da Antonella Massaro | Set 14, 2015
Il pluripremiato regista iraniano Jafar Panahi non ama confezionare film “distribuibili”, rispettosi degli omologanti dettami imposti dal regime islamico. Jafar Panahi è un estimatore di quello che il potere politico definisce “sordido realismo”: una fotografia senza filtri della società in cui la macchina da presa è chiamata a immergersi, anche quando la messa a fuoco riveli impietosamente dettagli che la logica della propaganda e del consenso preferirebbe mantenere celati.
Contro la censura e il divieto di espatrio non resta quindi che un solo rimedio: mettersi alla guida di un taxi attraverso le strade di Teheran, senza itinerari prestabiliti e con una telecamera pronta a documentare il più “sordido” dei realismi.
Si parla di tutto nel taxi di Panahi. Si discute della funzione di prevenzione generale di una pena di morte che condanna all’impiccagione due scippatori; ci si chiede che faccia abbia un ladro, per arrivare a scoprire che ha una faccia “normale”, come quella di tutti gli altri; si ipotizza una missione culturale di chi vende DVD pirata garantendo in Iran la visione di film altrimenti vietati; ci si interroga sul senso della professione di avvocato, svolta da una donna che regala rose rosse e non smette di credere nella necessaria tutela dei diritti umani. E soprattutto, attraverso la strepitosa nipotina di Panahi, si riflette sul cinema e sulla censura, sull’arte e sulla libertà di manifestazione del pensiero.
Il risultato è quella che il regista Darren Aronofsky, Presidente di Giuria del 65˄ Festival di Berlino, ha definito “una lettera d’amore al cinema”, consegnando nelle mani virtuali del regista assente il prezioso vello dell’Orso d’oro.
Taxi Teheran coinvolge, stupisce e commuove, lasciando intatta la speranza che il cinema possa ancora funzionare da potente strumento di denuncia e di libertà/liberazione.
data di pubblicazione 14/09/2015
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da Antonella Massaro | Set 8, 2015
Un raffinato gioiello francese illumina di una luce tanto discreta quanto avvolgente la selezione della 72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Xavier Racine (Fabrice Luchini, immancabilmente perfetto) è un intransigente Presidente di Corte d’Assise, che amministra la Giustizia in quel Nord della Francia divenuto ormai un autentico topos cinematografico. Durante il processo relativo alla morte di una bambina, all’interno del quale rischiano di insinuarsi il pregiudizio e/o la noncuranza relativi alla condizione di emarginazione sociale che fa da sfondo alla commissione del delitto, lo sguardo del “Presidente”, come ci tiene a essere chiamato Racine, incontra quello della giurata Birgit Lorensen-Coteret (un’impeccabile Sidse Babett Knudsen): non si tratta di uno degli anonimi nominativi estratti a sorte per la composizione della Giuria, ma degli occhi che in passato hanno acceso nel cuore di Racine il bagliore di un amore mai sopito.
La dimensione teatrale del processo, un po’ troppo didascalicamente enfatizzata nel corso del film e quasi ingenuamente richiamata dal regista Christian Vincent in conferenza stampa, non è certo un mistero. Il processo, soprattutto quello penale, è al tempo stesso “rito” e spettacolo, con tanto di palcoscenico, scenografia, costumi, attori e copione. Così come non è un mistero che il courtdrama sia un genere tipicamente targato USA, il quale, rafforzato dalla strutturale spettacolarità del processo di common law e dall’effetto trascinatore del botteghino americano, fatica a trovare corrispondenti altrettanto convincenti nella cinematografia del Vecchio continente: è significativo che in L’Hermine uno dei personaggi si veda affidato il compito di “illustrare”, anzitutto allo spettatore, la composizione dell’aula e, quindi, l’allestimento dello spettacolo che sta per iniziare. Il lavoro di Vincent si caratterizza però per una scrittura consapevole e non approssimativa, con quei giurati seduti attorno a un tavolo in cui è pressoché inevitabile intravedere gli eredi dei 12 Angry Men (titolo originale di La parola ai giurati, sebbene il regista smentisca esplicitamente qualsiasi influenza del cult di Sidney Lumet). Rinunciando alla pomposa maestosità dello stereotipo del “processo da grande schermo”, il film riporta il tribunale e gli uomini di legge a una dimensione forse più prosaica, ma indubbiamente familiare a chi è abituato a frequentare i luoghi della Giustizia.
Il personaggio interpretato da Fabrice Luchini riproduce proprio il dualismo tra la dimensione solennemente pubblica e quella romanticamente privata attorno al quale si sviluppa l’intero racconto. L’Ermellino (non a caso sottolineato dal titolo originale) e la sciarpa rossa, il Giudice che conduce con sicurezza il dibattimento e l’uomo che non sostiene il pressante interrogatorio della figlia adolescente di Birgit: due anime efficacemente distinte dalla recitazione di Luchini, pronte a ricomporsi in armonica unità nel finale.
La commedia “romantico-giudiziaria” tratteggiata da L’Hermine è anche la nitida fotografia di uno spaccato sociale sul quale richiamano a lungo l’attenzione, in conferenza stampa, tanto il regista quanto il protagonista, nel corso di un irresistibile show di Luchini che spazia dalla riflessione politica alla lezione sul mestiere dell’attore.
data di pubblicazione 08/09/2015
da Antonella Massaro | Set 7, 2015
Il viaggio di nozze di un’americana sposa bionda, equamente diviso tra il fascino monumentale del Bel Paese e le rovine del terremoto dell’Aquila, diviene la sognante boccata d’ossigeno di una porzione di umanità delimitata dal perimetro del Quadraro, quartiere romano non segnalato sulle guide turistiche.
Nicola (Ascanio Celestini), quando non smarrisce il suo travolgente eloquio sul fondo del bicchiere, è un cantastorie che ha ricevuto il dono di un’innocenza generosa e incontaminata. Si offre di aiutare la famiglia di un truffatore delle assicurazioni finito per sventura sotto le ruote del suo furgone, si prende cura del figlio di una prostituta mentre la mamma è al lavoro, è disposto a rinunciare alla Sambuca per regalarsi l’illusione di un bagliore d’amore con Sofia (Alba Rohrwacher, Coppa Volpi lo scorso anno per Hungry Hearts e alla Mostra del cinema anche con Sangue del mio sangue di Marco Bellocchio), non ha paura di dire “lo conosco” quando un amico è in difficoltà.
Viva la sposa è un film corale nel complesso ben riuscito, che raggiunge i punti più alti grazie alla scrittura straniante e al talento di teatrante del mattatore Celestini, restituendo la disillusa fotografia di un “popolo” che vive ai margini della “grande bellezza da cartolina” e che finisce per avere come indirizzo di casa quello del rassicurante bar di quartiere. Non mancano gli spunti di accorata denuncia politico-sociale, che, per quanto ben amalgamati nel tessuto narrativo (al contrario di quanto avviene in A Bigger Splash di Luca Guadagnino, in concorso a Venezia 72), sono esplicitati con una schiettezza talmente esibita da lambire a tratti il rischio della banalizzante semplificazione.
Resta la sensazione di un’ironia impietosamente dolceamara, oscillante tra il cinismo impotente e la
speranza che non cede alla rassegnazione: basta in fondo un velo bianco e uno strato di rossetto per tornare a gridare “Viva la sposa!” e per trovare un appiglio in grado di sorreggere i naviganti a fronte dell’impetuosa corrente dell’esistenza.
data di pubblicazione 07/09/2015
da Antonella Massaro | Set 6, 2015
Il premio Oscar Eddie Redmayne sbarca al Lido di Venezia prestando i lineamenti muliebri e l’istrionico talento di attore al personaggio di Lili Elbe, che sottoponendosi nel 1930 a un intervento chirurgico per ricongiungere il corpo maschile all’anima femminile, diviene la prima riconosciuta transessuale della storia.
Tratto dall’omonimo romanzo firmato da David Ebershoff, The Danish Girl di Tom Hooper (Il discorso del Re, I miserabili) assume la consistenza di un affresco tanto dirompente quanto delicato di quella che, dall’inizio alla fine, resta un’intensa storia d’amore. Einar Wegener (Eddie Redmayne) e sua moglie Gerda (Alicia Vikander), entrambi pittori: lui ama dipingere paesaggi, esibendo un talento già ampiamente riconosciuto; lei preferisce dedicarsi ai ritratti, senza però trovare la sua reale ispirazione. Il gioco quasi puerile di posare per Gerda in abiti femminili diviene la scintilla in grado di far deflagrare una bomba già innescata da tempo nel cuore e nella mente del giovane artista. Einar adora truccarsi e atteggiarsi “come una donna” perché Einar “è una donna”. In un momento storico in cui la sua condizione si trova etichettata come anomalia biologica dalle mille diagnosi, destinata alla “cura” con trattamenti terapeutici invasivi o al confino nelle tenebre ghettizzanti del manicomio, la presa di consapevolezza di Einar-Lili non è né scontata né agevole. La proiezione socio-culturale della storia cede tuttavia il posto alla dimensione di intima transizione vissuta dai due protagonisti, che si prendono coraggiosamente per mano mettendosi in cammino lungo un sentiero forse doloroso ma indubbiamente doveroso. Il tutto incorniciato da una natura sontuosa e scandito da quell’arte pura e salvifica già comparsa al Festival in Francofonia e Marguerite.
Il tessuto narrativo si caratterizza per l’apprezzabile rievocazione di un’infanzia priva, per una volta, di traumi pronti a giustificare la “particolarità sessuale”, anche se, tralasciando il cliché dell’inversione dei ruoli all’interno della coppia (è Genda il vero “maschio” tra i due), il passaggio da una fase all’altra della complessa metamoforsi-rinascita del protagonista appare a tratti segnato da transizioni troppo bruscamente repentine per risultare del tutto credibili.
L’interpretazione di Redmayne, semplicemente perfetta nella sua sorprendente capacità di lasciar trasparire la vibrante emozione della progressiva presa di coscienza, è senza dubbio una prova da premio. Ciò che importa, precisa l’attore in conferenza stampa, è tenere distinto il “genere” dalla “sessualità”, secondo logiche e meccanismi che ha potuto imparare a comprendere attraverso il proficuo e generoso confronto con molti transgender, il cui aiuto si è rivelato prezioso per la preparazione del ruolo. Alicia Vikander si inserisce nel film con convinzione e indispensabile complementarietà. Nel cast anche Matthias Schoenaerts (tra gli altri Un sapore di ruggine e ossa) e Amber Heard, arrivata al Festival insieme al marito Johnny Depp.
Ancora una “storia vera” a fare sfondo al programma di Venezia 72. Ancora un film in concorso di cui (anche) il “grande pubblico” sentirà parlare nella prossima stagione cinematografica.
data di pubblicazione 06/09/2015
da Antonella Massaro | Set 3, 2015
Beasts of No Nation scrive un capitolo di indubbio impatto narrativo nel variegato “racconto della realtà” proposto dalla 72^ edizione del Festival della Laguna. Il piccolo Agu (Abraham Attah) vive con la sua famiglia in un villaggio dell’Africa occidentale. Si diverte a giocare alla “TV dell’immaginazione”, fino a quando l’irrompere della guerra civile lo deruba del suo sorriso, dei suoi sogni, della sua fede. Separato dalla madre e testimone della spietata esecuzione del padre, Agu, si imbatte in un gruppo di guerriglieri. Il carismatico e dispotico Comandante (Idris Elba) si offre di salvargli la vita, condannando in realtà la sua anima a una morte tanto lenta quanto inesorabile, ammantata dalla “divisa” sempre più appariscente di un intrepido bambino soldato. Un racconto duramente esplicito, che esalta il non senso della guerra seguendo la parabola del gruppo guidato dal Comandante e la metamorfosi che lentamente si disegna nello sguardo dello straordinario protagonista. Abraham Attah, in conferenza stampa, precisa di non aver provato paura, ma solo tristezza, durante la realizzazione delle sequenze più violente, la cui lavorazione, assicura il regista, è stata estremamente frammentata rispetto al risultato finale, anche al fine di tutelare gli interpreti più giovani. L’obbedienza che sconfina in un soggiogamento fisico e psichico, rafforzato dall’allucinazione delle droghe e in grado di guidare le non più innocenti mani dei baby guerriglieri nella commissione di atroci violenze e di peccati inconfessabili: anche se un giorno la guerra finirà, Agu non tornerà più il bambino che era.
Il film, tratto dall’omonimo romanzo di Uzodinma Iweala, è divenuto un caso mediatico ben prima del suo approdo al Lido. Il regista Cary Fukunaga (Sin nombre, Jane Eyre) ha diretto la prima stagione dell’acclamata serie televisiva True Detective, confermando quanto proficui e trafficati siano di recente i canali di dialogo tra piccolo e grande schermo e restituendo a volte la sensazione di un’autentica inversione nei reciproci rapporti di forza e di autorevolezza. Il binomio cinema-tv è completato da internet, definendo i contorni di una triade che sta gradualmente dispiegando il proprio potenziale dominio sul mercato audiovisivo: Beasts of No Nation è infatti un film targato Netflix, colosso della tv in streaming, che si concede l’inedito lusso dello schermo della sala Darsena prima di confondersi tra i cristalli liquidi di qualche dispositivo portatile. In conferenza stampa il regista chiarisce che l’intervento di Netflix, avvenuto solo in fase di montaggio, non ha influito in maniera significativa sulla lavorazione del film. Riuscirà il cinema a cavalcare la virtuosa onda del web senza restarne travolta? Ai cineasti e al mercato l’ardua sentenza.
data di pubblicazione 03/09/2015
VOTO: CI HA CONVINTO
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