da Alessandro Rosi | Feb 7, 2016
(Teatro dei Conciatori – Roma, 2/7 febbraio 2016)
Nella cornice del Teatro dei Conciatori, la tela che fa da sfondo al palcoscenico si anima: al chiaro di luna, sulle note della canzone di Debussy, un’ombra scura si staglia sullo sfondo e si muove dando vita a immagini mostruose. Da questa atmosfera orfica, fa il suo ingresso sulla scena l’attrice Monica Menchi, avvolta da una veste bianca ma con un viso cupo – contrapposizione tra bianco e nero che agisce come presagio degli accesi contrasti cui si assisterà nel corso della rappresentazione.
La candida figura è Rebecca, una bambina nata orba (ancorché il trucco somigli più a una benda oculare che a una malformazione), che, per il suo aspetto sgradevole, sarà emarginata dalla società. Prima ancora che la comunità, saranno i genitori — interpretati dalla stessa attrice (unica sul palco), che dimostra una versatilità straordinaria — a non riuscire ad accettare la natura della loro figlia e, pertanto, la costringeranno a vivere reclusa in casa (come accadde alla poetessa Emily Dickens: solo che nel caso della scrittrice inglese la reclusione non è forzata, bensì voluta). L’inadeguatezza della fanciulla alla vita cela, in realtà, una profonda e radicata incapacità dei genitori: il padre, appena può, scappa dai suoi doveri e si dedica unicamente al lavoro; mentre la madre, affetta da depressione, non riesce a condividere le sue emozioni con i suoi familiari, e ciò la porta a racchiudere i suoi pensieri in un diario segreto. Sopperisce all’assenza dei genitori la zia, che scoprirà il talento innato di Rebecca: la piccola si dimostrerà essere un prodigio del pianoforte. Ciò nondimeno, tale sua capacità non le permetterà di evitare di essere oggetto di scherno da parte dei compagni di scuola per la maschera spaventosa che la natura le ha incollato sul volto; tant’è che, in un momento di disperazione, arriverà a esprimere il desiderio di “evaporare come la nebbia sul fiume”.
Fiume che si porterà via la madre: incapace di sopportare la vita, si getterà nell’acqua per annegare i suoi dolori e farsi trascinare via dalla corrente – come accade all’Ofelia shakespeariana. Moto dell’acqua che scandisce altresì i tempi della messinscena: a volte impetuosa (nei momenti delle sofferenze subite da Rebecca), a volte calma e placida (quando alla protagonista è permesso esprimersi con la musica del pianoforte).
La vita per Rebecca, nonostante tutte le esperienze negative che ha dovuto patire, continua; e lo scorrere del tempo le permetterà di far emergere (e vedersi riconosciuto) il suo talento musicale: un riscatto finale della bellezza interiore sulla ripugnanza esteriore.
Non conosciamo mai la nostra altezza
Non conosciamo mai la nostra altezza
finché non siamo chiamati ad alzarci.
E se siamo fedeli al nostro compito
arriva al cielo la nostra statura.
L’eroismo che allora recitiamo
sarebbe quotidiano, se noi stessi
non c’incurvassimo di cubiti
per la paura di essere dei re.
Emily Dickinson
data di pubblicazione:07/02/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Gen 30, 2016
Biglietto alla mano ci dirigiamo verso l’ingresso. La sala è stretta e lunga, ciascuna fila ha pochi posti: sembra di essere sul vagone di un treno.
Ognuno occupa il proprio sedile. Lo scampanellio assordante e continuo indica che il viaggio ha inizio, siamo sul rapido 904. Poco dopo entrati nell’imbocco settentrionale della Grande galleria dell’Appennino (Emilia-Romagna), una deflagrazione squarcia un vagone del treno. Sono attimi terribili. È tutto buio. Sentiamo i passi delle persone che vagano senza meta. Non si vede più nulla. Alcuni non riescono ad aprire gli occhi, il calore ha incollato le loro palpebre. Dopo l’orrore cui abbiamo assistito, non vorremmo vedere più neanche noi, preferiremmo restare ciechi.
La notte del 23 dicembre 1984 ci furono 17 morti e 267 feriti – ma nessun responsabile.
Dopo trent’anni, da recenti indagini è emerso che Riina avrebbe ordinato la strage; per questo motivo nelle aule del Tribunale di Firenze si apre un nuovo processo. Solo una persona si costituisce parte civile: una signora che non ha mai parlato di quanto accaduto quella notte, per lei la partecipazione alle udienze diventa una terapia. Non è l’unica tuttavia a non aver raccontato di quell’esperienza traumatica, altre persone hanno preferito tacere su quegli attimi di terrore indescrivibile. Solo per questa pellicola hanno deciso di condividere la loro sofferenza. Il loro è un fardello troppo pesante da portare, che li tormenta costantemente, tanto da diventare in alcuni momenti quasi come un rifugio dove potersi nascondere: e finiscono per provare piacere nel dolore.
Nel processo sin da subito è chiaro che sarà difficile accertare la responsabilità di quanto accaduto. Le prove sono poche e le reticenze sono molte, come quella kafkiana di Giuseppe Calò (“il cassiere di Cosa Nostra”), che – chiamato a deporre – dichiara di non aver mai conosciuto il boss di Corleone.
La sentenza della Corte d’Assise dirà che Totò Riina è assolto perché non vi sono prove che sia stato lui ad ordinare l’esplosione, ancorché è evidente che in quella deprecabile operazione ha trovato coagulo un coacervo di interessi convergenti di diversa natura.
La verità è ancora lontana dall’esser ricostruita. È frantumata in migliaia di pezzi, come i vetri delle finestre del treno: molti sono stati rimessi insieme, altri sono ancora nascosti ma con il tempo riemergono; lo stesso accade a una delle vittime di quel 23 dicembre, perché nelle parti molli il vetro non si può togliere ma col passare degli anni riaffiora ed esce. Anche la verità prima o poi verrà fuori, ma occorre avere pazienza.
L’idea iniziale del documentario era di offrire una serie di ritratti sulle vittime del Rapido 904. L’inizio del processo ha portato inevitabilmente alla revisione del progetto originario, portando alla fusione dell’aspetto giuridico con quello più intimo delle testimonianze dei superstiti. L’oggetto della pellicola è particolarmente interessante perché riguarda tematiche ancora oscure; l’approccio tuttavia non spicca per originalità e ciò impedisce alla pellicola di fare il salto di qualità.
Infine, occorre menzionare anche il luogo in cui questa proiezione è avvenuta: il cinema Kino, che ha dato la possibilità di assistere ad un dibattito vivace e interessante con il regista, Maurizio Torrealta (giornalista d’inchiesta) e una dipendente dell’archivio Flamigni (che cerca di far luce sulle stragi di Stato).
data di pubblicazione:30/01/2016
da Alessandro Rosi | Gen 16, 2016
(Teatro Argot – Roma, 14/24 Gennaio 2016)
Angelo è un uomo che conduce una vita disordinata: la sua casa in subbuglio e la maglietta di Homer Simpson che indossa sono la cartina tornasole del suo modus vivendi. La sua routine sarà sconvolta da un evento inaspettato: l’incontro con un angelo (stavolta non di nome ma di professione). Lo scapestrato impiegherà non poco ad accettare la natura straordinaria dell’intruso e nel mentre si susseguiranno diverse (forse anche troppe) gag spiritose. Una volta convintosi, lo tampinerà di domande, fino a porgli il quesito che tormenta ognuno di noi: come posso essere felice? La creatura eterea sembra avere la risposta, ma è un po’ sbadata e se l’è dimenticata.
L’idea di uno spettacolo comico che abbia a oggetto un incontro con un angelo è originale, ma anche difficile da realizzare.
La pièce appare monotona e poco accattivante; l’unico colpo di scena è quello a salve sparato dalla pistola di Angelo per suicidarsi, che non andrà a segno — come molte delle battute proposte durante la recitazione.
data di pubblicazione: 16/01/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Gen 14, 2016
Bosnia, 1995. Il conflitto che ha devastato per anni i Balcani volge ormai al termine. Una mano copre l’obiettivo della cinepresa e lentamente si solleva lasciando l’occhio dello spettatore esterrefatto dalla visione di un corpo esanime sospeso nel vuoto. Sullo sfondo di questa immagine raccapricciante s’intravede Mambrù (Benicio del Toro), operatore umanitario con il ruolo di responsabile della sicurezza, che sta tentando — insieme ai suoi collaboratori — di rimuovere dal pozzo il cadavere, affinché Sophie (Mélanie Thierry), responsabile delle risorse idriche, possa bonificare l’acqua — altrimenti contaminata e inservibile per gli abitanti del luogo. La corda con cui stanno issando il corpo (color livor mortis), però, non regge e si spezza; una rottura che cercherà di essere ricomposta per tutta la durata del film e che rievoca la frantumazione dell’equilibrio tra le diverse etnie bosniache, tuttora alla ricerca di un’armonia sociale. A questo punto il gruppo, seppur momentaneamente, si divide: i due operatori B (interpretato da Tim Robbins) e l’interprete de “Aid Across Borders” proseguono nella ricerca di un’altra corda, mentre Sophie e Mambrù si recano nella zona protetta, dove si apprestano a partecipare a una conferenza con i responsabili delle forze militari dell’ONU. Lì incontreranno l’affascinante Katya (Olga Kurylenko), analista di guerra inviata per una valutazione sullo stato del conflitto — nonché ex fiamma di Mambrù —, che li seguirà nella loro missione di ripristinare l’accesso all’acqua del pozzo.
Inizia così il viaggio delle due macchine degli aiuti umanitari (in terre dove rimane poco di umano) che si inerpicheranno attraverso le strade tortuose del territorio bosniaco, che viste dall’alto appaiono un groviglio inestricabile al pari delle situazioni in cui saranno coinvolti i protagonisti.
Il road movie del regista spagnolo, per il territorio in cui si svolge e per i topoi che involge, lascerebbe presagire la visione di un film che lascia un magone difficile da digerire. Stupisce invece l’approccio “leggero” — ma non superficiale — e vivace (grazie anche alla colonna sonora) con cui sono affrontati temi particolarmente delicati. Senso di leggerezza derivante anche dalle numerose boutades che condiscono il viaggio, tra cui spiccano quelle di B — la scelta di Tim Robbins per questo ruolo si rivela vincente —, il cui umorismo incessante stempera l’atmosfera opprimente generata dalla vista della devastazione e desolazione causata dal conflitto. Da contraltare alla leggerezza che pervade il film è la profonda caratterizzazione psicologica dei personaggi, al pari della sapiente ricerca del regista del ricorso del cambio di fuoco nelle inquadrature tra personaggi sovrapposti, artifizio che conferisce la sensazione di straniamento e di confusione pari a quella provata dalle persone coinvolte in un conflitto.
L’estenuante ricerca di una semplice corda diventa simbolo di uno scopo più grande, ovvero quello di una soluzione che ponga fine ad un conflitto che consenta alle popolazioni di tornare alle loro vite: soluzione che spesso è di fronte ai nostri occhi e che non vediamo, ma che il naturale corso degli eventi può portare.
data di pubblicazione 14/01/2016
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da Alessandro Rosi | Gen 12, 2016
(Teatro Vascello – Roma, 11 Gennaio 2016)
Lungo la corda tesa del 41° parallelo (che dà il nome all’orchestra) danzano le equilibriste dell’ensemble musicale: un gruppo composto da sole donne — eccezion fatta per il direttore—, che con la loro musica incantevole accompagnano il pubblico alla scoperta dei paesi che si incontrano su questa linea orizzontale del globo terrestre.
Il giro del mondo musicale inizia in India con un canto baul (parola che deriva dal sanscrito “vento”); la voce di Camilla Dell’Agnola ci solleva da terra, come una forza sottile e spirituale, e ci sospinge verso nuove terre.
Arriviamo in Bulgaria, dove l’orchestra esplode in una danza popolare tratta dal folklore contadino, che, seppur arrangiata secondo il gusto contemporaneo, mantiene integro lo schema asimmetrico della tradizione. Continuiamo a ballare in Grecia, con un sirtaki per allontanare la crisi economica: la musica diventa strumento per raccontare storie di marginalità e di disagio sociale, che nella stessa trovano sfogo e consolazione.
Dopo aver a lungo ballato, un carillon riporta la calma e introduce l’Albanian Lullaby, cantata dalla voce soave di Gabriella Aiello. E si prosegue con il malinconico fado portoghese, simbolo della saudade, capace di toccare le più intime corde dell’animo umano.
L’atmosfera mesta viene spazzata via dalla suite di brani della tradizione sarda, titolata Il bacio della medusa; nome che trae origine da un episodio ironico occorso al direttore d’orchestra (Stefano Scatozza): durante una nuotata in una tournée a Stintino, un invertebrato marino decise di abbracciare il suo viso con i tentacoli urticanti. Dalla Sardegna facciamo rotta verso la Spagna, dove siamo ospitati dal popolo sefardita; il ritmo caliente delle loro canzoni infiamma il pubblico, che è invitato a partecipare: un unione che sprigiona un turbinio di suoni ed emozioni.
Abbandoniamo il vecchio continente per atterrare a New York; nella capitale americana ci perdiamo nel labirinto di suoni della metropoli, attraverso il sax contralto di Valentina Franchini che ci riporta nello scenario cittadino.
Il biglietto di ritorno ha come destinazione Roma, ultima tappa del concerto, dove con la canzone Viaggio Orizzontale — accompagnata dalla voce di Agnese Valle — viene raccontato lo scopo di questa orchestra e l’amicizia musicale (e umana) che lega i componenti.
Lo spettacolo musicale offerto da L’orchestra del 41° parallelo non solo colpisce per lo spessore dei musicisti che ne fanno parte, ma anche per l’approccio innovativo: permette, infatti, di sentire canti e ballate della tradizione di diverse culture europee (e non), viaggiando aggrappati alle note musicali emesse dai loro strumenti, alla scoperta di altri popoli e alla ricerca di se stessi.
data di pubblicazione 12/01/2016
Il nostro voto:
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