da Antonella Massaro | Ott 26, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Le violenze, gli abusi e i silenzi della polizia americana, che nasconde dietro la divisa i più odiosi pregiudizi razziali, si incrociano con le storie di tre uomini chiamati a scegliere da che parte stare: perché, nella vita, prima o poi, sempre un momento in cui si può scegliere se restare mostri o divenire uomini.
Danny (John David Washington) è poliziotto nero costretto a fare i conti, malgrado la divisa che indossa, con i pregiudizi legati al colore della sua pelle. Manny (Anthony Ramos) è un giovane padre di famiglia che si divide tra la strada e la ricerca di un lavoro “per bene”. Zyrick (Kelvin Harrison Jr.) è un ragazzo con il talento per il baseball, che, insieme al suo papà, accarezza il sogno del successo da professionista.
Le storie dei tre protagonisti si incrociano e si sfiorano nel momento in cui una notte, in uno dei quartieri “difficili” di Brooklyn (Bed-Stuy), sei poliziotti fermano Darius Larson (Samel Edwards), il nero che tutti conoscono come il gestore del negozio di alimentari all’angolo della strada: sempre pronto a donare un dollaro ai ragazzini, ma anche a rifornire di sigarette di contrabbando chiunque ne faccia richiesta. L’atmosfera diviene nervosa, l’agente Sala lascia partire un colpo di pistola e Darius resta ucciso. Manny assiste alla scena e filma tutto con il suo telefono cellulare: ci vuole ben poco a comprendere che la versione fornita dalla polizia non coincide con quella mostrata dalle immagini. A questo punto i tre protagonisti sono chiamati a scegliere da che parte stare: dalla parte del silenzio codardo ma rassicurante o da quella della verità coraggiosa ma pericolosa; dalla parte dei mostri o dalla parte degli uomini.
Monsters and Men, primo lungometraggio di Reinaldo Marcus Green e già vincitore del premio speciale della Giuria per la migliore opera prima all’ultima edizione del Sundance Film Festival, si confronta con il volto oscuro dell’America, quello in cui il grilletto della polizia è troppo sensibile alla vista di uomini della pelle nera, quello cantato dalla chitarra di Springsteen con American Skin (41 Shots), quello che ancora rappresenta un nodo irrisolto degli Stati Uniti multirazziali ma non sempre multiculturali. Lo stesso volto che, del resto, anche l’Italia si è trovata a mostrare con il caso di Stefano Cucchi, portato sul grande schermo dal film Sulla mia pelle. Non importa che la vittima sia un nero o un “tossico”: la sostanza, in fondo, resta la stessa.
Il razzismo è un ottuso pregiudizio difficile da superare. La 13ma edizione della Festa del Cinema lo ricorda con tutti i registi, con film come The Hate U Give, cui fa da sfondo la stessa tematica di Monsters and Men, o Green Book, con i toni della commedia dal retrogusto amaro. Così come è difficile scoperchiare il vaso di Pandora degli abusi commessi da chi avrebbe il dovere istituzionale di tutelare i diritti dei cittadini. Il film di Reinaldo Marcus Green, tuttavia, pur restituendo uno spaccato di indubbio interesse, non riesce a toccare le corde giuste per convincere fino in fondo. Le storie dei tre protagonisti restano troppo distanti le une dalle altre e la narrazione perde spesso di ritmo, lasciando senza sviluppo alcuni spunti che restano appena accennati.
data di pubblicazione: 26/10/2018
da Antonella Massaro | Ott 24, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
L’uomo bianco e l’uomo nero, il povero e il ricco, un viaggio insieme alla (ri)scoperta di se stessi, con l’immancabile osmosi di personalità tra due personaggi apparentemente agli antipodi. Green Book, però, è molto di più che un “tradizionale” road movie: è un film che fa bene all’anima e al cinema, con un impareggiabile Viggo Mortensen a fare da protagonista.
Tony Vallelonga, detto Tony Lip (Viggo Mortensen), è un italoamericano che vive nel Bronx dei primi anni Sessanta. Lavora nei locali notturni come “uomo della sicurezza” e, giorno per giorno, cerca il modo di portare a casa quanto necessario ad assicurare a sua moglie Dolores (Linda Cardellini) e ai suoi figli una vita dignitosa: non importa se si tratta di ingurgitare hot dog, di guidare il camion della spazzatura o di “giocare” a dadi o a carte.
Una nuova opportunità di lavoro, però, lo mette di fronte a una scelta per niente scontata: fare da autista al Don Shirley (Mahershala Ali), uno dei pianisti più virtuosi della sua generazione, un uomo colto ed erudito, ma soprattutto un uomo di colore. Lo aspetta una tournée negli Stati del Sud, quelli dove gli avamposti del razzismo sono più difficili da violare: otto settimane lontano da casa, con un “capo nero” da cui prendere ordini, ma con una buona paga pronta a ricompensarlo se l’artista porterà a termine il suo viaggio senza problemi. Dopo qualche esitazione, i due partono a bordo di un’automobile color carta da zucchero, muniti dell’indispensabile “libro verde”: il green book è una sorta di guida turistica, molto diffusa all’epoca, in cui gli afroamericani potevano trovare l’elenco dei ristoranti e degli alberghi a loro “riservati”.
La diffidenza iniziale tra i Tony e Shirley si trasforma progressivamente in empatia. Tony protegge Doc, mentre Doc insegna a Tony a scrivere delle lettere d’amore che non si riducano alla rassegna di quel che mangia a colazione o a pranzo.
Osservando Doc dallo specchietto retrovisore, Tony si accorge fin da subito che la mente del suo compagno di viaggio è affollata da molti pensieri: è quello che succede alle persone intelligenti, e chissà se poi è davvero così divertente essere intelligenti. Il genio e il talento, del resto, sono nulla senza il coraggio: il coraggio di dire no, di scendere dal palco quando le luci dei riflettori diventano dei fari che abbagliano le coscienze, di non rinnegare le proprie origini, ma anche di non lasciarsi ingabbiare dagli stereotipi che in quelle origini affondano le loro solide radici. Il coraggio di non perdere la dignità, di insistere, di resistere, di rinascere.
Ispirato alla storia vera di Tony Lip, padre di uno degli sceneggiatori del film (Nick Vallelunga), Green Book non lascia certo indifferenti. La ricetta del road movieè quella tradizionale: l’uomo bianco e l’uomo nero, il povero e il ricco, un viaggio insieme alla (ri)scoperta di se stessi, con l’immancabile osmosi di personalità tra due personaggi apparentemente agli antipodi. Gli ingredienti, però, sono di prima qualità e riescono a fare la differenza anche in una pellicola che, sulla carta, si candidava a divenire uno degli ennesimi esercizi di un genere cinematografico ormai (fin troppo?) collaudato. La sceneggiatura è coinvolgente e mai banale, i personaggi mostrano sfumature caratteriali indubbiamente interessanti, ma è Viggo Mortensen a rendere Green Book un autentico gioiello: grandioso nella sua interpretazione dell’“uomo straordinariamente comune”, mai sopra le righe eppure capace di “bucare lo schermo”. Senza contare le battute recitate in italiano: meriterebbe un Oscar solo per quelle.
Con Green Book, insomma, si ride, si piange e si riflette, come nelle buone “commedie d’autore” che si rispettino.
data di pubblicazione: 24/10/2018
da Antonella Massaro | Ott 23, 2018
(FESTA DEL CINEMA DI ROMA – 13ma Edizione, 18/28 ottobre 2018)
Il confine tra giusto e sbagliato, tra virtù e peccato, tra educazione e diseducazione è sempre particolarmente labile in una società chiamata a fare i conti con stereotipati pregiudizi e con la paura di ciò che, in un modo o nell’altro, appare “diverso”. The Miseducation of Cameron Post è un affresco delicato e profondo dell’adolescenza vissuta su quel confine: senza morbosa tragicità, ma con realistica “normalità”.
In una Festa del Cinema particolarmente attenta alle tematiche “di genere”, The Miseducation of Cameron Post si colloca dalla prospettiva, ironica ma disillusa, dell’età adolescenziale.
Cameron (una impeccabile Chloë Grace Moretz) è una liceale che cerca di sembrare come tutte le altre ragazzine della sua età, con tanto di brufoloso accompagnatore al ballo della scuola. Intrattiene però una relazione con la coetanea Coley (Quinn Shephard), che fa parte del suo stesso gruppo di studio della Bibbia: è un rapporto coinvolgente e idilliaco, ma quando le due ragazze vengono scoperte, Cameron è costretta a “ricoverarsi” in nella comunità religiosa God’s Promise.
All’interno del centro i ragazzi deviati, affetti dalla sindrome ASS (attrazione per persone dello stesso sesso) o con la passione per le droghe leggere, sono chiamati a un processo di rieducazione che dovrebbe portarli a prendere consapevolezza dei loro peccati e a guarire, con l’aiuto di Dio e dei responsabili della comunità, dalle proprie perversioni.
Il percorso con il quale Cameron è chiamata a confrontarsi si rivela a tratti paradossale. Da una parte, la causa di tutti i mali sembra essere proprio quella famiglia tradizionale, basata su sane relazioni eterosessuali, di cui tutti cantano il mito e che dovrebbe rappresentare la via della salvezza dal peccato. Dall’altra parte, gli educatori, pur ostentando serenità e sicurezza, sono forse più instabili emotivamente degli ospiti che pretenderebbero di rieducare. L’incontro con Jane Fonda (Sasha Lane) e Adam (Forrest Goodluck) servirà a Cameron per portare a termine il suo processo di “diseducazione” e di consapevolezza.
Il film di Desiree Akhavan, vincitore del Gran Premio della Giuria all’ultima edizione del Sundance Festival, è tratto dall’omonimo romanzo di Emily M. Danforth, che ha acceso i riflettori sull’equivoca realtà dei centri di rieducazione americani per ragazzi che di problematico hanno solo i pregiudizi con cui sono chiamati a fare i conti.
I toni del racconto, mai morbosi o eccessivamente cupi, rendono plasticamente la “normalità” di quello che si pretende di additare come anormale, restituendo l’impressione che la realtà distorta e “diseducativa” sia proprio quella attorno a cui è costruito God’s Promise: sono concessi il karaoke con canti religiosi e le rock band che intonano canti al Signore, mentre viene censurata l’innocente e travolgente esibizione di Cameron, che canta a squarciagola sulle note di What’s up.
I personaggi sono caratterizzati con lodevole precisione e il cast funziona in maniera pressoché perfetta. La sequenza finale, poi, vale il film intero.
data di pubblicazione: 23/10/2018
da Antonella Massaro | Mar 22, 2018
La cerimonia dei David di Donatello torna su RAI 1, affidata alla “istituzionale” conduzione di Carlo Conti. In prima serata, come si conviene agli spettacoli che contano.
La cerimonia è impreziosita dai David alla carriera a Stefania Sandrelli, Steven Spielberg e Diane Keaton e, soprattutto, dall’omaggio che le stelle del cinema americano hanno voluto tributare al talento dei cineasti italiani e alla grande bellezza di Roma. Roma che Spielberg vede per la prima volta con la guida illustre di Federico Fellini, Roma che risuona nelle note intonate a cappella da Diane Keaton, Roma che ferita dalla politica non smette di brillare attraverso il cinema.
Trionfo per Ammore e malavita dei Manetti Bros, che, forse a sorpresa, diviene il film mattatore della serata, aggiudicandosi anzitutto il David più prestigioso, quello per il miglior film. Tra gli altri premi conquistati dall’incantevole musical partenopeo, non potevano mancare i David musicali: Pivio e Aldo De Scalzi sono i migliori musicisti e Bang bang (musica di Pivio e Aldo De Scalzi, testo di Nelson, interpretata da Serena Rossi) è la migliore canzone originale.
Il miglior regista è invece Jonas Carpignano per A Ciambra, film premiato anche per il miglior montatore Affonso Gonçalves. Jonas Carpignano, ricevendo il premio da Pierfrancesco Favino, ricorda che ha iniziato a lavorare nel cinema italiano portando sul set il caffè proprio a quello che, oggi, gli porge la preziosa statuetta.
I migliori attori protagonisti della scorsa stagione cinematografica sono Jasmine Trinca (Fortunata) e Renato Carpentieri (La tenerezza). Al discorso orgogliosamente femminile e femminista di Jasmine Trinca, ideale portavoce del movimento “Dissenso comune”, fa da contraltare la (più?) sincera commozione di Renato Carpentieri, che consegna alla cerimonia dei David uno dei messaggi che meglio fotografano la scommessa su cui si gioca il futuro del cinema, non solo italiano: bisogna prendersi qualche rischio, ogni tanto, perché possa venire fuori un bel film.
I premi per i migliori attori non protagonisti vanno a Claudia Gerini per Ammore e Malavita e al Maestro Giuliano Montaldo per Tutto quello che vuoi.
Il David per il miglior regista esordiente è invece assegnato a Donato Carrisi per La ragazza della nebbia.
Susanna Nicchiarelli, dopo il trionfo all’ultima Mostra di Venezia, si aggiudica il premio per la miglior sceneggiatura originale per Nico, 1988, che condivide idealmente con la sua produttrice Marta Donzelli.
Nella giornata dedicata alla vittime innocenti di mafia, assume un significato simbolico il premio per la migliore sceneggiatura originale a Sicilian ghost story, che racconta la storia del piccolo Giuseppe di Matteo.
Gatta Cenerentola conquista il David per il miglior produttore (Luciano Stella e Maria Carolina Terzi per Mad Entertainment e Rai Cinema) e quello per i migliori effetti speciali (Mad Entertainment): la scommessa di un film di animazione italiano, dunque, può dirsi vinta.
Piera Dettassis, neo Presidente dell’Accademia dei David di Donatello, sottolinea la varietà del cinema italiano premiato durante la serata: tanti generi (dall’animazione al cinema del reale), ma anche tante lingue (dai dialetti all’accento “straniero” di Jonas Carpignano). E tante donne, seguendo la scia dei movimenti “Metoo” e “Dissenso comune”. Del resto “La regia è femmina!”, ricorda Anselma dell’Olio ritirando il premio per La lucida follia di Marco Ferreri, miglior documentario. Il cinema deve solo accorgersene.
Riportiamo qui di seguito l’elenco completo dei premi assegnati:
Miglior film: Ammore e malavita, regia di Manetti Bros.
Miglior regista: Jonas Carpignano con A Ciambra
Miglior regista esordiente: Donato Carrisi per La ragazza nella nebbia
Migliore sceneggiatura originale: Susanna Nicchiarelli per Nico, 1988
Migliore sceneggiatura adattata: Fabio Grassadonia e Antonio Piazza per Sicilian Ghost Story
Miglior produttore: Luciano Stella e Maria Carolina Terzi per Mad Entertainment e Rai Cinema per Gatta Cenerentola
Migliore attrice protagonista: Jasmine Trinca per Fortunata
Miglior attore protagonista: Renato Carpentieri per La tenerezza
Migliore attrice non protagonista: Claudia Gerini per Ammore e Malavita
Miglior attore non protagonista: Giuliano Montaldo per Tutto quello che vuoi
Migliore autore della fotografia: Gian Filippo Corticelli per Napoli velata
Miglior musicista: Pivio e Aldo De Scalzi con Ammore e malavita
Migliore canzone originale: Bang bang (musica di Pivio e Aldo De Scalzi, testo di Nelson, interpretata da Serena Rossi) con Ammore e malavita
Miglior scenografo: Deniz Gokturk Kobanbay, Ivana Gargiulo per Napoli Velata
Miglior costumista: Daniela Salernitano per Ammore e malavita ex-aequo Massimo Cantini Parrini per Riccardo va all’inferno
Miglior truccatore: Marco Altieri per Nico, 1988
Miglior acconciatore: Daniela Altieri per Nico, 1988
Miglior montatore: Affonso Gonçalves per A Ciambra
Miglior suono: Adriano Di Lorenzo, Alberto Padoan, Marc Bastien, Éric Grattepain, Franco Piscopo per Nico, 1988
Migliori effetti digitali: Mad Entertainment per Gatta Cenerentola
Miglior documentario di lungometraggio: La lucida follia di Marco Ferreri di Anselma Dell’Olio
Miglior cortometraggio: Bismillah di Alessandro Grande.
Miglior film dell’Unione Europea: The Square
Miglior film straniero: Dunkirk
David speciale Life Achievement Award 2018:: Steven Spielberg
David speciale: Stefania Sandrelli
David speciale: Diane Keaton
data di pubblicazione: 22/03/2018
da Antonella Massaro | Feb 9, 2018
La sofferenza del processo creativo di un artista geniale, ma anche la sua fragilità emotiva e sentimentale. Il “ritratto” di Alberto Giacometti, tratteggiato con sapiente maestria da Stanley Tucci, è un affresco potente e, al tempo stesso, delicato di uno degli artisti più rappresentativi del secolo scorso.
James Lord (Armie Hammer, nelle sale anche per Chiamami col tuo nome), giovane scrittore americano in visita a Parigi, incontra Alberto Giacometti (Geoffrey Rush), pittore e scultore svizzero: la parabola umana di Giacometti sta volgendo al termine, ma la sua fama gode già di quel clamore che, consolidatosi nei decenni successivi, lo collocherà tra gli artisti maggiormente rappresentativi del Novecento.
Giacometti chiede a Lord di posare per un ritratto. Il giovane accetta con orgoglioso entusiasmo, ma ancora non sa quanto faticoso possa risultare il ruolo del “modello” di Giacometti. Come una bizzarra Penelope (così, sulle pagine di Accreditati, Kalibano), l’artista disfa continuamente quella che già sembrerebbe una pregevole opera d’arte. Il successo, del resto, è il terreno migliore sul quale coltivare i dubbi, anche se la perenne insoddisfazione di Giacometti diviene il motore più propulsivo della sua creatività artistica.
Accanto all’arte, c’è poi la vita privata di Giacometti. Il talento artistico è inversamente proporzionale alla maturità sentimentale ed emotiva: la sua musa ispiratrice è una prostituta (Clémence Poésy), ma Alberto non potrebbe fare a meno della moglie (Sylvie Testud) e del fratello (Tony Shalhoub), che lo supportano e lo sopportano con benevola comprensione. Il binomio “genio e sregolatezza” si trova ridotto a quello, più prosaico, “genio e fragilità emotiva”.
Con Final Portait, presentato fuori concorso alla scorsa edizione della Berlinale e tratto dal libro Ritratto di Alberto Giacometti scritto dallo stesso James Lord, il regista Stanley Tucci conduce lo spettatore nell’atelier bohémien di Giacometti e, soprattutto, tra le pieghe affascinanti e misteriose del processo creativo che guida la mente e le mani di un genio. Non si tratta di un biopic, come chiarisce il regista durante l’incontro con la stampa presso il cinema Quattro Fontane di Roma: un biopic rischia di ridursi a una mera carrellata asettica di fatti, mentre in questo caso è la “straordinaria quotidianità” dell’artista che emerge prepotentemente dallo schermo.
Geoffrey Rush è semplicemente perfetto mentre lascia correre le mani lungo le linee, ormai celeberrime, di quelle sculture filiformi fuori dal tempo e mentre riproduce la instabile emotività di Giacometti, all’inizio affabile e persino ironico, poi nevrotico, ansioso e depresso.
I movimenti di camera, mai eccessivi, conferiscono dinamismo all’immagine statica dell’atelier polveroso eppure splendente.
Una prova convincente, dunque, quella di Stanley Tucci e un film che certamente non lascia indifferenti.
data di pubblicazione: 9/2/2018
Scopri con un click il nostro voto:
Gli ultimi commenti…