VERGINE GIURATA di Laura Bispuri, 2015

VERGINE GIURATA di Laura Bispuri, 2015

Le montagne fredde e innevate dell’Albania. Una bambina rimasta orfana salvata da un uomo in grado di divenire la sua finestra sul mondo e, al tempo stesso, le sbarre che le impediscono di prendersi il mondo pulsante al di fuori di quella finestra. È un misto di Georgie e Lady Oscar la piccola Hana, la quale, crescendo, assume i lineamenti mascolinamente femminili di Alba Rohrwacher e carica sulle sue gracili spalle il peso di quella roccia che a un certo punto “sceglie” di diventare. In una società retta da un modello familiare e sociale integralmente e incondizionatamente patriarcale la donna non può davvero scegliere. Non può bere, non può contraddire, non può fumare, non può essere libera (anche solo di non essere qualcosa di chiaramente definito). L’alternativa è scendere dalle montagne e lasciarsi trascinare via dalle onde del mare, come fa Lila, la sorella di Hana, schivando la pallottola del matrimonio combinato che vorrebbero piantarle nel cuore; oppure restare, come fa Hana, invocando la tutela offerta dal Kanun, legge non scritta eppure in grado di assumere quella forza di indiscussa e indiscutibile inderogabilità che solo le leggi non scritte sono in grado di vedersi riconosciuta senza bisogno di tribunali e di sentenze. Hana giura di restare vergine. Che vuol dire non solo rinunciare alla propria sessualità, ma anche al proprio nome, al proprio corpo, alla propria pelle, al proprio sguardo. Quando entrambi i genitori muoiono, quando sulle montagne la neve inizia a sciogliersi, Hana “sceglie” però di scivolare a valle. Di cercare sua sorella. Di allentare gradualmente la pressione di quella fascia che le comprime il seno. Di specchiarsi nelle acque di una piscina capace di tenere a galla i corpi (e le anime) più diversi. Di sorridere di fronte a quelle parole “mai dette e scritte male” che proiettano la sua vicenda particolare sul più ampio schermo di una, per dir così, “condizione femminile” capace di andare ben oltre i confini segnati dai monti albanesi.
Una storia indubbiamente potente, ispirata al romanzo omonimo di Elvira Dones e che segna l’esordio cinematografico di Lucia Bispuri, tenuta a battesimo dalla buona accoglienza riservatale all’ultimo Festival di Berlino. Sebbene il messaggio e la “morale” si rivelino, almeno a tratti, didascalicamente esibiti, lasciando in troppo evidente superficie l’avvio di una complessa e per nulla scontata metamorfosi, Vergine giurata resta un film armoniosamente composto nella convincente alternanza spazio-temporale che scandisce il racconto, con un’essenzialità dei dialoghi tesa a valorizzare l’eloquenza delle immagini e la dinamica fissità dello sguardo di Alba Rohrwacher, costante e rassicurante certezza del cinema italiano degli ultimi anni (Coppa Volpi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia per Hungry Hearts di Saverio Costanzo).

data di pubblicazione 23/03/2015


Scopri con un click il nostro voto:

NOI E LA GIULIA di Edoardo Leo, 2015

NOI E LA GIULIA di Edoardo Leo, 2015

La storia uscita dalla penna di Marco Bonini e da quella di Edoardo Leo (che poi assume anche il compito di dirigerla) non si caratterizza certo per tratti originali, almeno per come si mostra nella sua struttura essenziale. Tre quarantenni (Luca Argentero, Edoardo Leo e Stefano Fresi), legati dai lacci sempre più soffocanti di famiglie e lavori che li stanno inevitabilmente conducendo sull’orlo del fallimento umano e/o economico, si ritrovano per caso di fronte a un casale dall’affascinante bellezza decadente. Troppo caro per ciascuno di loro, ma alla portata di tutti e tre messi insieme. Spinti da quell’alito di lucida irrazionalità che accarezza chiunque abbia sperimentato nella propria vita il brivido di una “vera scelta”, decidono di mettersi in società, per provare a risorgere insieme da quelle macerie.
Il primo tocco di inconfondibile “italianità” sta nella decisione di aprire un agriturismo, moda e chimera degli ultimi decenni di turismo “fatto in casa”. Il secondo tocco sta nell’incontro scontro con la camorra, con il pizzo e con le mazzette, cifra caratterizzante di un Paese in cui un sogno ha lo stesso prezzo di un televisore al plasma, da acquistare rigorosamente nel “negozio di fiducia” suggerito dai vigili urbani incaricati di rilasciare i permessi necessari per l’apertura.
Una vecchia Giulia, indimenticato simbolo dell’ottimistica Italia del boom economico, con il suo stereo difettoso, diviene la “base” (in senso tanto letterale quanto metaforico) sulla quale i tre sognatori cercheranno di edificare la propria “resistenza”. Tutto ciò supportato dal convincente contributo di Claudio Amendola, nostalgico di falce e martello (in senso tanto letterale quanto metaforico), di Anna Foglietta e di Claudio Buccirosso, i quali sostengono egregiamente l’impegno di una recitazione marcatamente caricaturale, senza (quasi) mai trascendere nella macchietta fine a se stessa.
Di certo non mancano spunti interessanti nella scrittura di un genere, quello della commedia, che sembra attraversare un periodo di autentica stagnazione, ma l’impressione resta quella di un film che non riesce a ingranare la marcia giusta della Giulia, passando da brusche accelerazioni ad altrettanto bruschi rallentamenti e impantanandosi con compiacimento eccessivo nelle pozzanghere di quelle eterne verità che, se troppo chiaramente esplicitate, sconfinano nell’insostenibile evidenza del luogo comune.

data di pubblicazione 22/03/2015


Scopri con un click il nostro voto:

NON SPOSATE LE MIE FIGLIE di Philippe de Chauveron, 2015

NON SPOSATE LE MIE FIGLIE di Philippe de Chauveron, 2015

C’erano una volta un musulmano, un ebreo e un cinese. E alla fine arriva pure l’uomo nero. Inizia come una barzelletta l’ultimo film di Philippe de Chauveron, senza che però la storia riesca a innescare i meccanismi di quella comicità capace di far sì che una poco pretenziosa storiella indossi le ali della raffinata commedia.

Le quattro figlie femmine di una conservatrice famiglia cattolica francese mettono a dura prova le capacità di sopportazione dei pur volenterosi genitori. Ciascuna di loro prende in marito un tassello di quel “multiculturalismo”, che, restato a lungo un tratto caratterizzante dell’esperienza socio-culturale americana e del cinema che ne è la rappresentazione, obbliga ormai anche l’Europa a una seria riflessione “politica”, di fronte alla quale neppure la Decima Musa può chiudere gli occhi. Sono però lontane tanto le atmosfere di Indovina chi viene a cena? quanto il magnetismo esercitato sulla sala dal cinema francese campione di incassi degli ultimi anni (il pensiero corre, evidentemente, a Giù al Nord e a Quasi amici). I dialoghi si susseguono assecondando una per niente esilarante sequela di luoghi comuni: tra prepuzi amputati, divieti alimentari, stereotipi della cultura cinese e una (fin troppo) macchiettistico scambio culturale tra “famiglia bianca” e “famiglia nera”, Non sposate le mie figlie sembra fallire sia l’intento di divertire sia quello di far riflettere. I momenti di fratellanza simboleggiati dalla guerra di palle di neve tra adulti che tornano bambini e dalla Marsigliese cantata con la mano sul cuore da quella che sembra la panchina della nazionale francese di calcio, sembrano davvero troppo poco ai tempi di “Je suis Charlie”.

Prima di avviarsi al prevedibile “vissero tutti felici, contenti e tolleranti”, il film, almeno, lascia nello spettatore la voglia di provare una volta della vita il brivido della Zumba. Perché anche in ciò che sembra lontano e diverso dal nostro modo di essere e di pensare, in fondo, possiamo trovare una parte di noi stessi.

data di pubblicazione 22/02/2015


Scopri con un click il nostro voto:

CINQUANTA SFUMATURE DI GRIGIO di Sam Taylor-Johnson, 2015

CINQUANTA SFUMATURE DI GRIGIO di Sam Taylor-Johnson, 2015

Tanto tuonò che alla fine la terra rimase asciutta. Dopo il consueto balletto di nomi su chi avrebbe assunto l’oneroso onere di sbancare al botteghino con la trasposizione cinematografica di Cinquanta sfumature di grigio, fenomeno letterario firmato da E.L. James, anche produttrice del film, lo scettro arriva tra le mani della britannica Sam Taylor-Johnson. Il volto, le labbra, le mani e i corpi vogliosi di Anastasia Steele e Christian Grey, novelli eroi romantici di un’epoca in cui la trasgressione assume la consistenza della regola, diventano quelli di Dakota Johnson e Jamie Dornan. L’uscita italiana è meticolosamente anticipata da interviste sul profondo lavoro fatto dagli attori per svestirsi dei loro panni (in senso più reale che metaforico), impreziositi da delicati aneddoti sugli scompensi ormonali che inonderebbero la sala durante la proiezione.

Fin dalla prime inquadrature si ha però la sensazione che le aspettative, anche quelle più modeste, siano destinate a infrangersi contro la barriera di un prodotto troppo spudoratamente proiettato sul risultato di un successo commerciale che, pur vietato ai minori degli anni quattordici, a tratti fa respirare a pieni polmoni le atmosfere di Beverly Hills e Dawson’s Creek.

Mr. Grey, apre il cassetto delle sue cravatte grigie, con la stessa convinzione del modello della pubblicità di Calzedonia. Anastasia, bollente di incontenibile desiderio a seguito del primo incontro con il miliardario bello e dannato, a cui ancora nessuna ha avuto l’ardire di scrutare dentro, ma che in tante hanno già ammirato fuori, corre fuori sotto la pioggia e, come nella pubblicità Nestea, informa lo spettatore di avere caldo. Molto caldo. Manca solo la voce fuori campo che esclami “Grey. Ottimo direi” perché lo spot possa dirsi davvero completo.

La storia è fin troppo nota. Christian, ragazzo dall’immancabile passato traumatico e traumatizzante, dopo una lunga parentesi da sottomesso, sente che è giunto il momento di divenire dominatore. Un dominatore minuzioso, che scandisce il rito nella sua stanza dei giochi con meticolosa precisione, che redige con la cura di un raffinato giurista il contratto al quale è affidato il sinallagma del piacere, ma che è disposto a forzare ogni protocollo per la vergine che, con ammirabile disinvoltura, si lascia plasmare dal suo Signore per poi plasmarlo a servo del suo amore.

Le tanto annunciate scene di sesso non risultano né insistite né audaci. I corpi che si cercano e si uniscono sono certamente dotati di una potente carica estetica, che solo di rado si traduce però in autentica carica erotica. Il rituale di voluttuosa violenza portato sul grande schermo resta alla fase del tentativo incompiuto, come le sfumature della psiche dei due protagonisti, solo timidamente accennate e che a stento raggiungono la decina, restando molto lontane dal traguardo annunciato dal titolo.

Il film finisce annunciando l’inizio del secondo episodio. Che speriamo migliori se non altro nella colonna sonora, recuperando, almeno in parte, l’eccitante e avvolgente silenzio dell’immaginazione di così tanti lettori, affidatisi con disinibito imbarazzo alle suadenti pagine di un “caso letterario”.


data di pubblicazione 22/02/2015


Scopri con un click il nostro voto:

JULIEN ZOLUÀ di Giulio Maria Corso

JULIEN ZOLUÀ di Giulio Maria Corso

(Teatro Due – Roma, 21/25 gennaio 2015)

Julien Zoluà di Giulio Maria Corso chiude la rassegna CANTIERI CONTEMPORANEI presso il Teatro Due di Roma (8 al 25 gennaio 2015).

Leone e Julien. Il padrone e il suo servitore. Leone conosce Julien da quando era un bambino. Julien non ha avuto un padre che sapesse raccontare storie belle come quelle di Leone.

C’era una volta un bambino che provava a controllare i suoi incubi grazie a una penna e un foglio di carta su cui disegnava castelli. C’era una volta un uomo che provava a raccontare delle storie per rendere un po’ meno penosa la sua realtà. Una casa sopra il mercato (e sopra il teatro). Un salotto all’ora del tè. Una sedia al centro del palcoscenico. La complice intesa tra due opposti che si attraggono fatalmente, senza saperlo, senza prevederlo, senza riuscire a evitarlo.

Uno spettacolo visionario e immaginifico, costantemente sospeso tra sogno e realtà, tra illusioni e “storie vere”, tra passione e “senso del dovere”. La scrittura avvolgente e travolgente di Giulio Maria Corso traghetta lo spettatore lungo le correnti di un impetuoso fiume di parole che tuttavia non rischia mai di straripare, contenuto dagli argini di un ritmo verbalmente musicale (o musicalmente verbale) e dall’esito mai scontato dei duetti e dei duelli che si susseguono sulla scena.

Il pathos e l’ironia si incrociano senza calpestarsi, sorretti dalla solida recitazione di Roberta Azzarone, Valerio D’Amore, Carmine Fabbricatore, Carlotta Mangione, Michele Lisi, che riempiono in maniera impeccabile uno spazio solo apparentemente vuoto.

Il soggetto risente forse di qualche cliché di troppo: l’uomo adulto e il giovane virgulto, un matrimonio finito ancor prima di iniziare, il peso dei ruoli che costringe a indossare una maschera soffocante. Ma la resa scenica riesce ad andare ben oltre le tradizionali logiche del triangolo amoroso e “politicamente scorretto”, restituendo l’impressione di uno spettacolo consapevole e ben confezionato.

data di pubblicazione 22/01/2015


Il nostro voto: