu cimentarsi anche in altri ruoli.
I due si muovono abilmente nello spazio scenico realizzato da Tiziana Massaro, reso efficacemente attraverso l’utilizzo di libri simboleggianti la mobilia dell’abitazione, che vengono spostati, fatti cadere, accatastati modellando l’ambiente a seconda della situazione; per le porte sono invece stati utilizzati dei praticabili e sono gli attori a simulare l’apertura e la chiusura delle porte attraverso la loro voce (“clack e clock”).
La rappresentazione risulta vivace e movimentata, sebbene la sua durata eccessiva rischi di minare l’attenzione degli spettatori: l’arte è sottrazione.
“Clack e clock”.
data di pubblicazione:07/01/2017
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Gen 6, 2017
(Teatro Argentina – Roma, 5/8 Gennaio 2017)
“Quartetto d’archi per un esilarante sconcerto di musica classica in tempo allegro spiritoso”
Non appena varcato l’ingresso del teatro, sin da subito notiamo un particolare originale: sul palco, oltre al consueto sipario di scena, ve n’è un altro dietro a coprire le quinte. Mentre ci lambicchiamo la mente per indovinare quale artifizio scenico sarà messo in atto, l’incantevole suono di un violino ci sorprende alle spalle, ci carezza l’orecchio e le gote, per poi proseguire sul palco, dove sarà raggiunto dagli altri tre componenti del quartetto d’archi.
Una volta riunita, l’ensemble inizia lo spettacolo con l’esecuzione della Carmen di Pablo Sarasate, componimento romantico dal ritmo spezzettato, alternato. E proprio la melodia del compositore spagnolo permette ai diversi violinisti di esibirsi in un simpatico dialogo, come se ognuno di loro parlasse attraverso lo strumento impugnato, lanciando note (e occhiate di sfida) nei confronti dell’altro. Il significato di PaGAGnini è quindi presto detto: una serie innumerevole di sketch che prendono spunto dalla musica classica.
Un’esibizione musicale che prevede un coinvolgimento costante del pubblico: invitato, prima, a battere con le mani il tempo per accompagnare i brani e, poi, a salire sul palco attraverso due volontari, per poter suonare il Capriccio di Paganini con strumenti del tutto stravaganti. Ma il programma non è incentrato solo sulla musica classica, bensì presenta deviazioni di musica pop (La Javanaise di Serge Gainsbourg) e rock (With or without you degli U2), realizzate sempre in chiave ironica e coinvolgente.
La collaborazione tra Yllana, collettivo artistico da cui sono stati scelti i musicisti, e Ara Malikian, ideatore dello spettacolo nonché brillante violinista libanese, consente la messinscena di un concerto eccitante e curato nei particolari. L’uso oculato e attento delle luci, il fumo sul palcoscenico (che conferisce un tocco di eleganza alla rappresentazione), i perfetti tempi scenici – scanditi attentamente da David Ottone e Juan Francisco Ramos – plasmano una rappresentazione ibrida, un misto tra teatro e concerto.
Ancorché qualche stonatura, alcune corde rotte e l’uso dell’amplificatore per diffondere il suono, potrebbero far storcere il naso al melomane più pedante, lo spettacolo si apprezza per la sua carica innovativa e divertente. D’altronde, l’euforia portata sul palco da Eduardo Ortega è contagiosa, alla stregua della falsa irriverenza mostrata Thomas Potiron, che strappa diversi sorrisi; simpatica altresì l’interpretazione di Fernando Clemente, un buffo Charlie Chaplin dai modi di Gainsbourg, e dirompente l’energia messa sul palco da Jorge Fournadjiev (violoncello).
Un’ora e un quarto di allegria; un toubrillion di risate che dimostra come si può sorridere anche con la musica classica
data di pubblicazione:06/01/2017
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Dic 22, 2016
(Teatro Vascello – Roma, 19 Dicembre 2016)
“Reading letterario accompagnato da musica dal vivo, in cui le parole si fondono con le note musicali in un vorticoso abbraccio, generando un turbinio di emozioni.”
Il profilo sottile, lungo e dentato del clarinetto e quello invece più rotondo e curvo della fisarmonica si stagliano sul palcoscenico, illuminati da una luce bianca e fredda; ma l’atmosfera invernale sarà subito riscaldata dal suono soave emesso dai due strumenti. Con passo lento e cadenzato, fa ingresso sulla scena anche Roberto Herlitzka, che attraverso il suo timbro vocale inconfondibile ci trasporterà nel mondo kafkiano.
Un racconto di racconti che tocca temi quali la famiglia, la solitudine, il rapporto con il padre e la morte. Un distillato di pregevole fattura, con l’aggiunta di qualche goccia di ironia; l’interpretazione del testo resa da Herlitzka conferisce alle parole una nuova dimensione, materializzando cavalieri, dame, pellerossa e imperatori.
A conclusione della declamazione trovano posto gli aforismi di Zürau, minuscolo villaggio della campagna boema, immerso in un paesaggio ondulato fra macchie di boschi e prati, dove Kafka soggiornò dopo le prime manifestazioni di tubercolosi. Il malato tuttavia non nascose un certo senso di sollievo nel versare in questa condizione: la malattia era l’amante definitiva, che permetteva di chiudere i conti precedenti (come l’idea del matrimonio che lo torturava da anni). Il risultato di questa sua permanenza – come scrive Roberto Calasso – è un diamante purissimo, annidato nei vasti giacimenti carboniferi presenti in Kakfa.
Non è la prima volta che il Teatro Vascello ospita delle letture; e sempre con discreto successo, visto il largo seguito di pubblico, sia giovane che adulto. A differenza dell’ultimo spettacolo di questo genere, con uno strabiliante Massimo Popolizio, in “Serata Kafka” il rapporto tra la parte recitata e quella musicale risulta squilibrato, e le canzoni vengono relegate in uno spazio marginale. Occorre nondimeno osservare che i testi di Kafka, per loro stessa natura, difficilmente riescono a coniugarsi con la musica.
Ottime le prove di Alessandro Di Carlo, al clarinetto, e Adriano Di Carlo, alla fisarmonica, quest’ultimo avvinto al suo strumento come un amante alla sua amata. Sublime la recitazione del granitico Roberto Herlitzka, che sembra essere in grado di fermare il tempo e di aver raggiunto il nirvana. D’altra parte, come scriveva Kafka in uno dei suoi aforismi, “In teoria vi è una perfetta possibilità di felicità: credere all’indistruttibile in noi e non aspirare a raggiungerlo.”
data di pubblicazione:21/12/2016
Il nostro voto:
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