da Alessandro Rosi | Apr 14, 2017
(Teatro Quirino – Roma, 11/13 Aprile 2017)
“Il destino intrecciato di un cane, che i propri padroni ha abbandonato, e un uomo, che dalla sua vita è invece scappato.”
È davvero il cane il miglior amico dell’uomo?
Alessandro è al parco con il suo grazioso barboncino color miele Toutou; quando all’improvviso, dopo essersi distratto a parlare con la seducente vicina, non vede più il suo cane: è scappato. Sua moglie Marzia non crede a quanto accaduto e cerca in tutti i modi di ritrovarlo (anche guardando tra la platea!). I due si interrogano allora sui motivi che hanno indotto il cane a fuggire, ma anche sul modo in cui Toutou ha inciso sulle loro abitudini di vita: molte volte è un alibi della loro pigrizia; è un impegno costante e porta via tempo prezioso; e spesso li ha costretti a rinunciare a viaggiare.
Toutou non è l’unico ad essere scappato, anche il loro amico Paolo è in fuga (dalla moglie) ed è in cerca di ospitalità. Seppur anche lui inizialmente sottolinei alcuni cambiamenti negativi, esalta successivamente tutti gli aspetti positivi dovuti alla presenza di Toutou. È il cane ad aver fatto nascere il loro amore, a rinforzare il loro sentimento e a renderlo stabile anche nei momenti più difficili. Coincide invece con il suo abbandono il momento in cui la coppia va in crisi. Ritornerà Toutou a sistemare la situazione?
L’adattamento della commedia francese Toutouè piacevole e divertente, permette di passare due ore in compagnia di numerose battute che prendono spunto dai comportamenti umani in relazione al mondo canino. Pino Quartullo, oltre a curare la regia, interpreta efficacemente il ruolo di Alessandro, ma senza incidere più di tanto. Scintillante invece Attilio Fontana (nella figura di Paolo), che nella sua interpretazione ha modo di dar prova altresì delle sue abilità canore. Rosita Celentano incarna invece alla perfezione la figura materna, ma riserva anche delle sorprese.
Star indiscussa dello spettacolo è tuttavia Toutou, il tenero cane simile a un peluche. Guardalo sul palco è una gioia per gli occhi, il solo vederlo mette di buon umore. Gli animali hanno un potere benefico sull’uomo davvero sconfinato. D’altronde è risaputo che carezzare un cane riduce il livello di stress; attraverso la pet therapy è possibile alleviare diverse patologie; i cani sono in grado di sentire con il loro olfatto sviluppato (e quindi salvare) le persone in pericolo. Ciononostante noi spesso li maltrattiamo, li abbandoniamo e in Cina si tengono Festival dove vengono crudelmente seviziati.
La domanda sorge allora spontanea. Se il cane è il miglior amico dell’uomo, è l’uomo il miglior amico del cane?
data di pubblicazione:14/04/2017
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Mar 22, 2017
(Teatro Vascello – Roma, 20/21 Marzo 2017)
“Musica cantautorale e storie dal forte impatto sociale, per una serata dal suono speciale”
Via Giacinto Carini. Civico 78. Siamo arrivati. Parcheggiamo e ci avviamo in direzione del teatro. Il consueto nugolo di persone assiepa l’ingresso del Vascello, pronto ad essere traghettato verso un nuovo spettacolo.
Ma non è una serata come le altre, lo si percepisce dal vociare concitato e festoso, dai gesti di sorpresa e stupore, dall’aria frizzante e rarefatta del primo giorno di primavera. C’è tuttavia qualcos’altro che rende l’atmosfera particolare e ancora ci sfugge; allora ci avviciniamo alla porta principale, mettiamo meglio a fuoco la situazione, e scopriamo il motivo di tutto quello scalpore: Celestini è lì, davanti alla porta principale, a discettare con il suo pubblico, come un avventore qualsiasi, come una persona comune.
Malgrado ciò, Celestini non è un quisque de populo, bensì è unico nel suo genere, è capace di infrangere le barriere tra pubblico e palcoscenico, tra attore e spettatore. Lo conferma guidandoci in sala e, una volta che tutti hanno preso posto, iniziando lo spettacolo.
Si comincia a spron battuto, con la voce incalzante di Alessio Lega e la fisarmonica lucente di Guido Baldoni, che raccontano la storia di un sindacalista arabo (regolarmente soggiornante in Italia) ucciso da un crumiro durante un picchettaggio. Una morte atroce, travolto da un muletto mentre esercitava il suo diritto di protestare. Con la canzone i due vogliono denunciare la scarsa considerazione che ha avuto un evento del genere, solo perché a essere colpito è stato un immigrato.
Ora è il turno di Celestini, il cantastorie contemporaneo, avvolto da abiti più grandi di lui, con la barba mefistofelica e la voce nasale che lo contraddistinguono; inizia con la storia di Domenica, una bambina trascurata dai genitori e indotta a rubare, poi narra di Viola, cresciuta da suore crudeli che la maltrattano, di seguito parla di Giobbe, lavoratore modesto in una fabbrica dall’atmosfera umile ma non umiliante, che tuttavia non riuscì a sopravvivere ad un attacco cardiaco per la mancanza di un defibrillatore nei locali dove lavorava.
Maltrattamenti, autolesionismo, morti sul lavoro, sono solo alcuni dei temi toccati da Celestini nel suo percorso a tappe musicali.
Il fascino esercitato dalla sua loquela, dalla sua recitazione, dalla capacità di rendere leggeri – attraverso l’uso misurato dell’ironia – argomenti più pesanti del piombo, rapisce anche i suoi compagni di viaggio, che lo osservano stregati durante l’esibizione.
Se indubbio è il talento dell’artista, meno pregevole è il risultato dello spettacolo nel suo complesso, in cui la parte musicale non sempre si lega alle storie narrate. Tra citazioni di Sergio Endrigo, Jannaci, Gianni Rodari e cantautori russi si perde spesso il filo conduttore (che probabilmente non c’è) e che sicuramente incide negativamente sulla rappresentazione.
Di certo è apprezzabile la volontà far conoscere un cantante che ha il pregio di tradurre capolavori musicali appartenenti alla tradizione russa (anche se così c’è il rischio di avere l’effetto contrario). Ed è proprio l’ultima canzone, quella lasciata per il finale, che ci consente di apprezzare il talento di Alessio Lega: con con la sua voce intrisa di emozione, ci canta la traduzione da lui realizzata della canzone “La nostra classe” di Jacek Kaczmarski (cantautore dissidente polacco).
“Quali nomi, quali voci ci diranno cosa è vero,
Se serbiamo le radici in esilio o al cimitero,
Siamo rovi o siamo gigli della vita sola e affranta,
E scordiamo di esser figli, foglie della stessa pianta,
Foglia della stessa pianta.”
data di pubblicazione:22/03/2017
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Mar 17, 2017
(Teatro Argentina – Roma, 14/19 Marzo 2016)
Vita coniugale stancante interrotta da una barboncina parlante, capace di portare sensualità e ironia – e una buona dose di follia.
Cave canem è la scritta che solitamente viene usata per intimorire coloro che si avvicinano ad un’abitazione con cattive intenzioni, perché l’animale domestico è pronto a difendere con i denti il domicilio e i loro padroni. In questo spettacolo la situazione si ribalta: saranno il dentista Goodman e la stravagante Madame Pink a dover far attenzione all’esplosiva cagnolina Roxie, che la signora ha deciso di acquistare.
Nel mondo surreale plasmato da Alfredo Arias gli animali dialogano, litigano e si innamorano come gli uomini. Roxie sarà allora la protagonista indiscussa della scena, riaccendendo l’istinto sessuale della padrona – ormai anestetizzato dal marito – e portando la stessa ad avere eccitanti relazioni, ma anche profonde delusioni. In questo carosello animalesco di amori e dolori, intervallato da originali canzoni, Madame Pink e la sua cagnolina scambieranno gli amanti e vivranno esperienze fuori dal comune. Ma la giostra di emozioni è destinata a terminare e farà tornare Madame Pink al punto di partenza; stavolta, però, con una inaspettata richiesta dalla Regina d’Inghilterra.
Nello sfarzo colorato delle scene realizzate da Agostino Iacurci si entra in un’altra dimensione: attraversando le porte a forma di osso (come quello che sgranocchiano i cani) si entra in un mondo animale pitturato dal rosso della passione, accentuata dal divano Gufram al centro del palco, che dà risalto alla carnosità e alla carica sensuale imperanti.
Alla scena si abbinano perfettamente i sofisticati costumi ideati da Marco De Vincenzo, che trasmettono i diversi umori dei personaggi. Il vestito nero indossato da Madame Pink al momento del suo ingresso rappresenta eloquentemente il suo stato d’animo, ma all’arrivo di Roxie l’abito si trasforma in un rosa carnale e viene adornato da plissé, le cui pieghe rievocano i pirottini delle pastarelle (come quelle che felicemente sforna nella nuova veste di pasticcera); mentre il camice del marito – nella parte superiore verde e in quella inferiore bianco – combacia con i colori degli enormi vasi sullo sfondo, così da risaltare la sua staticità. Sfondo che si solleva e muta in base al personaggio che canta, e in cui spesso i riferimenti sessuali sono espliciti: come per il contorno della chioma del barboncino e del suo muso, che ricordano sia i seni che le ovaie delle donne.
La voluttuosità portata da Flo, che interpreta Roxie, è trasmessa efficacemente e traspare anche nella parte canora. E lo stesso vale per Gaia Aprea, che attraverso la sua voce zuccherata rende più dolce lo spettacolo.
Uno show che cerca di deridere il mondo dello spettacolo americano enfatizzandone gli aspetti più ironici, ma che non riesce nel suo intento per via della trama contorta e faticosa, in cui neanche le canzoni che accompagnano lo svolgimento incidono positivamente. D’altronde lo stesso regista, prima che iniziasse lo spettacolo, aveva ammonito il pubblico che non si sarebbe capito nulla.
Uno spettacolo caramellato in cui si rischia di avere le carie.
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Mar 10, 2017
(Teatro Eliseo – Roma, 8/19 Marzo 2017)
Peripatetico fatiscente sulla via del decadimento, narra storie partenopee dalla sua gabbia di cemento.
“Dicitencello vuje ca nun mma scordo maje. E’ na passione, cchiù forte ‘e na catena, ca mme turmenta ll’anema e nun mme fa campá!” è il grido straziante che emana la radio; parole scritte da Enzo Fusco per la canzone “Dicitencello vuje”: canto disperato di un innamorato nei confronti della donna amata. Non è l’unico lamento che si sente nei Quartieri Spagnoli, anche l’androgino Scannasurice racconta mestamente le storie del suo quartiere, della sua città, mentre si inerpica negli stretti cunicoli dell’antro in cui vive, cercando al contempo di vestirsi prima di vendere piacere al corpo altrui.
In questo ambiente marcio, dove non c’è redenzione, Imma Villa si esprime in modo autentico, viscerale, e si fatica a credere che una volta tolta la maschera ci sia un’attrice dietro i costumi indossati.
Non si hanno invece dubbi sull’incredibile talento di Roberto Crea, che attraverso la realizzazione delle scene riesce sempre a sbalordire, consentendo allo spettatore di assistere a sculture teatrali interattive. In questo caso riempie l’intero palcoscenico con la sezione tagliata del palazzo decrepito abitato da Scannasurice, consentendo così di vedere all’interno dello stesso: abiti lerci, rimasugli di rifiuti, bottiglie di vino semivuote popolano l’abitazione: una tana sotterranea in cui l’attrice si muove strisciando come un topo (“surice”) e da cui proviene l’eco quando si insinua negli anfratti più buî. Allora il reticolato fitto di travi, che costituisce la struttura alla palazzina, non è altro che la grata di un tombino, da cui si può osservare una vera e propria cloaca.
Il suono ridondante proveniente da questo ambiente è reso ancor più tondo e avvolgente dal dialetto napoletano, utilizzato durante tutte la pièce. Se la scelta di mantenere la lingua napoletana appare più che giustificata dalla natura dello spettacolo, non si può condividere la mancanza di sottotitoli (nonostante la velocità del monologo) che consentano a tutti gli spettatori di comprendere lo svolgimento della rappresentazione. Al termine della stessa si rimane perciò indubbiamente estasiati dalla mimica e gestualità dell’attrice, dalla forza espressiva della scenografia, dalle musiche dolcemente malinconiche di Paolo Coletta; ma con un vuoto incolmabile riguardo a quanto accaduto. E una volta venuti a conoscenza della sinossi, si ha invece il rimpianto di non aver potuto assaporare appieno la messinscena – spettacolo che peraltro ha ricevuto nel 2015 il premio della critica (e viene da pensare che tutti coloro che l’hanno giudicato abbiano radici partenopee o conoscano bene il dialetto di quella zona).
La traduzione di certo non potrebbe restituire a pieno tutte le nuance sottese all’opera – e sarebbe anche difficile da seguire, vista la velocità delle battute (su ciò si condivide quanto detto da A. Tabucchi “La traduzione non è l’opera, ma un viaggio verso la stessa”) – però consentirebbe ad un pubblico maggiore di apprezzare Scannasurice.
data di pubblicazione:10/03/2017
Il nostro voto:
da Alessandro Rosi | Mar 4, 2017
(Teatro Vascello – Roma, 2/12 Marzo 2017)
“Un solo attore per una foresta di voci; un sublime autore per una selva di immagini feroci.”
Con passo felpato Gifuni fa il suo ingresso sul palco. L’oscurità lo circonda. Indossa un vestito bianco dello stesso colore delle pagine del libro “Lo straniero” di Camus che andrà a leggere e interpretare; i suoi capelli e la folta barba avvolgono la sua figura come la punteggiatura circonda i diversi enunciati; e la sua voce vigorosa darà vita alle parole stampate, scritte dall’autore francese.
Appena arrivato al centro del palco, due fari lo accecano. La luce del sole lo risveglia e così entra nel personaggio.
A Meursault è da poco deceduta la madre. Si trova nella stanza dell’ospizio ove dimorava. Lui non le si avvicina. Certamente è dispiaciuto per la morte, ma non lo dà a vedere, gli scivola addosso. Nella camera entrano altre figure indistinguibili; ma lui resta in disparte, distaccato, e dopo poco prenderà commiato, senza un gesto di saluto né una parola.
Lo stesso giorno del funerale materno incontrerà sulla spiaggia Maria, una donna che già conosceva, di cui si era invaghito ma che non amava. Visto l’interesse ricambiato, inizieranno una relazione fisica; ma quando lei gli chiederà di sposarla, risponderà con sincerità: per lui era indifferente, non l’amava, e reputava il matrimonio una questione non seria.
Oltre a Maria, Meursault non aveva molte relazioni, interagiva di rado con il suo vicino Raimondo, un personaggio riottoso e prevaricatore, che una sera finì per maltrattare la donna con cui si frequentava. Tale accadimento non restò senza seguito: alcune persone (tra cui il fratello della compagna) iniziarono a pedinare Raimondo per vendicare l’offesa; finché un mattino, mentre si dirigevano insieme verso il lungomare, ebbero con loro una colluttazione in cui Raimondo rimase sfregiato. Un fendente colpì quest’ultimo sul viso e li costrinse a battere in ritirata. Ma Raimondo non si diede per vinto, e non appena si fu ripreso costrinse Meursault ad accompagnarlo fuori. Durante la tranquilla passeggiata di ritorno sulla spiaggia, Meursault si imbatte all’improvviso in uno degli assalitori, che gli punta immediatamente il coltello sul viso. Abbagliato dal sole e accecato dall’adrenalina, estrae la pistola che aveva tolto per prudenza a Raimondo.
Un solo rumore. Rapido. Secco. Istantaneo. Un corpo che cade a terra. Inanime. Immobile. Freddo. E poi altri quattro colpi vengono sparati e si insaccano nel corpo ormai inerte: dopo poco Meursault ha le manette ai polsi e viene condotto al commissariato per l’interrogatorio. Ed è qui che comincia la sua storia.
Albert Camus, Pier Paolo Pasolini, Giovanni Testori, Julio Cortázar e Roberto Bolaño sono questi gli autori che Fabrizio Gifuni rappresenterà sul palco del teatro Vascello dal 2 al 12 marzo. Nel primo spettacolo riesce insieme a Roberta Lena a condensare in un’ora e mezza centosessanta pagine di libro. Si potrebbero nutrire riserve riguardo la lettura di un libro a teatro, c’è chi potrebbe insinuare che se ne possa fare un uso migliore se lo si legge da soli (come ha fatto provocatoriamente Emanuale Trevi nella sua intervista all’attore), ma Gifuni a tal proposito ha risposto: “Io stesso amo leggere nella mia intimità. Ciò che mi è più estraneo è l’idea di qualcuno che, in maniera più o meno accattivante, esegua un testo scritto. Un libro è un risultato, un magma che si è solidificato. È giusto che prenda la sua strada basata sull’atto di lettura. Io vado in cerca di altro: voglio entrare nella testa di chi lo ha scritto”.
E Gifuni riesce efficacemente nel suo obiettivo di trasportare lo spettatore nel mondo di Camus, nei suoi luoghi immaginari, mettendo in scena le sue inquietudini, il suo malessere, la sua albagia: nuance che non sempre è possibile cogliere con la lettura, ma che l’attore romano riesce a materializzare attraverso la sua voce: “la parte più segreta e misteriosa del corpo” (come diceva Orazio Costa). Una voce che l’attore modula diversamente in base al personaggio evocato, e chiudendo gli occhi si ha la sensazione che sul palco vi siano davvero più teatranti.
Palcoscenico in cui la scenografia è essenziale: sono presenti dei bauli per trasportare il materiale dello spettacolo in un angolo, e nell’altro vi è la postazione da dove G.U.P. alcaro fa partire i suoni che si incanalano nel fiume di parole dell’attore, contribuendo a dare un’ulteriore dimensione alla lettura del testo.
Anche gli effetti scenici sono ridotti all’osso: è l’illuminazione che domina la scena. Le luci calde che rischiarano il candido vestito di lino indossato da Gifuni restringono le pupille e tolgono profondità, in modo che la sua figura si distingua nettamente nel buio che lo avvolge, come una lucciola nella notte; ma nel momento in cui il suo personaggio raggiunge l’apice della sua ribellione, allora i fari posizionati in basso si spengono repentinamente e due luci fredde scendono dall’alto, dilatando le pupille del pubblico e conferendo di nuovo profondità allo spazio: in modo da far fluttuare nell’aria la sua figura, un’ascensione liberatoria, in cui il suo personaggio prende forza, sicurezza e consapevolezza di ciò che gli sta per accadere.
Meursault l’anaffettivo si desta quindi dal suo torpore, ma non si scorda che “non si è mai completamente infelici”. Da questo spettacolo si può invece uscire felici per aver assistito ad una straordinaria interpretazione, anche se gli intervalli temporali tra le diverse scene descritte (in cui viene inserita la musica), se da un lato permettono all’attore di riposarsi, dall’altro risultano vuoti e imbarazzanti – alla staticità continua del personaggio sarebbe in tal caso opportuno abbinare del movimento, per spezzare con il resto della narrazione. D’altra parte, se è vero che non si mai completamente infelici, non lo si è nemmeno felici.
data di pubblicazione: 04/03/2017
Il nostro voto:
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