IL SEGRETO DI CHET BAKER con Massimo Popolizio e Javier Girotto

IL SEGRETO DI CHET BAKER con Massimo Popolizio e Javier Girotto

(Teatro Vascello – Roma, 28 Dicembre 2015)

Un Vascello pieno all’inverosimile prende il largo sulle onde sonore della musica di Chet Baker. Guidati dalla voce di Massimo Popolizio si procede alla scoperta del musicista maledetto, in un reading letterario in cui parole e note musicali si fondono in un unico suono avvolgente e ondeggiante.

La rotta è quella tracciata dal testo di Roberto Cotroneo con il suo libro E nemmeno un rimpianto – Il segreto di Chet Baker. La storia ha inizio nell’appartamento di uno scrittore, il quale ritrova un foglio con lo spartito della canzone più popolare del trombettista, “My funny valentine”, in una chiave che non aveva mai sentito. Parlando di quanto accaduto con la sua amica Natalie, è avvisato da quest’ultima che Chet Baker è ancora vivo e che il corpo inerme trovato ai piedi Prins Hendrik Hotel ad Amsterdam non è il suo.

Lo scrittore, pertanto, va alla ricerca del musicista, scovandolo fortuitamente in un paesino del Salento.

L’incontro darà modo ai due di ripercorrere la vita del jazzista: la sua dipendenza dall’eroina, che lo costrinse a impegnare i suoi strumenti per acquistare gli stupefacenti e, di conseguenza, l’allontanò per un periodo dalla scena musicale; la rivalità con Miles Davis, “mentre la musica del trombettista di Alton conduce negli abissi, la sua è un modo per risalire dalle tenebre”; i problemi esistenziali, “lui e il mondo erano come vasi comunicanti: più si dannava, più il mondo si purificava”.

Sconvolto dall’incontro, lo scrittore è oppresso dalla consapevolezza della caducità della vita, ma Natalie lo ammonisce “la vita è più lunga di quello che si crede”. Rinfrancato dalla frase, torna a casa del musicista ma la trova vuota; il cantante malinconico è scomparso di nuovo.

Ma Chet Baker è ancora vivo — come scriveva Orazio nelle sue Odi “Non omnis moriar” —, la sua musica ancora risuona nelle nostre orecchie e, senza rimpianti, anneghiamo nel blues del mare di note sgorganti dalla scintillante tromba di Javier Girotto.

data di pubblicazione 30/12/2015


Il nostro voto:

MOEL di Marco Andreoli

MOEL di Marco Andreoli

(Brancaccino, Roma – Dal 17 al 20 Dicembre 2015)

Quattro marcatori di prova poggiati sul palco indicano gli appartamenti abitati da altrettanti personaggi: Miriam, una ragazza proveniente dallo Stato di Oklahoma; Esh, un ameno chiromante di origini indiane; Osip, un russo che porta con sé una sospetta borsa nera; e Laura, una ragazza avvolta in una nube di mestizia.
La prima parte dello spettacolo si focalizza sulla figura del russo. Un sibilo proveniente dalla sua abitazione genera diverse reazioni nei vicini: la ragazza americana ritiene che quel rumore sia prodotto dalle operazioni per assemblare un fucile; il sensitivo crede, al contrario, che il  suono acuto e prolungato sia dovuto alla riparazione del tubo del lavandino; Laura invece non percepisce nulla perché si trova in uno stato di dormiveglia. In seguito a questo evento, nel condominio prende corpo l’idea che Osip sia un killer spietato (soprattutto mercé le congetture di Miriam), ma il russo svelerà che il rumore derivava dall’avvitamento di una moka con la filettatura arrugginita. È la prima avvisaglia che la “stratificazione delle illazioni” genera infondati sospetti.
Lo spettacolo prosegue con una serie di telefonate tra i vari personaggi: Miriam, tampinata dai creditori, chiede un prestito all’affabile Esh; mentre Laura riceve da Osip strane coordinate, rendendo la sua figura sempre più misteriosa. A quel punto, il russo, l’americana e il chiaroveggente vengono chiamati d’emblée in commissariato per rendere informazioni su Laura, che si scoprirà essere una crudele terrorista. Nella casa di Osip verrà rinvenuto un fucile, ma l’architetto di questo disegno malefico riuscirà a scamparla, dichiarando di possedere il porto d’armi e che utilizza il fucile in vista delle gare olimpioniche che si appresta a disputare quale atleta di tiro a volo.
Inaspettato è anche il comportamento del chiaroveggente, il quale si rivelerà essere uno spietato aguzzino che non lascia scampo all’americana per le somme che gli deve.
Lo spettacolo procede in modo caotico attraverso analessi e prolessi, in un intreccio inestricabile delle vicende che rende faticoso seguire il filo della trama.
La scenografia è scarna e gli elementi non sono ben coordinati tra loro: sembra di essere sulla scena di un crimine, ma non ci sarà nessuno omicidio; inoltre, in una scena della rappresentazione viene stesa una tovaglia sul palco — per dare l’idea di un tavolo — e vengono posti sopra bicchieri e portavasi, ma invece che sedersi fuori dalla tovaglia gli attori si accovacciano sulla stessa, ingenerando il dubbio che si tratti di un pic-nic.
Le numerose congetture, e lo scarto tra realtà e apparenza, sono le costanti di questa pièce. Il messaggio che trapela è che spesso dipingiamo le altre persone in modo errato, per questo è bene ricordarsi del monito di Virgilio “nimium ne crede colori”: non fidarsi delle apparenze.
Inatteso è anche il risultato di questo progetto teatrale: ad onta di un’invitante presentazione, la rappresentazione è convulsa e scialba.
La durata di Moel è breve, come il tempo degli applausi che si diradano velocemente.

data di pubblicazione 19/12/2015


Il nostro voto:

 

ANELANTE di Flavia Mastrella e Antonio Rezza

ANELANTE di Flavia Mastrella e Antonio Rezza

(Teatro Vascello – Roma, 9 dicembre 2015/17 gennaio 2016)
Il pavimento del Teatro Vascello sotto i nostri piedi trema, le poltrone sono scosse violentemente, un vociare roboante si fa via via sempre più consistente.
Niente paura non è un terremoto, ma l’uragano Rezza che si appresta a esibirsi: una vera e propria forza della natura, travolgente e sconvolgente.
Sul palcoscenico vi è un intreccio di linee verticali e orizzontali — rosse (come l’energia che l’attore trasfonde nel pubblico), bianche e nere — che somigliano a un “monitor virtuale”, su cui va in onda la sua ultima rappresentazione teatrale Anelante, frutto della proficua collaborazione con la regista Flavia Mastrella: sodalizio collaudato per un divertimento assicurato.
L’attore di origine piemontese (anche se laziale d’adozione) esalerà — accezione poetica del termine anelare (halare «soffiare») — senza mai prender fiato le sue idee variopinte, provocando nello spettatore un turbinio di emozioni contrapposte.
Lo spettacolo è un susseguirsi di scene comiche nonsense, il cui leitmotiv è l’intricato mondo della psicologia umana. S’inizia con un matematico strampalato che traccia sul palco formule poco ortodosse. Stesse formule su cui s’interrogheranno i grandi della terra (g 20, g 8), che sbucano fuori dagli elementi della scenografia in modo goffo, senza riuscire a incontrarsi. Allora la compagnia di Rezza s’imbarcherà su un aereo, al bordo del quale incontrerà un sacerdote, timorato di Dio ma pronto a vendersi alla dea bendata, e un pilota, martoriato dalle teorie freudiane della libido, che proromperà in un’esclamazione catartica ed esilarante: “se a Freud piaceva suo padre, sua madre e suo nonno, perché doveva convincere anche noi?! Non se lo poteva tenere per sé!”.
Il viaggio aereo non andrà a buon fine e la stramba compagnia precipiterà in una scena orgiastica, in cui gli attori mostreranno i loro glutei (che Rezza vergherà!) e daranno sfogo a tutti gli impulsi sessuali: atti di copulazione, autoerotismo, sodomia, necrofilia — esagerando ogni gesto, tanto da suscitare il riso.
Esasperazione che raggiunge il culmine nel momento in cui il protagonista dello show dà spazio alla sua logorrea: “dissenteria della bocca in avaria, scarico intestinale dalla parte meno congeniale”. Come un vulcano in eruzione, erompe in pensieri sconnessi su temi diversi (lettura, conversazioni, insonnia) — tant’è che sembra quasi di assistere a una seduta di auto psicanalisi — e infine s’immerge, vestito da palombaro, nelle profondità più oscure e recondite del rapporto con i genitori, trattando il tema rigorosamente in chiave ironica.
Al termine dello spettacolo si è consapevoli di aver assistito a un’espressione di lucida follia: congerie di assurdità che generano ilarità. E nell’uscire dal teatro non siamo soli, come ci ammonisce beffardamente l’attore da dietro le quinte, ma ci fa compagnia lo strepito delle risate che risuona ancora nelle nostre orecchie, nonostante lo spettacolo sconquassante sia concluso.

data di pubblicazione 12/12/2015


Il nostro voto:

IF ONLY I WERE THAT WARRIOR

IF ONLY I WERE THAT WARRIOR

(Casa della Memoria – Roma, 11 Dicembre)
Con l’occhio dello storico ma la mano ferma e intraprendente del regista, il giovane regista romano scrive con la luce sulla pellicola cinematografica uno spaccato della storia dell’Italia: il periodo colonialista in Etiopia, che ha ancora effetti sul nostro suolo (v. Mausoleo dedicato al generale Graziani, tristemente noto per l’impiego di gas in terra africana).
L’approccio imparziale, che dà spazio a tutte le voci, rende il documentario convincente e avvalora il messaggio che vuole trasmettere: respice et prospice, non dimentichiamoci del passato per non commettere gli stessi errori in futuro.

data di pubblicazione 12/12/2015

ALBANIA CASA MIA scritto e interpretato da Aleksandros Memetaj, diretto da Giampiero Rappa

ALBANIA CASA MIA scritto e interpretato da Aleksandros Memetaj, diretto da Giampiero Rappa

(Teatro Argot – Roma, 1/13 Dicembre 2015)
Una sagoma bianca frastagliata, raffigurante i confini dell’Albania, segna una pedana nera che occupa il palco del Teatro Argot — come quelle dei corpi inermi tracciate con il gesso sull’asfalto a seguito degli incidenti stradali — e circonda la figura di Aleksandros Memetaj, delimitando lo spazio in cui si esibirà.
La ferita mortale è stata inferta all’animo dell’attore dall’insulto che titola lo spettacolo: Albania casa mia. L’ingiuria sta presumibilmente a indicare che i padroni del territorio albanese e dei loro abitanti sono gli italiani, e che gli stessi possono disporne come se fossero una loro proprietà. La frase è espressione di una xenofobia ipocrita e dimentica del massiccio fenomeno emigratorio che coinvolse i nostri compatrioti, i quali (soprattutto nel XIX secolo) cercarono fortuna altrove perché nel Belpaese “non si riusciva neanche a vivere del proprio lavoro” (come disse un emigrante in partenza ad un ministro italiano).
Gli stessi motivi hanno spinto migliaia di albanesi (27.000) a fuggire dalla propria terra natia nel 1991, atteso che la dittatura comunista — centellinando ogni bene — aveva impoverito il paese, stracciando ogni possibilità di futuro. Opportunità di cui sono in cerca i genitori dell’attore in Italia, per garantire al figlio quella possibilità che a loro è stata negata.
Il talentuoso attore albanese racconta con questo spettacolo la sua storia, dal viaggio per approdare al porto di Brindisi alle innumerevoli angherie subite durante la sua crescita, smorzando con momenti d’ironia una narrazione che potrebbe apparire difficile da digerire.
La sceneggiatura di ottima fattura, impreziosita da metafore che consentono allo spettatore di viaggiare insieme all’attore mentre ripercorre i tratti salienti della sua vita, permette di assistere a uno spettacolo che scivola via scorrevole — ancorché la numerosa presenza delle figure retoriche rischi talvolta di far apparire la recitazione più una lettura di un libro che una vera e propria performance attoriale.

data di pubblicazione 05/12/2015


Il nostro voto: