da Antonella Massaro | Mag 9, 2020
In questi primi del 2020, segnati da una pandemia che ha costretto all’inerte immobilismo persino l’industria cinematografica, anche David di Donatello si sono visti costretti a cambiare veste.
Originariamente programmata per il 3 aprile, la cerimonia di premiazione della 65ª edizione dei David si è svolta ieri sera.
The show must go on, ma senza pubblico e con pochissimi applausi.
Carlo Conti da solo sul palco, raggiunto a fine serata da Piera Detassis, annuncia i premi con solenne sobrietà, cercando (e trovando) nella sua conduzione un equilibrio certamente adeguato alla particolarità di uno spettacolo forzosamente dimidiato.
Collegati dalle loro case, ci sono alcuni dei candidati: solo quelli, ovviamente, i cui nomi e i cui volti sono più riconoscibili al grande pubblico, anche se ciascuno di loro si preoccupa di ricordare il lavoro di chi “c’è, ma non si vede” e che, in questo momento, sente stretta attorno al collo la morsa di una crisi economica che sta iniziando a mostrare i suoi denti più affilati.
Colpisce e stupisce, anzitutto, la difficoltà ad apparire in video, dalla normalità delle proprie case, da parte di quelli che pure sono professionisti dell’immagine: non tutti hanno una connessione e/o una telecamera adeguata, qualcuno fatica (incredibile a dirsi!) a trovare un’inquadratura e uno sfondo decenti, proprio come, almeno una volta, sarà capitato a molti di noi in questi mesi di “lavoro da casa”.
L’irruzione di fronte alla web cam delle famiglie dei premiati (Anna Ferzetti per festeggiare Pierfrancesco Favino, i parenti di Marco Bellocchio, i figli di Luigi Lo Cascio e di Jasmine Trinca) restituisce almeno un briciolo di quell’emozione, sia pur in versione casalinga, che si addice alle grandi occasioni.
Il trionfatore di questa edizione dei David di Donatello è certamente Il Traditore di Marco Bellocchio, con quella storia di Tommaso Buscetta che, evidentemente, non ha ancora finito di raccontare gli snodi di una vicenda che ha segnato per sempre la storia dell’antimafia.
Il Traditore è il miglior film, Marco Bellocchio è incoronato miglior regista e Pierfrancesco Favino, alla sua prima nomination per questa categoria, si aggiudica la palma di miglior attore protagonista e Luigi Lo Cascio porta a casa la statuetta per come miglior attore non protagonista. Il Traditore vince anche il premio per la miglior sceneggiatura originale e quello di Francesca Calvelli è il miglior montaggio. Insomma, un successo trasversale ed evidente per il film di Bellocchio, che esulta “rivendicando” i suoi 80 anni e l’imperituro desiderio di continuare a girare film in cui crede.
La miglior attrice protagonista è un’emozionatissima Jasmine Trinca per La Dea Fortuna, mentre il premio per la miglior attrice non protagonista se lo aggiudica una onnipresente Valeria Golino per 5 è il numero perfetto.
Il primo re, nominato in molte categoria, conquista i premi per la miglior produzione e per la miglior fotografia (quella di Daniele Ciprì).
Pinocchio si porta a casa i principali premi legati all’ “immagine del film” (scenografia, costumi, truccatore, acconciatore).
Il miglior film straniero è Parasite, mentre il miglior regista esordiente è Phaim Bhuiyan per Bangla.
Tra i momenti più significativi della serata, c’è sicuramente il riconoscimento alla carriera per Franca Valeri, che compie anche i suoi primi 100 anni.
Qui di seguito si riporta l’elenco completo dei vincitori, con la speranza che la stagione cinematografica, in un modo o nell’altro, riesca a ripartire e a riaccendere gli schermi (non solo quelli dei computer o delle televisioni).
Miglior Film: Il Traditore
Miglior Regista: Marco Bellocchio
Miglior Regista Esordiente – Premio Gian Luigi Rondi: Phaim Bhuiyan
Migliore Sceneggiatura Originale: Il Traditore
Miglior Sceneggiatura Non Originale: Martin Eden
Migliore Produttore: Il primo Re
Miglior Attore Protagonista: Pierfrancesco Favino
Migliore Attrice Protagonista: Jasmine Trinca
Migliore Attrice Non Protagonista: Valeria Golino
Miglior Attore Non Protagonista: Luigi Lo Cascio
Miglior Fotografia: Daniele Ciprì
Migliore Musicista: Il Flauto Magico di Piazza Vittorio
Miglior Canzone Originale: La dea fortuna
Migliore Scenografo: Dimitri Capuani
Migliori Costumi: Massimo Cantini Parrini
Miglior Truccatore: Dalia Colli e Mark Coulier
Miglior Acconciatore: Francesco Pegoretti
Migliore Montatore: Francesca Calvelli
Miglior Suono: Il primo re
Migliori Effetti Visivi: Theo Demeris e Rodolfo Migliari
Miglior Documentario: Selfie
Miglior Film Straniero: Parasite
Miglior Cortometraggio: Inverno
David Giovani: Mio fratello insegue i dinosauri
data di pubblicazione: 9/5/2020
da Antonella Massaro | Mag 9, 2020
L’emergenza Coronavirus, si è detto e scritto in questi mesi, ha plasmato la realtà secondo un copione che credevamo possibile mettere in scena solo nell’universo immaginifico del grande schermo.
Proprio del cinema, caledoiscopico produttore di storie, si inizia a sentire l’insopportabile mancanza, in un mondo regolato dal distanziamento sociale e in cui il respiro di ciascuno di noi, lungi dall’incarnare il proverbiale alito di vita, diviene potenziale veicolo di morte.
Si tratta, pare opportuno precisarlo, di una questione che riguarda chi il cinema lo guarda, ma anche e soprattutto chi il cinema lo fa. Ogni emozione di cui lo spettatore viene privato equivale a un danno economico per artisti, maestranze, produttori e distributori che risulta ancora difficile quantificare, soprattutto nel medio e lungo periodo.
Ieri sera, durante la cerimonia per l’attribuzione dei David di Donatello consegnati virtualmente e silenziosamente (quasi sommessamente), il ministro Dario Franceschini non è andato molto al di là di quel “stiamo facendo tutto il possibile” che ormai suona come un impotente palliativo di chi fatica a intravedere e a (ri)costruire il futuro.
Cerchiamo, allora, di fare un po’ di chiarezza.
Dal 18 maggio riprenderanno le proiezioni telematiche. Riapriranno, insomma, solo le porte virtuali, riservate, vale la pena precisarlo, a chi disponga di una connessione internet quanto meno decente.
Il progetto, capitanato da LuckyRed, si avvale del supporto digitale di MyMovies e consiste, essenzialmente, nell’apertura di un canale streaming dove saranno disponibili in anteprima alcuni dei film la cui uscita in sala era prevista in questo periodo.
Si paga un biglietto e, all’orario stabilito, inizia la “proiezione”. Tra i primi film disponibili ci sono I Miserabili, Il matrimonio, Il meglio deve ancora venire e Matthias &Maxime.
Solo le produzioni più “strutturate” potranno ambire a una proiezione anche in sala, mentre per gli altri il passaggio in streaming sarà la sola realistica prospettiva.
Il progetto è indubbiamente interessante, specie per evitare che l’emergenza di questo periodo si traduca in un definitivo consolidamento dello strapotere di Netflix&Co, dal quale certamente derivano effetti virtuosi, ma che corre il rischio di staccare la spina alla magia della proiezione in sala, già da tempo in evidente sofferenza.
La speranza, allora, diviene quella di veder scendere in campo anche il Governo, con progetti concreti e non solo evanescenti rassicurazioni, capaci di tornare a somministrare agli spettatori quella medicina del sogno che ai professionisti del cinema garantisce la prospettiva di una vita dignitosa.
data di pubblicazione: 9/05/2020
da Antonella Massaro | Nov 21, 2019
L’affaire Dreyfus, una delle pagine più celebri della storia (non solo) francese, diviene la perfetta trasposizione cinematografica di una vicenda senza tempo, in cui le cadenze del film storico si fondono a quelle del legal thriller e in cui ogni ingrediente del racconto contribuisce in maniera determinante alla composizione di un mosaico potente ed elegante.
Parigi, 1894. Nella Francia ancora logorata dalla guerra con la Prussia, la “Sezione di statistica” (ovvero i servizi segreti francesi) si muove alla spasmodica ricerca di spie al soldo dell’Impero Tedesco. Tra i sospettati c’è anche Alfred Dreyfus (Louis Garrel), ufficiale di artiglieria che corrisponde esattamente al profilo del traditore ricercato e che, soprattutto, è un ebreo. A seguito di un processo sommario, Dreyfus viene condannato alla degradazione e alla deportazione nella famigerata Isola del Diavolo. Tra coloro che infliggono la condanna esemplare c’è anche il colonnello Georges Picquart (Jean Dujardine), che di lì a poco si trova inaspettatamente a capo proprio della Sezione di statistica per sostituire l’ormai malato predecessore. Attraverso il nuovo incarico Picquard prenderà consapevolezza di quanto sbrigative siano state le indagini condotte a carico di Dreyfus e a quel punto si troverà di fronte a un conflitto interiore che vede opposti la fedeltà all’Esercito e il senso di Giustizia.
L’affaire Dreyfus rappresenta certamente una delle pagine più note della storia mondiale, che nella versione cinematografica di Roman Polanski è raccontata dall’ottica del colonnello Picquard, offrendo una prospettiva indubbiamente peculiare e, per certi aspetti, originale. Il celeberrimo articolo di Émile Zola, pubblicato nel 1897 da Le Figaro e divenuto con il tempo l’emblema evocativo della libertà di stampa, funziona sul piano narrativo come momento di svolta: il processo a Zola si traduce, di fatto, nella revisione del (non) processo celebrato nei confronti di Dreyfus, innescando una tanto progressiva quanto faticosa presa di coscienza in un caso in cui il “codice d’onore” militare e i pregiudizi razziali hanno finito per prevaricare le più elementari garanzie cui il processo penale post-illuminista è ispirato.
Il legal thriller di Polanski centra perfettamente l’obiettivo: la meticolosa ossessione per ogni dettaglio, unita a una scrittura che scandisce millimetricamente l’andamento della storia e impreziosita dalle musiche di Alexandre Desplat, offre un affresco potente di un caso destinato a divenire un simbolo. Si rivela convincente anche la scelta di girare il film in lingua francese, malgrado il progetto iniziale prevedesse una più internazionale versione inglese.
Inutile chiedersi quanto di Roman Polanski ci sia in Alfred Dreyfus, così come inutile sarebbe “contestualizzare” (ancora una volta) la scelta di inserire J’accuse (titolo originale del film) nella selezione ufficiale di una Mostra cinematografica come quella di Venezia che, almeno “a parole”, ha fatto della questione femminile una delle bandiere di questa edizione. Ciò che importa è che lo sforzo produttivo, visibile fin dalla prima scena del film e che molto deve all’impegno alla lungimiranza made in Italy di Luca Barbareschi e di Rai Cinema, abbia condotto a un prodotto dalla cifra artistica brillante e prepotente. Un racconto storico che scuote le coscienze, mai didascalico eppure capace di impartire più di una lezione allo spettatore disposto ad ascoltarla.
data di pubblicazione:21/11/2019
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da Antonella Massaro | Set 27, 2019
Un padre e un figlio accomunati dalla passione e dalla dedizione per la scoperta dello Spazio. Una minaccia, proveniente dal passato, che rischia di distruggere il futuro del Pianeta Terra. Un dramma intimista e psicologico proiettato nell’infinità dell’Universo.
Roy McBride (Brad Pitt) è un astronauta impeccabile: esperto, coraggioso, con il battito cardiaco che resta regolare anche quando precipita da una stazione spaziale per approdare sano e salvo sulla Terra. Quella stessa Terra che, neanche a dirlo, rischia di scomparire per una minaccia proveniente dallo Spazio più profondo. Si tratta di qualcosa che ha a che vedere con il padre di Roy (Tommy Lee Jones), autentica leggenda per le successive generazioni di astronauti e scomparso misteriosamente dopo un progetto destinato a spingersi fino ai confini del Sistema solare, oltre le colonne d’Ercole dello Spazio conosciuto e conoscibile. Suo figlio è il solo davvero in grado di chiudere quel cerchio, intraprendendo una missione che dovrebbe condurlo a salvare la Terra, ma durante la quale dovrà prima di tutto salvare se stesso.
Ad astra, presentato all’ultima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, si colloca sulla scia di quella fantascienza “spaziale” che già con Gravity e First man è stato protagonista al Lido negli scorsi anni. Il tormento individuale di un uomo, consumato nelle dimensioni incommensurabili dell’Universo, si proietta sullo sfondo di un futuro (forse immaginato come non così remoto) nel quale andare sulla Luna somiglia molto a un viaggio con un volo low cost, per poi ritrovare sul nostro satellite, deprivato della poesia che lo ha reso celebre, tutte le storture del mondo contemporaneo: dalle insegne accattivanti dei mega stores alla criminalità violenta e spregiudicata.
Ad astra, tuttavia, sembra fermarsi a metà dell’opera. Malgrado alcune scelte senza dubbio apprezzabili sul piano estetico e nonostante la recitazione intensa e introspettiva di Brad Pitt (che è anche il produttore del film), il racconto di James Gray non riesce a sviluppare fino in fondo il dramma esistenziale dell’ennesima vittima del complesso di Edipo, che dietro la maschera imperturbabile di lucido dominatore delle proprie emozioni nasconde “solamente” la paura di restare solo. La storia, impreziosita da personaggi minori affidati ad interpreti di eccezione (Donald Sutherland, Liv Tyler, Ruth Negga) si regge spesso su passaggi banali o decontestualizzati e il confronto con alcuni capisaldi del genere, a partire dal “citato” 2001: Odissea nello spazio, rischia di risultare impietoso.
Insomma: un esperimento interessante, ma non perfettamente riuscito.
data di pubblicazione: 27/9/2019
Scopri con un click il nostro voto:
da Antonella Massaro | Set 1, 2019
(76. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia)
L’affaire Dreyfus, una delle pagine più celebri della storia (non solo) francese, diviene la perfetta trasposizione cinematografica di una vicenda senza tempo, in cui le cadenze del film storico si fondono a quelle del legal thriller e in cui ogni ingrediente del racconto contribuisce in maniera determinante alla composizione di un mosaico potente ed elegante.
Parigi, 1894. Nella Francia ancora logorata dalla guerra con la Prussia, la “Sezione di statistica” (ovvero i servizi segreti francesi) si muove alla spasmodica ricerca di spie al soldo dell’Impero Tedesco. Tra i sospettati c’è anche Alfred Dreyfus (Louis Garrel), ufficiale di artiglieria che corrisponde esattamente al profilo del traditore ricercato e che, soprattutto, è un ebreo. A seguito di un processo sommario, Dreyfus viene condannato alla degradazione e alla deportazione nella famigerata Isola del Diavolo. Tra coloro che infliggono la condanna esemplare c’è anche il colonnello Georges Picquart (Jean Dujardine), che di lì a poco si trova inaspettatamente a capo proprio della Sezione di statistica per sostituire l’ormai malato predecessore. Attraverso il nuovo incarico Picquard prenderà consapevolezza di quanto sbrigative siano state le indagini condotte a carico di Dreyfus e a quel punto si troverà di fronte a un conflitto interiore che vede opposti la fedeltà all’Esercito e il senso di Giustizia.
L’affaire Dreyfus rappresenta certamente una delle pagine più note della storia mondiale, che nella versione cinematografica di Roman Polanski è raccontata dall’ottica del colonnello Picquard, offrendo una prospettiva indubbiamente peculiare e, per certi aspetti, originale. Il celeberrimo articolo di Émile Zola, pubblicato nel 1897 da Le Figaro e divenuto con il tempo l’emblema evocativo della libertà di stampa, funziona sul piano narrativo come momento di svolta: il processo a Zola si traduce, di fatto, nella revisione del (non) processo celebrato nei confronti di Dreyfus, innescando una tanto progressiva quanto faticosa presa di coscienza in un caso in cui il “codice d’onore” militare e i pregiudizi razziali hanno finito per prevaricare le più elementari garanzie cui il processo penale post-illuminista è ispirato.
Illegal thrillerdi Polanski centra perfettamente l’obiettivo: la meticolosa ossessione per ogni dettaglio, unita a una scrittura che scandisce millimetricamente l’andamento della storia e impreziosita dalle musiche di Alexandre Desplat, offre un affresco potente di un caso destinato a divenire un simbolo. Si rivela convincente anche la scelta di girare il film in lingua francese, malgrado il progetto iniziale prevedesse una più internazionale versione inglese.
Inutile chiedersi quanto di Roman Polanski ci sia in Alfred Dreyfus, così come inutile sarebbe “contestualizzare” (ancora una volta) la scelta di inserire J’accuse nella selezione ufficiale di una Mostra che, almeno “a parole”, ha fatto della questione femminile una delle bandiere di questa edizione. Ciò che importa è che lo sforzo produttivo, visibile fin dalla prima scena del film e che molto deve all’impegno alla lungimiranza made in Italy di Luca Barbareschi e di Rai Cinema, abbia condotto a un prodotto dalla cifra artistica brillante e prepotente. Un racconto storico che scuote le coscienze, mai didascalico eppure capace di impartire più di una lezione allo spettatore disposto ad ascoltarla.
data di pubblicazione: 31/08/2019
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