da Antonella Massaro | Giu 28, 2015
I Nastri d’argento 2015, assegnati dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografici Italiani, incorniciano una stagione in cui l’asticella del cinema tricolore si è attestata attorno a livelli medi indubbiamente apprezzabili. Si impongono le pellicole approdate al Lido di Venezia e alla Croisette di Cannes, che i giornalisti decidono di “risarcire” a seguito della delusione festivaliera.
Il giovane favoloso di Mario Martone si aggiudica il Nastro dell’anno, mentre il premio alla regia si adagia tra le sicure mani di Paolo Sorrentino per Youth – La giovinezza, film che vince anche per la miglior fotografia (Luca Bigazzi).
Anime nere di Francesco Munzi, trionfatore ai David di Donatello, non compare sul podio più ambito, ma conferma i premi per la sceneggiatura (Francesco Munzi, Fabrizio Ruggirello, Maurizio Bracci), per il montaggio (Cristiano Tavaglioli, vincitore anche con Youth – La giovinezza) e per la produzione (Cinemaundici – Luigi e Olvia Musini).
Il miglior regista esordiente è, come secondo i David 2015, Edoardo Falcone per Se Dio vuole, mentre Noi e la Giulia di Edoardo Leo indossa la fascia della miglior commedia.
Le stelle che hanno brillato in maniera più convincente nel firmamento degli attori protagonisti sono, ad avviso dei giornalisti-giurati, Margherita Buy (Mia madre) e Alessandro Gassman (Il nome del figlio e I nostri ragazzi), cui si aggiungono, come attori non protagonisti, Micaela Ramazzotti (Il nome del figlio) e Claudio Amendola (Noi e la Giulia).
L’ambientazione epico-fiabesca de Il Racconto dei racconti risulta convincente e la pellicola di Matteo Garrone conquista i Nastri per la scenografia (Dimitri Capuani) e i costumi (Massimo Cantini Parrini).
Fa la sua comparsa tra i premiati anche Il ragazzo invisibile di Gabriele Salvatores: miglior soggetto per una storia indubbiamente “fuori dalle corde” del cinema italiano.
La miglior colonna sonora è quella di Hungry Hearts di Saverio Costanzo, firmata da Nicola Piovani, mentre la miglior canzone originale è Sei mai stata sulla luna? di Francesco De Gregori, per l’omonimo film di Paolo Genovese.
I Nastri alla carriera hanno omaggiato Douglas Kirkland e Ninetto Davoli, mentre attorno alla macchina da presa di Cristina Comencini (Latin Lover) si stringe il Nastro Speciale per la regia.
data di pubblicazione 28/06/2015
da Antonella Massaro | Apr 16, 2015
Dopo Il piccolo Nicolas e i suoi genitori (2009), Laurent Tirard prosegue nella non scontata opera di adattamento cinematografico delle avventure del personaggio plasmato dalla penna di René Goscinny e dalla matita di Jean-Jacques Sempé.
Suona l’ultima campanella dell’anno scolastico, si rompono le righe, si abbandonano le cartelle e le divise e ci si prepara alla tanto agognata “villeggiatura”. Nell’eterno dilemma tra mare e montagna, che vede puntualmente contrapposti la mamma (Valérie Lemercier) e il papà (Kad Merad) del piccolo Nicolas (Mathéo Boisselier), riescono a spuntarla le spiagge assolate che lambiscono il lido dell’Hôtel Beau-Rivage. A patto però che anche “nonnina” (Dominique Lavanant) si unisca alla famigliola in calzoncini e costume, con il suo sacchetto di caramelle, le sue richieste di “bacini” e l’ombra dell’antico e pressoché perfetto pretendente di sua figlia, prontamente e immancabilmente contrapposta all’ordinaria mediocrità del bonario genero.
La vacanza, si sa, assume spesso la consistenza di un Carnevale (emblematica la scena del ballo in maschera), in cui si sospende e/o si sovverte la dimensione dell’ordine costituito, si incontrano nuovi “amici”, nuovi amori, nuovi sogni. Succede così anche a Nicolas. I compagni di classe sono sostituiti da quelli di ombrellone, mentre il grande amore cittadino è rimpiazzato dalla piccola Isabelle, la bimba dagli occhi grandi e sgranati, che dopo aver “inseguito” Nicolas per tutto l’albergo, ricreando in maniera esilarante le atmosfere di Shining, si rivela in grado di rapire il cuore del protagonista.
L’atmosfera carnevalesca coinvolge e travolge anche la mamma di Nicolas. Un produttore cinematografico, interpretato da Luca Zingaretti, sguaiatamente ammaliatore e, non a caso, italiano, le fa intravedere le sfavillanti luci della ribalta, coccolandola con champagne, feste e interviste.
Ma il Carnevale, si sa, è destinato a finire in breve tempo. Si riaprono le porte della scuola, con il Direttore e il Custode che non aspettavano altro. Ritornano la vecchia vita e i vecchi amori. Perché, in fondo, la vacanza è bella quando dura poco.
Malgrado l’esasperazione macchiettistica di alcuni personaggi e di certi tratti della sceneggiatura, che non sempre risultano amalgamati in un racconto che pure trova nella straniante esagerazione i suoi più evidenti punti di forza, Le vacanze del piccolo Nicolas risulta nel complesso un film piacevole e ben confezionato, in grado di (ri)portare in sala i lettori, grandi e piccini, di Goscinnuy e Sempé.
data di publicazione 16/04/2015
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da Antonella Massaro | Apr 16, 2015
Una commedia con sfumature noir, tenuta insieme dal collante del grottesco e dalle camaleontiche capacità di Micaela Ramazzotti (e di Libero De Rienzo). Questi, in breve, gli elementi caratterizzanti di Ho ucciso Napoleone, secondo lungometraggio diretto da Giorgia Farina, che torna in sala a distanza di due anni da Amiche da morire.
Anita (Micaela Ramazzotti), figlia del disinvolto modello pedagogico dei “genitori-amici” di matrice sessantottina, ha cura di nascondere le proprie debolezze dietro la corazza protettiva di un “sofficino surgelato”. La sua tanto ostentata quanto poco credibile anaffettività, della quale farà le spese anche (e soprattutto) quel Napoleone il cui epitaffio, pronunciato direttamente dal suo carnefice, risuona nel titolo del film, diviene l’elemento catalizzatore di un’ascesa lavorativa apparentemente inarrestabile, condita da tutti i più irrinunciabili cliché del caso: dall’odio dei colleghi per la bella e giovane donna in carriera, alla relazione con il capo sposato e con prole (Adriano Giannini), per concludere con l’altrettanto immancabile gravidanza frutto di imperdonabile disattenzione.
Costretta inaspettatamente ad abbandonare i lussuosi locali della casa farmaceutica per la quale lavora, Anita cerca di riorganizzare la propria vita dalle altalene dal parco di fronte, divenute l’ufficio della “spacciatrice di farmaci” Olga (Elena Sofia Ricci) e il crocevia del nutrito “pacchetto clienti” di quest’ultima (tra cui Gianna, interpretata da Iaia Forte). Il ponte tra “fuori” e “dentro”, attraverso il quale riprendere la poltrona che sente di meritare, sembra esserle gettato da Biagio (Libero De Rienzo). Ma le storie, si sa, possono sempre essere raccontate da più prospettive e quel cambio di soggettiva, che lo spettatore del cinema più recente (per quanto il parallelismo possa sembrare azzardato) ha avuto modo di sperimentare con L’amore bugiardo di David Fincher, rappresenta certamente uno degli elementi meglio riusciti della scrittura di Giorgia Farina e di Federica Pontremoli.
Il rovesciamento di fronte, indubbiamente repentino, pur non peccando di eccessivo senso dell’irrisolto, non pare fondarsi su un solido approfondimento dei personaggi, i cui tratti più complessi restano solo abbozzati e, in definitiva, risolti e “sviliti”, tanto per Anita quanto per Biagio, nel davvero troppo stereotipato rapporto tra genitori e figli. Anche il contorno dei personaggi secondari, dotati di buone potenzialità nella definizione del registro narrativo di tipo comico-grottesco, resta solo sullo sfondo, senza mai divenire autentica parte integrante del racconto. La cura per l’intreccio sfuma poi nel finale in perfetto stile “e tutti vissero felici e contenti nella famiglia allargata”, che, forse, risulta fuori contesto rispetto allo “spirito” che fino a quel momento sembrava aver ispirato il racconto.
Ho ucciso Napoleone rimane comunque una pellicola dalla quale traspare chiaramente la costante ricerca di uno stile, personale e riconoscibile, di una sceneggiatrice e regista, che merita appieno il titolo di “osservata speciale” nell’ambito del cinema italiano fatto dalla generazione anni Ottanta.
data di pubblicazione 16/04/2015
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da Antonella Massaro | Apr 1, 2015
(Teatro Vascello – Roma, 31 marzo/4 aprile 2015)
Dopo Pirandello e Beckett, Massimo Castri torna a immergersi nelle stranianti atmosfere dell’umoristico teatro dell’assurdo. La cantatrice calva di Ionesco. Quella che “si pettina sempre allo stesso modo”. Quella alla quale resta affidato il testamento artistico di Castri, scomparso nel gennaio del 2013.
“Interno borghese inglese, con poltrone inglesi”. La scena riproduce fedelmente la cornice della “serata inglese” entro cui si inscrive la pièce di Ionesco, mentre il rintocco dell’orologio scandisce con impeccabile precisione l’immobile scorrere del tempo che attraversa le vite dei signori Smith e dei signori Martin. Quando la maschera aderisce così perfettamente al volto fino a soffocarlo, non resta che adattarsi al tanto alienante quanto rassicurante conformismo delle convenzioni borghesi, fatto di cene sempre uguali e di persone interscambiabili persino nel nome (Bobby Watson), di aneddoti già sentiti e di sposi che non si riconoscono, di pompieri in cerca di incendi da spegnere e di cameriere che recitano versi ardenti di infuocato calore. Di frasi fatte e di coppie sfatte.
Il tutto supportato da dialoghi che sfruttano, esasperandolo ad arte, l’espediente di una “ovvietà fuori contesto”, amplificato dalla pressoché completa rinuncia di ogni verosimile nesso di conseguenzialità logica. Emblematico il dilemma epistemologico sintetizzato dall’interrogativo “Quando suonano alla porta c’è qualcuno o no?”: l’incalzante scambio di battute che ne deriva, sembra sintetizzare il superamento di una causalità a priori di matrice kantiana a favore di un falsificazionismo dal sapore popperiano, elevato a chiave di lettura di un’esistenza annoiata e (anche per questo) paradossale. E, dunque, “quando suonano alla porta, talvolta c’è qualcuno, talaltra non c’è nessuno”.
L’impegnativo peso di un classico che torna in scena per l’ennesima volta è ben sostenuto dalla mai tentennante maestria degli attori (Mauro Malinverno, Valentina Banci, Fabio Mascagni, Elisa Cecilia Langone, Sara Zanobbio e Francesco Borchi), capaci di coinvolgere e travolgere il pubblico nella serrata “battaglia di luoghi comuni” che prepara alla circolare chiusura dello spettacolo.
Una perla di indubbio valore, ospitata dalla deliziosa conchiglia del Teatro Vascello, immersa nelle acque di Monteverde Vecchio e offerta agli spettatori dalle sapienti mani della Direzione artistica di Manuela Kustermann.
data di pubblicazione 01/04/2015
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da Antonella Massaro | Mar 26, 2015
Paula Bélier (Louane Emera). Bélier, come “montone”. Sedici anni. Il corpo che cambia, il cuore che inizia a battere tra i banchi di scuola, la fisiologica contrapposizione generazionale con i propri genitori, il distacco dal nido familiare come necessario anello di congiunzione tra l’adolescenza e l’età adulta. Fin qui nulla di nuovo. Solo che Paula è l’unica nella sua famiglia in grado di sentire e di parlare. Comunica con la mamma (Karin Viard, semplicemente strepitosa), il papà (François Damiens) e il fratellino (Luca Gelberg) attraverso il linguaggio dei segni, rendendosi generoso e impeccabile ponte tra il silenzio che avvolge la sua casa e il frastuono che si agita fuori da quelle mura. Un’armonia in cui le note e le pause sembrano integrarsi su uno spartito dal solido equilibrio, fino a quando il destino, amabilmente crudele, non decide di imporre un nuovo ritmo e una nuova melodia nella fattoria della famiglia Bélier. Paula ha una pepita in gola, che il suo insegnante di canto (Éric Elmosnino) ha tutta l’intenzione di lasciar brillare alla luce del sole. Perché chi ha ricevuto in dono dei talenti non può permettersi il lusso di non investirli nella ricerca di un sogno. Anche qualora quel sogno richieda di abbandonare la bucolica campagna per la caotica città. Anche qualora quel sogno dovesse rendere ancor più doloroso il fisiologico distacco.
Sarebbe riduttivo leggere La famiglia Bélier come un film sulla diversità o come una più ampia riflessione sulle tante vie attraverso cui è possibile comunicare, se solo si trovi il coraggio di guardare (e di sentire) oltre le etichette e gli schemi. Si tratta piuttosto di un delicato componimento poetico, fatto di punti di vista, apparentemente antitetici, che si alternano, si avvicinano, si sfiorano e infine si fondono pur restando distinti, come quando, nella scena del duetto e in quella dell’audizione, lo spettatore “sente” di essere una nota e, al tempo stesso, una pausa, parte integrante dell’affascinante spartito intitolato “famiglia Bélier”.
Risulta coerentemente inserita nei tempi e nello spirito del racconto anche la prospettiva politico-sociale, affidata alla candidatura di papà Bélier a Sindaco del suo paese. Il manifesto con la foto di un sordo e lo slogan “Io vi ascolto”, insieme alla (a tratti esilarante) campagna elettorale portata avanti con entusiastica e contagiosa convinzione, stigmatizzano, senza ridondante retorica, quel sordomutismo di una classe politica che, sempre più spesso, risuona in maniera assordante nei tradizionali modelli della democrazia occidentale.
Convincente la prova della protagonista Louane Emera, classe 1996, la quale passa con ammirevole disinvoltura dallo psichedelico luccichio del palcoscenico di “The Voice” alle luci caldamente suffuse di una commedia che, sia pur cedendo a tratti alle lusinghe dello stereotipo d’effetto (la corsa dell’ultimo minuto e all’ultimo respiro), è in grado di coinvolgere, divertire, stupire e commuovere.
data di pubblicazione 26/03/2015
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