da Antonella Massaro | Ott 24, 2015
Il vento può assumere le vesti di una refrigerante brezza o quella di una tempesta devastante. Il vento è tiranno eppure sottoposto alle leggi dell’universo. Il vento è forza cieca e all’apparenza “amorale”, ma imprime stabilità all’equilibrio del Tutto.
Ouragan, l’Odyssée d’un vent ripercorre il viaggio di Lucy, creatura cinematografica nata dalle immagini di cicloni reali raccolte dal regista Byatt e dal suo operatore Barbançon. Il diario di viaggio, raccontato dalla voce fuori campo della stessa Lucy, che scandisce le tappe del suo incedere affidandosi alle poetiche parole di Victor Hugo, è indubbiamente affascinante e coinvolgente. L’imprevedibile mutevolezza del vento attraversa la superficie dei deserti e la profondità degli abissi, accarezzando o travolgendo creature spettacolari che trovano il loro senso solo in quanto inserite nella più ampia complessità dell’equilibrio naturale. L’uomo prova a innalzare il proprio sguardo fino allo spazio, nel tentativo di prevedere e controllare i movimenti di Lucy e dei suoi simili. Neppure la più raffinata delle tecnologie può però incasellare nella fredda rigidità del calcolo matematico la sinuosa imprevedibilità della tempesta.
Lo spettatore si trova immerso nella maestosità di scenari grandiosi, impreziositi da dettagli che solo l’occhio di una telecamera attenta e paziente è in grado di scovare. Il tutto amplificato dalla spettacolare magnificenza del 3D, capace di condurre attraverso le spettacolari forme di vita che popolano la barriera corallina per poi trascinarlo direttamente nell’occhio del ciclone.
Malgrado l’indubbia suggestione dell’impatto visivo, Ouragan non riesce ad andare oltre la facciata di un documentario naturalistico. Il racconto, inquadrato dal punto di vista di Lucy, lascia sullo sfondo il tema, indubbiamente presente, del rapporto tra Uomo e Natura e la trama narrativa appena accennata non sempre offre un sostegno reale a immagini che, pur potenti e suggestive, corrono il rischio di rimanere confinate nell’angusto recinto della mera vertigine estetica.
data di pubblicazione 24/10/2015
da Antonella Massaro | Ott 19, 2015
È marcatamente ironico l’esordio di Paolo Sorrentino nel suo incontro con il pubblico dell’Auditorium di Roma. Per la chiacchierata-intervista con il Direttore Artistico Antonio Monda non ha scelto film di Fellini, visto la frequenza con cui si trova a dover parlare di quello che parrebbe uno dei Maestri meglio riconoscibili guardando attraverso la sua macchina da presa. Passano però solo pochi minuti prima che il più recente premio Oscar del cinema italiano individui in Antonioni, Fellini e Bertolucci i “mettitori in scena” per eccellenza, quelli dallo stile unico e inconfondibile.
Le riflessioni di Sorrentino corrono lungo il filo dell’equilibrato connubio tra il “bello” e il “vero”: la rappresentazione di ciò che reale o, meglio, verosimile (“il verosimile è il regno di chi inventa”), senza però la rinuncia alla cura estetica dell’operazione di messa in scena. Il connubio in questione, realizzato con convincente disinvoltura fino agli anni Novanta, sconta ora una certa diffidenza, che porta a svalutare o comunque a guardare con sospetto la ricerca più prettamente estetica.
La prima clip proiettata è tratta da Tempesta di ghiaccio di Ang Lee, non solo modello di sceneggiatura per compostezza e solidità, ma anche un film sulla famiglia, che, pur non essendo un tema prediletto dal Sorrentino regista, è invece uno dei preferiti dal Sorrentino spettatore. A ciò si aggiunge la stima per il talento di Ang Lee, che non ha smarrito la propria cifra artistica neppure quando ha lasciato la terra natia e che sa dirigere alla perfezione i suoi attori anche in contesti complessi: difficile pensare che sul set de La tigre e il dragone non ci fosse un “urlatore”, ma “un uomo da pantofola”.
Si prosegue con La notte di Antonioni, che, forse ancor meglio de La dolce vita, racconta in maniera tragica quanto sia disagevole stare al mondo e riesce nell’ardua impresa di coniugare in maniera convincente il cinema e la musica jazz. Anche se i primi film di cui Paolo Sorrentino abbia un distinto ricordo da spettatore restano pur sempre quelli di Bud Spencer e Terence Hill.
Road to perdition di Sam Mendes, già “citato” nell’incontro con Jude Law, diviene, attraverso la sequenza della morte di Paul Newman, la sintesi da manuale di come dovrebbe farsi cinema secondo Sorrentino: come si scrive, come si recita, come si usa il suono e soprattutto come si “crea un’epica”. Analogamente a quanto avvenuto nell’incontro con Jude Law, anche oggi si parla solo in pillole del nuovo film, in lavorazione, che vede l’attore britannico diretto dal regista napoletano: un “attore senza difetto” per interpretare un giovane Papa americano, che in nulla pare ispirato a Pontefici realmente esistiti.
Una storia vera riesce invece a calare in un’atmosfera immediatamente rassicurante gli elementi di inquietudine che sono tipici della cinematografia di Linch, a conferma della genialità del regista. È un film sulla “forza sottovalutata delle cose insensate”: così Sorrentino lo sintetizzerebbe a un ipotetico produttore per convincerlo ad acquistarlo.
Mars Attack di Tim Burton chiude l’incontro ravvicinato, con la “donna aliena” e la sua imperturbabilità che si fanno veicolo di un alto tasso di erotismo.
Sorrentino saluta il pubblico della Sala Sinopoli con un inedito: La fortuna, episodio del più ampio Rio, I love you. Alla sfida di girare in soli due giorni un cortometraggio legato al tema “Rio”, Paolo Sorrentino risponde con la storia di un uomo anziano e malato sposato con una donna giovane e bella, in cui però le logiche del luogo comune risultano curiosamente invertite.
data di pubblicazione 19/10/2015
da Antonella Massaro | Ott 18, 2015
Gli spazi di Incontri ravvicinati rappresentano uno dei tratti più interessanti della rinnovata veste della Festa del Cinema di Roma.
La conversazione del Direttore artistico Antonio Monda con l’attore britannico Jude Law diviene un viaggio attraverso il cinema degli ultimi decenni, capace di rendere omaggio ad alcuni dei registi più rappresentativi (non solo) nell’immaginario del grande pubblico: lo spirito della “Festa”, in altri termini, ne esce restituito in tutta la sua sfaccettata complessità.
Si parte dal ricordo di Stanley Kubrick, ispiratore del progetto di A.I. – Intelligenza artificiale, ma morto prima di vederlo realizzato da Steven Spielberg. Jude Law ricorda con piacevole stupore la disponibilità di un regista come Spielberg a ricercare la continua collaborazione con i suoi attori, accettando per esempio i suggerimenti dello stesso Law nella definizione di alcuni dei dettagli più distintivi del personaggio di Gigolò Joe.
L’incontro prosegue con la proiezione di clip tratte dalle proficue collaborazioni con Anthony Minghella (Il talento di Mr. Ripley e Ritorno a Cold Mountain), per poi coinvolgere il pubblico della Sala Sinopoli nelle proteiformi atmosfere di Sherlock Holmes, Wilde, Sleuth, Road to perdition, Gattaca, Anna Karenina, Closer. Proprio l’eterogeneità dei ruoli interpretati offre a Jude Law l’occasione per una più ampia riflessione sul mestiere dell’attore. Si definisce un “ragazzo fortunato” che ha il privilegio di svolgere un lavoro affascinante, nel quale chi non riesce a divertirsi dovrebbe forse interrogarsi su come questo sia possibile. Se da adolescente l’istinto era indubbiamente la componente prevalente nel momento in cui si trattava di indossare le vesti le personaggio, la maturità professionale lo ha portato a confrontasi anche con il metodo della preparazione accurata del ruolo: per quanto, avverte Law, gli eccessivi approfondimenti relativi alla cornice in cui si inseriscono i personaggi (soprattutto quelli storici o letterari) rischiano a volte di risultare superflui o fuorvianti, trattandosi di un lavoro non sempre risolutivo per la buona riuscita del film. Ciò che importa, piuttosto, è il confronto con colleghi dello spessore di Michael Caine, Tom Hanks, Paul Newman: perché, come ricorda il Direttore Monda, il mestiere dell’attore è un po’ come quello del tennista, il cui talento si esalta al cospetto di altro campione.
La realizzazione di un film muta poi, nei modi e nello spirito, a seconda del budget di cui la produzione può disporre. Un budget limitato riesce a valorizzare la passione autentica, anche in ragione dei tempi contingentati che riducono significativamente tanto i tempi di lavorazione quanto il margine di errore.
La differenza reale passa però, sempre e comunque, attraverso la personalità del regista e la sua capacità di dirigere gli attori.
Non può mancare un riferimento al lavoro in corso con Paolo Sorrentino, che negli ultimi mesi ha portato Jude Law a soggiornare spesso nella Capitale. Non è concesso rivelare molto del nuovo film: solo che Law interpreterà un giovane Papa americano e che questo lo obbliga a indossare un tanto prezioso quanto ingombrante costume di scena, costringendolo a pose e posizioni goffe e complicate.
Il film che Jude Law sceglie per concludere l’incontro è La morte corre sul fiume, prima e unica regia di Charles Laughton, talento incompreso dalla logica degli Studios. Il cinema, secondo Law, è a volte talmente impegnato nella ricerca della verosimiglianza da dimenticare quanto alte possano essere le vette che attori e registi riescono a toccare affidandosi al propulsore della fantasia: un tocco di surreale e poetica teatralità può arricchire l’opera cinematografica della sfumatura in grado di fare la differenza.
data di pubblicazione 18/10/2015
da Antonella Massaro | Ott 18, 2015
Room, tratto dal romanzo di Emma Donoghue (titolo italiano: Stanza, letto armadio, specchio) e già vincitore del premio del pubblico al Festival di Toronto, arriva in anteprima nazionale alla Festa del Cinema di Roma.
Joy (Brie Larson), poco più che adolescente, viene rapita da un uomo che la tiene sequestrata in un capanno chiuso da una porta blindata, assicurandole la sopravvivenza e abusando sessualmente di lei. Il frutto della perversa prigionia è il piccolo Jack (lo straordinario Jacob Tremblay), che illumina con uno spiraglio di speranza la vita della donna. Joy protegge il bambino lasciandogli credere che non esista altro mondo al di fuori di Stanza, popolata da immobili ma fedeli creature: Armadio, Letto, Sedia 1 e Sedia 2, Gabinetto. Tutto il resto Jack lo conosce attraverso la magia della televisione, mentre lo scorrere del tempo e l’alternarsi delle stagioni è scandito dal sole, dalla pioggia e dal ghiaccio che si intravedono sui vetri di Lucernario. Quando Jack compie cinque anni, Joy decide di squarciare “il velo di Maya” che aveva caritatevolmente steso sugli occhi del bimbo, convincendolo a collaborare con lei per evadere dalla sbarre di Stanza.
Il ritorno nel mondo per Joy e la sua scoperta da parte di Jack si riveleranno però processi dolorosi e complessi. Gli occhi del bimbo devono abituarsi alla luce accecante del sole e alla messa a fuoco di immagini in vorticoso movimento, il suo corpo deve imparare a difendersi dai germi che affollano l’aria che cambia continuamente di temperatura, la sua mente deve gestire spazi infintamente più estesi e tempi altrettanto più ridotti rispetto a quelli che regolavano la vita in Stanza.
“Venire al mondo” è tanto difficile quanto affascinante e l’attrazione per quel che si agita al di fuori di Porta è irresistibile per l’Uomo, che è anche e soprattutto un animale sociale. Room sembra inserirsi in maniera coerente in un minimo comun denominatore mostrato da queste prime giornate del Festival capitolino: la vita rinchiusa ma protetta dalle mura domestiche e la fuga da quella realtà artefatta, usando come ponte tra “dentro” e “fuori” il cinema (The Wolfpack), la fotografia (Distancias cortas) o la televisione, come nel caso del piccolo Jack.
Il racconto di Abrahamson sa essere potente e delicato al tempo stesso, trasformando la tragedia di un orrendo reato nella delicata poesia sulle meraviglie del mondo scoperte dall’ingenuo stupore degli occhi di un bambino costretto troppo presto a divenire adulto, ma che, sulle prime confuso dalle vertigini di Mondo, ne rimane infine benevolmente “rapito”.
data di pubblicazione 18/10/2015
da Antonella Massaro | Ott 17, 2015
Il 2015 riporta in auge il connubio tra giornalismo d’inchiesta e grande schermo, che sembrava ormai relegato negli scaffali del cinema da collezione: dopo l’ottima accoglienza di Spotlight all’ultima Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Truth si vede assegnato il compito di inaugurare la decima edizione della Festa del Cinema di Roma e di invertire la tendenza rispetto alle più disimpegnate aperture delle ultime edizioni (L’ultima ruota del carro, Soap Opera).
Il film d’esordio di James Vanderbilt racconta la scandalo esploso a seguito di una puntata della trasmissione televisiva “60 Minutes” andata in onda nel 2004, nell’ultima fase di quella campagna elettorale post 11 settembre che avrebbe consegnato per la seconda volta lo scettro di Presidente degli Stati Uniti a George W. Bush.
Il “boccone è succulento”: molti privilegiati figli del Texas, tra cui il giovane Bush Junior, evitano il sanguinario fronte della Guerra in Vietnam arruolandosi nella più rassicurante Guardia Nazionale dell’Aeronautica, non certo sulla base di pretesi meriti da pilota, ma sfruttando la via spianata dalle pressioni e dalle raccomandazioni che regolano i rapporti tra uomini di potere.
Mary Mapes (Cate Blanchett), dopo aver scosso l’America (e non solo) con il servizio sulla prigione di Abu Ghraib, decide di “produrre” anche questa storia, mettendo in campo una squadra formata dal Colonnello Roger Charles (Dennis Quaid), dalla docente di giornalismo Lucy Scott (Elisabeth Moss) e dall’alternativo freelance Topher Grace (Mike Smith). Il racconto televisivo è affidato al volto e alla voce di Dan Rather (Robert Redford), autentica istituzione dell’informazione made in USA.
I tasselli del mosaico sembrano progressivamente ricomporsi in quadro coerente e credibile, confortato da documenti e dichiarazioni tra loro concordanti. La puntata viene però mandata in onda in tempi troppo stretti per rendere inattaccabile un’inchiesta a dir poco esplosiva. Il “sistema” si insinua allora nelle fessure lasciate aperte dalle lancette di “60 Minutes” e giunge ad allestire un autentico processo, in cui l’accusa e la difesa si fronteggiano senza le garanzie di un giudice terzo e imparziale.
Il meticoloso racconto del c.d. Rathergate, sostenuto da un ritmo narrativo incalzante e coinvolgente, diviene anzitutto un inno appassionato in difesa della libertà di stampa e del giornalismo alla vecchia maniera, stretto nella morsa degli intrighi della politica, delle logiche di mercato e dell’incalzare spersonalizzante dei nuovi media. Truth è però anche una più ampia riflessione sugli abusi e le prepotenze del potere, che gli anticorpi della Democrazia non riescono ad arginare. Chi, per amore di quella verità evocata dal titolo, sceglie di sfilarsi dagli ingranaggi del “sistema manipolato”, si espone al rischio dell’umiliazione professionale e personale e si vede sottoposto a tortura con la minaccia di esecuzione sommaria, fino a quando, implorando a chi abusa del suo potere di porre fine al supplizio, non ammetta la sua resa.
La prova di Cate Blachett è impeccabilmente monumentale e la sinergia con l’inossidabile Robert Redfort contribuisce a rendere pienamente convincente un film che forse indulge in qualche passaggio alla retorica del monologo demagogico, ma che urla negli occhi dello spettatore il monito di continuare a fare domande, senza accontentarsi delle risposte preconfezionate. L’alternativa è il consolidarsi di un sistema di informazione in cui la diversificazione dei media conduce paradossalmente a una sempre più impenetrabile omologazione della pubblica opinione.
data di pubblicazione 17/10/2015
Pagina 22 di 31« Prima«...10...2021222324...30...»Ultima »
Gli ultimi commenti…