da Alessandro Rosi | Mar 31, 2016
(Teatro Quirino – Roma, 29 Marzo/10 Aprile 2016)
Sul palcoscenico del Teatro Quirino un intreccio di tubi innocenti avvolge le pareti della palestra di un liceo situato nella periferia romana: un equilibrio precario, come quello che lega i professori del IV D che si apprestano a prender parte al consiglio di classe per lo scrutinio finale.
Sette sono i docenti — compreso il Preside — che decideranno le sorti degli alunni, ognuno dei quali rappresenta un’anima diversa della scuola (e anche del nostro paese).
Il Preside (un ottimo Roberto Citran) è un illetterato — presumibilmente ricopre la carica più per meriti altrui che propri — ma ha un forte senso del dovere. Quello che manca, invece, al professore di francese Mortillaro (interpretato da uno strepitoso Roberto Nobile, che regala al pubblico una performance esilarante), il quale indossa un completo bianco che contrasta con il suo animo nero come la pece e la sua mentalità misoneista e retriva (tant’è che esclamerà: “c’è chi è nato per zappare e chi per studiare”). Nero è anche l’abito talare del maleodorante prete, nonché insegnante di religione, Mattozzi (impeccabile Vittorio Ciorcalo), il cui olezzo sgradevole — oltre a divertire il pubblico nel vedere le reazioni dei professori che gli si avvicinano — sa di vetusto e antico, come i precetti che segue. Schemi in cui è ingabbiata anche la prof.ssa di storia dell’arte Alinovi (un’attenta Maria Laura Rondanini), insegnante scrupolosa e pedante, più adatta a lavorare per i servizi segreti (visto l’ingegnoso meccanismo messo a punto per ricordarsi i nomi dei numerosi alunni delle sue classi) che a insegnare. Inadatto all’insegnamento è altresì l’azzimato professore d’impiantistica, l’ing. Cirrotta (un disinvolto Antonio Petrocelli), dedito più al commercio dei termosifoni, e ad ammiccare alle donne, che a istruire. In particolare, la sua concupiscenza avvampa non appena incontra la prof.ssa di ragioneria Baccalauro (un’intensa Marina Massironi) — soprannominata ironicamente dai colleghi Bachalau (come il tipico piatto della tradizione portoghese) —, nevrotica ma talmente appassionata del proprio lavoro da avere a cuore la preparazione dei suoi studenti. Ma il suo cuore batte anche per l’idealista e visionario professore di lettere Cozzolino (l’intramontabile Silvio Orlando: capace di un’immedesimazione nel personaggio eccezionale — quasi si dimentica che in realtà è un attore) con il quale porta avanti una liaison clandestina; Cozzolino che rappresenta il professore più solidale con gli alunni, e che cercherà con la poesia di svegliare i colleghi dal sonno della ragione.
Il culmine della discussione tra queste diverse anime è raggiunto nel momento in cui si dovrà decidere se promuovere o meno l’alunno Cardini (la cui presenza è costante durante lo spettacolo, ancorché non sia impersonato da nessun attore). Il liceale — così come descritto dai professori — è il ritratto dell’indolenza e, al contempo, simbolo del fallimento della scuola che non riesce ad aiutarlo nel suo percorso formativo. La sua unica dote è l’imitazione della mosca: si aggira tra i banchi fingendo di volare e chiedendo ai suoi compagni di salvare l’insetto, perché sente dentro di sé Cardini. La metamorfosi non è altro che una metafora del rifiuto verso se stessi, nei confronti di quella parte negativa; e l’uccisione catartica gli permetterebbe di esprimere le sue potenzialità. E allora anche le impalcature che circondano la palestra diventano una gabbia per lo studente, cui sono tarpate le ali della creatività. Ma Cardini non è l’unico a sentirsi prigioniero; anche i professori sopprimono le loro aspirazioni, i desideri cui anelano: come il Preside che, da presunto inetto, mosso da afflato poetico si rivelerà capace di scrivere una poesia commovente nella sua semplicità.
Le riflessioni morali, cui ineludibilmente conduce lo spettacolo, sono affrontate con una leggerezza comica che rendono la piece gustosa — soprattutto grazie alle battute salaci che guarniscono i dialoghi tra i personaggi. La scenografia si attaglia perfettamente al testo teatrale, mercé una ben congegnata articolazione dello spazio scenico da parte di Giancarlo Basili. I costumi, scelti da Maria Rita Barbera, si adattano a ogni personaggio, esaltandone le caratteristiche. Il tutto è magistralmente orchestrato da Daniele Lucchetti, capace di dettare efficacemente i tempi scenici, in guisa da ottenere uno spettacolo armonioso e spiritoso.
data di pubblicazione: 31/03/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Mar 19, 2016
(Teatro San Genesio – Roma, 8/20 Marzo 2016)
Sussidi, indennità, assegni di qualsiasi tipo piovono su Eric Swan (Simone Giuletti), disoccupato londinese che ha ingannato il sistema previdenziale inglese ed è riuscito ad ottenere il riconoscimento di numerose somme di denaro per tutte le persone indigenti che ha dichiarato vivere al suo indirizzo.
Ma il castello di menzogne da lui creato è sul punto di sgretolarsi. Seduto sul comodo divano di pelle del suo elegante appartamento — le cui pareti sono per metà ricoperte da una boiserie in legno laccato di bianco e per l’altra dipinte di color rosso vermiglio — decide di rinunciare a tutti gli aiuti statali che ha ottenuto illecitamente.
Il destino, tuttavia, gli ha riservato una sorpresa. Il campanello della porta suona inaspettatamente e sull’uscio Eric rimane pietrificato alla vista di un sussiegoso signore: è il funzionario statale del dipartimento di previdenza!
L’incontro nefasto innescherà una reazione a catena che vedrà coinvolti diversi personaggi nella farsa generata da Eric, tra cui lo sfortunato inquilino Norman (Massimo Sconci) che, mentre si aggira per casa nei suoi stravaganti pantaloni in tartan rosso, si ritroverà suo malgrado coinvolto nel baillame generale.
Fuseaux dai colori sgargianti, reggiseni di proporzioni enormi, vestiti dai motivi floreali sono solo alcuni degli espedienti che saranno utilizzati per camuffare una situazione che arriverà ai limiti dell’inverosimile, ma che troverà nel lieto finale il tanto anelato ripristino dello status quo.
Le gags di cui è costellato lo spettacolo, costituite soprattutto dagli escamotage cui Eric ricorre per cavarsi d’impaccio, sono simpatiche e appropriate; e rendono lo spettacolo equilibrato, senza mai scadere nel ridicolo. Il quid pluris della messinscena è sicuramente costituito dalla prova corale della compagnia teatrale, che ha trovato la chimica giusta per rendere questa commedia ancor più amena. Il divertimento è palpabile, tant’è che gli stessi attori, in alcuni frangenti, non riescono a trattenere il riso e li si può scovare a ridere di sottecchi!
data di pubblicazione:19/03/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Feb 29, 2016
(Teatro Vascello – Roma, 16/28 Febbraio 2016)
Julian è un venticinquenne figlio dell’opulenta e potente borghesia tedesca. Ma ciò solo all’anagrafe, perché Julian non si sente appartenere a nessuno. Non riesce a condividere i suoi sentimenti neanche con la giovane Ida, che incessantemente (e infruttuosamente) lo corteggia. Respinge tutto e tutti: “Niente di ciò che è di tutti è mio”.
La mancanza di senso di appartenenza lo tormenta: non trova spazio nella società e al contempo non ne vuole far parte, però, se agisce da reazionario, finisce per sentirsi partecipe. “Io non ho opinioni. Ho tentato di averne, e ho fatto, in conseguenza, il mio dovere. Così mi sono accorto che anche come rivoluzionario ero conformista.”
Il suo senso di straniamento lo conduce a distaccarsi dalla comunità — in particolare dai membri della borghesia (che considera dei suini) —, ma la sua affezione nei riguardi di ciò che lo ha generato persiste e riuscirà a esternarla in una forma diversa: svilupperà una perversione sessuale nei confronti di quell’animale che per lui rappresenta quella categoria avversata: il maiale. Zooerastia, quindi, che diventa simbolo della diversità del giovane, ma che cela il legame indelebile con quella parte della società avida. Avidità che finirà per divorarlo.
Diversità, amore proibito, epilogo tragico, eventi che hanno segnato la vita di Pasolini e di cui è intriso questo spettacolo dall’intensa carica autobiografica; che traspare appieno anche grazie alla splendida interpretazione del personaggio di Julian da parte di Francesco Borchi, il quale mostra una notevole capacità d’immedesimazione nel personaggio.
La trasposizione teatrale di Valerio Binasco dell’opera è più diretta e meno concettuale rispetto al testo originario. Depurato dagli intellettualismi pasoliniani, lo spettacolo è di più facile comprensione e, pertanto, accessibile a un pubblico più vasto.
Non solo il testo teatrale ma, altresì, la scenografia è essenziale: sul palco sono presenti un impiantito dal colore rosaceo (che allude al colore della pelle dei suini) e uno sfondo cangiante — il quale all’occorrenza diventa cinque archi oppure cinque arbusti fioriti e intrecciati. Sagace anche l’utilizzo di una proiezione video per simulare il sipario, che, nel momento in cui cala per l’ultima volta, ci lascia con il ricordo della straordinaria storia di Julian: una vita devota all’amore e dallo stesso sentimento consumato. «Solo l’amare, solo il conoscere / conta, non l’aver amato, / non l’aver conosciuto» (Il pianto della scavatrice, Pasolini).
Durata degli applausi: 3’ 10’’
data di pubblicazione:29/02/2016
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Feb 25, 2016
(Teatro della Cometa – Roma, 16/28 Febbraio 2016)
Urla strazianti provengono da una donna sul letto di un ospedale: una partoriente richiama tutte le sue energie per dare alla luce sua figlia; ma la nascitura non ne vuole sapere di uscire. La madre, con un ultimo sforzo, riesce a liberarsi del corpo estraneo. Alla vista della bambina dai lineamenti sgraziati che ha partorito, si volta e si copre con il lenzuolo bianco.
La scena appena descritta non è solo l’inizio dello spettacolo in commento, ma è anche uno dei quadri (la cui immagine è proiettata sullo sfondo del palcoscenico) più strazianti e violenti della pittrice messicana. Attraverso la rappresentazione teatrale dei capolavori di Frida Kahlo, la piecé si prefigge di ripercorrere la vita unica dell’artista in tutte le sue nuance.
Tra i temi che sono trattati, vi è: il complicato rapporto della pittrice con la madre; il dolore fisico che la affligge durante la sua esistenza, prima a causa della poliomielite e dopo per via dell’incidente in cui rimane coinvolta mentre si trovava su un autobus (e non sulla macchina guidata dal marito, come invece lascia intendere la rappresentazione); l’intimo legame di Frida con la morte — elemento costante nei suoi quadri —, atteso che nella cultura colombiana il trapasso è considerato una rinascita; le passioni travolgenti, per suo marito (il pittore Diego Rivera) e per quella che si dice esser stata la sua amante (la fotografa italiana Tina Modotti).
La mise-en-scène dei diversi quadri è intervallata da video proiettati non solo sullo schermo ma anche verso il pubblico, creando un effetto suggestivo che immerge lo spettatore nella realtà vissuta dall’artista (anche se forti dubbi si nutrono riguardo la visibilità di tale effetto da tutti i posti della sala). Non solo proiezioni, ma anche la performance di una ballerina nerboruta permette il cambio di scena. Danza e video che, sebbene d’indubbia qualità, finiscono per essere un elemento di distrazione rispetto al fulcro della rappresentazione, nonché poco inerenti con la trama dello spettacolo.
Buona la prova attoriale della protagonista (Alessia Navarro), alle prese con un personaggio impegnativo — ancorché risulti spesso malriuscito e goffo il tentativo di emulare la voce mascolina dell’artista messicana.
Per quanto riguarda la sceneggiatura, il testo non è incisivo e i dialoghi sono per lo più sconclusionati e imprecisi: non diradano i dubbi circa la figura dell’artista, ma — anzi — li infittiscono.
“Piedi, perché li voglio se ho ali per volare?” questa la celebre frase della pittrice scelta per concludere lo spettacolo, il quale, tuttavia, ha ali di Icaro che non gli permettono di decollare.
data di pubblicazione 25/02/2016
Scopri con un click il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Feb 15, 2016
(Teatro Argot – Roma, 5/21 Febbraio 2016)
Si può riuscire a vivere isolati recidendo qualsiasi legame con il resto del mondo? Come riuscire a colmare il vuoto generato dalla solitudine? Quali segreti si annidano dietro una scelta di tal fatta?
Mario Capaldini (Giampiero Rappa) è uno scrittore di successo; chiamato a salire sul palco per ricevere un premio letterario, dopo un’invettiva contro lo stato in cui versa la società, lo rifiuta e decide di rinchiudersi in una remota baita montana.
Dopo tre anni di lungo silenzio, rompe il digiuno permettendo a un giornale di intervistarlo; ma l’affascinante inviata (Valentina Cenni), cui è affidato il servizio, non riesce a ottenere alcuna confessione dal misantropo scrittore e rimane con un pugno di mosche. Nonostante la delusione, la giornalista non prende immediatamente la via del ritorno, ma indugia nella baita, avvinta dalla personalità ieratica e dal fascino dell’uomo solitario (in cui si rispecchia).
Una volta congedatasi, un incontro inaspettato attende lo scrittore: il nipote Ronny (Giuseppe Tantillo) è venuto a fargli visita. Neanche il calore e la vivacità del giovane, tuttavia, riusciranno a scaldare il gelido Capaldini, che si rivelerà spietato e cinico anche nei confronti del familiare.
L’isolamento forzato dello scrittore di successo è solo la punta dell’iceberg: egli nasconde dentro di sé le motivazioni di siffatta scelta. La giornalista prima e il nipote poi, scioglieranno il ghiaccio che avvolge il suo animo, e solo alla fine, in uno sfogo virulento e catartico, emergeranno le ragioni che l’hanno portato a una scelta così radicale.
La rappresentazione è un’indagine accurata sul logorante tormento interiore e sulla difficoltà dei rapporti umani. Una pièce costruita a regola d’arte, dove dialoghi veementi e accesi alterchi si saldano a pause introspettive e lunghi silenzi (che si rivelano più violenti delle parole); ciò soprattutto grazie all’intensa recitazione dei tre attori sul palcoscenico (specialmente quella del giovane Giuseppe Tantillo, la cui interpretazione vibrante fa suonare le corde più intime dell’animo degli spettatori).
Lo spettacolo è altresì un monito nei confronti di chi cerca di scappare: per quanto lontano uno possa andare, lo scontro con se stessi è ineludibile; le ansie, le paure, le inquietudini sono pronte a bussare alla porta, per loro nessun luogo è lontano.
data di pubblicazione:15/02/2016
Il nostro voto:
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