da Antonella Massaro | Ott 18, 2014
(Festival Internazionale del Film di Roma 2014 – Cinema d’oggi)
Le bugie dei vincitori diventano la verità per i perdenti, che, sistemati attorno al tavolo con la convinzione di essere scaltri giocatori, si scoprono all’improvviso cieche pedine nella mani di chi lancia i dadi truccati. La bugia/verità può essere scritta su un libro di storia. O sulla prima pagina di un giornale. L’importante è che risulti credibile.
L’intreccio tra potere politico e potere economico, fatto di messe in scena minuziosamente orchestrate e capace persino di scomodare l’Unione europea per smaltire più comodamente quei rifiuti pericolosi divenuti una delle metafore più potenti dei nostri tempi, mostra una straordinaria attitudine a incantare il grande schermo e i suoi spettatori. Specie quando l’indagine viene condotta da due giornalisti giovani e belli, inevitabilmente destinati all’attrazione (fatale?). Due inviati molto tedeschi e non troppo speciali, che quasi fanno rimpiangere i tempi in cui, alle prese con intrighi e sentimenti, c’erano Nick Nolte e Julia Roberts.
Ogni regola, in effetti, ha le sue eccezioni. Senza contare che il confronto con un genere tanto sperimentato rischia di rivelarsi assai simile a un salto nella fossa dei leoni, attorno al quale, forse non a caso, ruota l’intreccio di The lies of the victors di C. Hochhäusler, che sembrerebbe proprio la classica eccezione alla regola del thriller politico in grado di travolgere con il suo ritmo incalzante. La storia, penalizzata da un avvio lento e macchinoso e infarcita da qualche stereotipo di troppo, lascia un senso di incompiuto che neppure la lapalissiana chiave di lettura, chiara fin dal titolo ed esplicitata a scanso di equivoci nel finale, riesce a colmare.
data di pubblicazione 18/10/2014
da Antonella Massaro | Set 18, 2013
Corpo a anima il teatro di Emma Dante. Ombre e luci, tenebre e colori, frastuono e silenzio, scherzo e tragedia, vita e morte ne Le sorelle Macaluso. Una storia come tante raccontata in modo unico. Con quell’impeccabile unicità che solo chi ha guardato in faccia l’arte è in grado di far intravedere al suo pubblico. Una famiglia. Delle visioni parziali che lentamente si ricompongono in unità. Le parole non dette finalmente urlate. Ognuno ha un posto assegnato, nella scena e nella vita. Ognuno si porta dietro il suo carico di senso di colpa (che in qualche caso è mera responsabilità oggettiva!), il suo rancore, la sua frustrazione. In una parola: la sua vita. Quella vita in cui si combatte, con tanto di spade e scudi, quella vita in cui si gioca, si soffre, si canta, si piange, si danza. Siamo liberi, eppure attaccati a fili invisibili che ci fanno muovere come tanti pupi siciliani. Siamo insieme, eppure confinati in un inespugnabile solipsismo eterodiretto, con l’impressione che alla fine siano sempre “gli altri” a emettere la condanna alla nostra solitudine. Senza possibilità d’appello. Senza poter più fermarsi a contemplare il sole che brilla sul mare. Con la capacità di guardare davvero il cielo quando ormai siamo definitivamente finiti dietro le sbarre. Senza indulto e senza amnistia.
Non c’è scenografia, i cambi di costume avvengono sulla scena, la fisicità degli attori travolge lo spettatore che, nel buio del Palladium, si affida senza riserve a quella “sospensione dell’incredulità” grazie alla quale il teatro (e il cinema) divengono affascinante anello di congiunzione tra la realtà e il sogno.
data di pubblicazione 15/10/14
Il nostro voto:
da Antonella Massaro | Set 18, 2013
Il viaggio come metafora della vita è la chiave di lettura lapalissianamente esibita nel film di Maria Sole Tognazzi. C’è poco da interpretare nelle intenzioni dell’(ex) enfant (mai davvero) prodige, che dismette i panni dell’intellettuale a tutti i (radical) costi per confezionare un prodotto che, pur senza eccessive pretese, si rivela nel complesso garbato, a tratti piacevole, con improvvisi e taglienti guizzi nei dialoghi, con una Margherita Buy in splendida forma, fisica e artistica. Forse non meritava proprio tutti i finanziamenti pubblici che scorrono nei titoli di testa, ma l’elegante confezionamento dei titoli di coda, al quale va riconosciuto l’impagabile merito di impedire che le luci in sala si alzino prima della FINE del film, assolve persino il peccato originale di un’Italia che proprio non può fare a meno di cedere alle lusinghe del (cog)nome d’arte.
Margherita-Ulisse-Buy “vive” nei più lussuosi alberghi del mondo, senza mai fermarsi in una “casa” tutta sua, senza mai provare a costruirsi un Mulino Bianco decrepito e abbandonato, ma protetto e nascosto da solide pareti, ispessite dalla rassicurante fissità delle convenzioni sociali. È ospite sporadica nelle case (e nelle vite) degli altri. È spettatrice di una normalità che la affascina e la spaventa, la attrae e la respinge. Questa casa non è un albergo. Questo albergo non è una casa. Questo albergo è un palcoscenico. Basta indossare la maschera e recitare un ruolo. Lo fanno tutti in fondo. Solo che lei ne è fin troppo consapevole e non trova nulla di meglio da fare che recensire il ruolo degli altri, affidando la sua tagliente critica a ossessivi questionari, pieni zeppi di dettagli che non fanno la differenza.
Fino a quando la casa irrompe nell’albergo, le assi del palcoscenico scricchiolano facendolo sprofondare nella vita. E allora una mamma torna a essere una zia. Una donna libera torna a essere una donna sola.
I personaggi che orbitano attorno agli occhi verdi di Margherita Buy sono appena abbozzati, rientrando fin troppo bene in quegli stereotipi che in fondo accolgono con straordinaria generosità chiunque ne faccia richiesta. L’ozpektiano duo delle meraviglie Buy-Accorsi cerca di ricomporsi, nella locandina e nello schermo. Anche se non sono più i tempi di una volta.
Nulla di nuovo, poco di originale. Ma l’assillante interrogativo Chi avviserebbero se mi succedesse qualcosa?, in fondo, si insinua nella mente dello spettatore anche se scevro (o forse soprattutto perché scevro) dalle cedenze retoriche dell’intellettuale a tutti i (radical) costi.
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da Antonella Massaro | Set 18, 2013
(Festival di Cannes 2013, Sezione Un Certain Regard)
Valeria Golino passa dall’altra parte della macchina da presa con un film dolcemente amaro (o amaramente dolce), come il retrogusto di un certo Miele che impatta, abbondante e improvviso, sulle pareti di un palato inaridito, la cui unica missione è quella di prepararsi ad assaporare il gusto della fine.
Il film, ispirato al romanzo Vi perdono di Angela Del Fabbro (pseudonimo di Mauro Covacich), si confronta con un tema che smuove e commuove, inquadrato da Valeria Golino da una prospettiva certamente non convenzionale e raccontato con un linguaggio “laico”, che pure riesce a mettere a fuoco in modo straordinariamente preciso i nodi ancora irrisolti della dolce morte, tanto come questione morale quanto come questione giuridica.
Una superba Jasmine Trinca, trasformata nel corpo e nell’anima, indossa (letteralmente) i panni di un pietoso Angelo della morte, ma l’incontro con l’ingegner Grimaldi (interpretato da un impeccabile Carlo Cecchi), malato “solo” nell’anima, fa deflagrare in maniera assordante quei dubbi che da tempo accelerano il battito del cuore di Miele.
Da una parte una questione che non è (solo) giuridica, ma che la legge non può più permettersi di ignorare: uno spazio libero dal diritto troppo spesso riempito dall’incontrollabile arbitrio dell’opportunità morale. Dall’altra parte l’indefinibile confine tra la vita del corpo e quella dell’anima: l’illusione della libertà di scelta, che vacilla in quei tre (così poco?) minuti finali, che si dissolve nelle note dell’ultima canzone, che la freddezza del protocollo non riesce a mascherare, che i fumi del Cointreau e della Vodka non riescono a stordire. Perché siamo sempre in tempo per fermarci ma alla fine nessuno vuole morire davvero. Perché di fronte al bivio tra il darsi la morte come animali e il vivere senza umanità non esiste una scelta “giusta”.
L’immancabile trauma infantile subito dalla protagonista e la forse troppo ingenua scena finale non compromette la solida tenuta di un promettente esordio.
Giudizio sintetico: Miele che non smiela.
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da Antonella Massaro | Set 18, 2013
Paolo Virzì torna al cinema con un film corale, che parla di new economy per raccontare l’Italia di sempre, rappresenta la crisi di quel capitale umano che nessun esperto di finanza sarà mai in grado di monetizzare e di mettere a bilancio.
La storia è al tempo stesso una e trina, con i diversi capitoli che, dipanandosi dall’incidente iniziale, fanno muovere sulla scena tanti burattini tenuti in piedi da sentimenti da “dilettanti” allo sbaraglio (come urla Luigi Lo Cascio), con la perenne paura di diventare attori professionisti di una vita dal copione troppo impegnativo per essere recitato come pure meriterebbe.
Malgrado qualche inserto gratuitamente retorico, a partire dall’usurata metafora del teatro in declino e in attesa di un’utopica ristrutturazione, Virzì resta il solito perfetto burattinaio nel dirigere gli abitanti di quel teatro decadente.
I buoni sentimenti prepotentemente trionfanti nel buio degrado di un carcere, mentre intorno la neve si scioglie e il sole lascia brillare le carrozzerie fuoriserie e i sorrisi di chi, quando gli affari vanno bene, si accontenterebbe anche del bastoncino di un cane, concludono il capitolo finale con un happy end tanto amaro quanto ingenuo e obiettivamente poco credibile.
Giudizio sintetico: avete scommesso sulla rovina di questo Paese e avete vinto.
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