da Antonella Massaro | Mar 22, 2016
Un raffinato gioiello francese, dopo aver illuminato di una luce tanto discreta quanto avvolgente la selezione della 72^ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, rischiara anche gli schermi italiani.
Xavier Racine (Fabrice Luchini, immancabilmente perfetto) è un intransigente Presidente di Corte d’Assise, che amministra la Giustizia in quel Nord della Francia divenuto ormai un autentico toposcinematografico. Durante il processo relativo alla morte di una bambina, all’interno del quale rischiano di insinuarsi il pregiudizio e/o la noncuranza relativi alla condizione di emarginazione sociale che fa da sfondo alla commissione del delitto, lo sguardo del “Presidente”, come ci tiene a essere chiamato Racine, incontra quello della giurata Birgit Lorensen-Coteret (un’impeccabile Sidse Babett Knudsen): non si tratta di uno degli anonimi nominativi estratti a sorte per la composizione della Giuria, ma degli occhi che in passato hanno acceso nel cuore di Racine il bagliore di un amore mai sopito.
La dimensione teatrale del processo, un po’ troppo didascalicamente enfatizzata nel corso del film, non è certo un mistero. Il processo, soprattutto quello penale, è al tempo stesso “rito” e spettacolo, con tanto di palcoscenico, scenografia, costumi, attori e copione. Così come non è un mistero che il courtdrama sia un genere tipicamente targato USA, il quale, rafforzato dalla strutturale spettacolarità del processo di common law e dall’effetto trascinatore del botteghino americano, fatica a trovare corrispondenti altrettanto convincenti nella cinematografia del Vecchio continente: è significativo che ne La Corte uno dei personaggi si veda affidato il compito di “illustrare”, anzitutto allo spettatore, la composizione dell’aula e, quindi, l’allestimento dello spettacolo che sta per iniziare. Il lavoro di Vincent si caratterizza però per una scrittura consapevole e non approssimativa, con quei giurati seduti attorno a un tavolo in cui è pressoché inevitabile intravedere gli eredi dei 12 Angry Men (titolo originale di La parola ai giurati, sebbene il regista smentisca esplicitamente qualsiasi influenza delcult di Sidney Lumet). Rinunciando alla pomposa maestosità dello stereotipo del “processo da grande schermo”, il film riporta il tribunale e gli uomini di legge a una dimensione forse più prosaica, ma indubbiamente familiare a chi è abituato a frequentare i luoghi della Giustizia.
Il personaggio interpretato da Fabrice Luchini riproduce proprio il dualismo tra la dimensione solennemente pubblica e quella romanticamente privata attorno al quale si sviluppa l’intero racconto. L’Ermellino (non a caso sottolineato dal titolo originale “L’Hermine“) e la sciarpa rossa, il Giudice che conduce con sicurezza il dibattimento e l’uomo che non sostiene il pressante interrogatorio della figlia adolescente di Birgit: due anime efficacemente distinte dalla recitazione di Luchini, pronte a ricomporsi in armonica unità nel finale.
La commedia “romantico-giudiziaria” tratteggiata da La Corte è anche la nitida fotografia di uno spaccato sociale sul quale hanno richiamato a lungo l’attenzione, nella conferenza stampa veneziano, tanto il regista quanto il protagonista, nel corso di un irresistibile show di Luchini che ha spaziato dalla riflessione politica alla lezione sul mestiere dell’attore.
data di pubblicazione 22/03/2016
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da Antonella Massaro | Mar 17, 2016
Il 2015 riporta in auge il connubio tra giornalismo d’inchiesta e grande schermo, che sembrava ormai relegato negli scaffali del cinema da collezione: dopo l’ottima accoglienza di Spotlight alla 71. Mostra d’arte cinematografica di Venezia, Truth si è visto assegnato il compito di inaugurare la decima edizione della Festa del Cinema di Roma e di invertire la tendenza rispetto alle più disimpegnate aperture delle ultime edizioni (L’ultima ruota del carro, Soap Opera). Entrambe le pellicole arrivano, pressoché in contemporanea, sugli schermi italiani.
Il film d’esordio di James Vanderbilt racconta la scandalo esploso a seguito di una puntata della trasmissione televisiva “60 Minutes” andata in onda nel 2004, nell’ultima fase di quella campagna elettorale post 11 settembre che avrebbe consegnato per la seconda volta lo scettro di Presidente degli Stati Uniti a George W. Bush.
Il “boccone è succulento”: molti privilegiati figli del Texas, tra cui il giovane Bush Junior, evitano il sanguinario fronte della Guerra in Vietnam arruolandosi nella più rassicurante Guardia Nazionale dell’Aeronautica, non certo sulla base di pretesi meriti da pilota, ma sfruttando la via spianata dalle pressioni e dalle raccomandazioni che regolano i rapporti tra uomini di potere.
Mary Mapes (Cate Blanchett), dopo aver scosso l’America (e non solo) con il servizio sulla prigione di Abu Ghraib, decide di “produrre” anche questa storia, mettendo in campo una squadra formata dal Colonnello Roger Charles (Dennis Quaid), dalla docente di giornalismo Lucy Scott (Elisabeth Moss) e dall’alternativo freelance Topher Grace (Mike Smith). Il racconto televisivo è affidato al volto e alla voce di Dan Rather (Robert Redford), autentica istituzione dell’informazione made in USA.
I tasselli del mosaico sembrano progressivamente ricomporsi in quadro coerente e credibile, confortato da documenti e dichiarazioni tra loro concordanti. La puntata viene però mandata in onda in tempi troppo stretti per rendere inattaccabile un’inchiesta a dir poco esplosiva. Il “sistema” si insinua allora nelle fessure lasciate aperte dalle lancette di “60 Minutes” e giunge ad allestire un autentico processo, in cui l’accusa e la difesa si fronteggiano senza le garanzie di un giudice terzo e imparziale.
Il meticoloso racconto del c.d. Rathergate, sostenuto da un ritmo narrativo incalzante e coinvolgente, diviene anzitutto un inno appassionato in difesa della libertà di stampa e del giornalismo alla vecchia maniera, stretto nella morsa degli intrighi della politica, delle logiche di mercato e dell’incalzare spersonalizzante dei nuovi media. Truth è però anche una più ampia riflessione sugli abusi e le prepotenze del potere, che gli anticorpi della Democrazia non riescono ad arginare. Chi, per amore di quella verità evocata dal titolo, sceglie di sfilarsi dagli ingranaggi del “sistema manipolato”, si espone al rischio dell’umiliazione professionale e personale e si vede sottoposto a tortura con la minaccia di esecuzione sommaria, fino a quando, implorando a chi abusa del suo potere di porre fine al supplizio, non ammetta la sua resa.
La prova di Cate Blachett è impeccabilmente monumentale e la sinergia con l’inossidabile Robert Redfort contribuisce a rendere pienamente convincente un film che forse indulge in qualche passaggio alla retorica del monologo demagogico, ma che urla negli occhi dello spettatore il monito di continuare a fare domande, senza accontentarsi delle risposte preconfezionate. L’alternativa è il consolidarsi di un sistema di informazione in cui la diversificazione dei media conduce paradossalmente a una sempre più impenetrabile omologazione della pubblica opinione.
data di pubblicazione 17/03/2016
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da Antonella Massaro | Feb 24, 2016
Room, tratto dal romanzo di Emma Donoghue (titolo italiano: Stanza, letto armadio, specchio) e già vincitore del premio del pubblico al Festival di Toronto, è arrivato in anteprima nazionale sugli schermi italiani durante l’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma.
Joy (Brie Larson), poco più che adolescente, viene rapita da un uomo che la tiene sequestrata in un capanno chiuso da una porta blindata, assicurandole la sopravvivenza e abusando sessualmente di lei. Il frutto della perversa prigionia è il piccolo Jack (lo straordinario Jacob Tremblay), che illumina con uno spiraglio di speranza la vita della donna. Joy protegge il bambino lasciandogli credere che non esista altro mondo al di fuori di Stanza, popolata da immobili ma fedeli creature: Armadio, Letto, Sedia 1 e Sedia 2, Gabinetto. Tutto il resto Jack lo conosce attraverso la magia della televisione, mentre lo scorrere del tempo e l’alternarsi delle stagioni è scandito dal sole, dalla pioggia e dal ghiaccio che si intravedono sui vetri di Lucernario. Quando Jack compie cinque anni, Joy decide di squarciare “il velo di Maya” che aveva caritatevolmente steso sugli occhi del bimbo, convincendolo a collaborare con lei per evadere dalla sbarre di Stanza.
Il ritorno nel mondo per Joy e la sua scoperta da parte di Jack si riveleranno però processi dolorosi e complessi. Gli occhi del bimbo devono abituarsi alla luce accecante del sole e alla messa a fuoco di immagini in vorticoso movimento, il suo corpo deve imparare a difendersi dai germi che affollano l’aria che cambia continuamente di temperatura, la sua mente deve gestire spazi infinitamente più estesi e tempi altrettanto più ridotti rispetto a quelli che regolavano la vita in Stanza.
“Venire al mondo” è tanto difficile quanto affascinante e l’attrazione per quel che si agita al di fuori di Porta è irresistibile per l’Uomo, che è anche e soprattutto un animale sociale.
Il racconto di Abrahamson sa essere potente e delicato al tempo stesso, trasformando la tragedia di un orrendo reato nella delicata poesia sulle meraviglie del mondo scoperte dall’ingenuo stupore degli occhi di un bambino costretto troppo presto a divenire adulto, ma che, sulle prime confuso dalle vertigini di Mondo, ne rimane infine benevolmente “rapito”.
data di pubblicazione 24/02/2016
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da Antonella Massaro | Feb 18, 2016
Il premio Oscar Eddie Redmayne presta i lineamenti muliebri e l’istrionico talento di attore al personaggio di Lili Elbe, che sottoponendosi nel 1930 a un intervento chirurgico per ricongiungere il corpo maschile all’anima femminile, diviene la prima riconosciuta transessuale della storia.
Tratto dall’omonimo romanzo firmato da David Ebershoff, The Danish Girl di Tom Hooper (Il discorso del Re, I miserabili), presentato durante la 72. Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, assume la consistenza di un affresco tanto dirompente quanto delicato di quella che, dall’inizio alla fine, resta un’intensa storia d’amore. Einar Wegener (Eddie Redmayne) e sua moglie Gerda (Alicia Vikander), entrambi pittori: lui ama dipingere paesaggi, esibendo un talento già ampiamente riconosciuto; lei preferisce dedicarsi ai ritratti, senza però trovare la sua reale ispirazione. Il gioco quasi puerile di posare per Gerda in abiti femminili diviene la scintilla in grado di far deflagrare una bomba già innescata da tempo nel cuore e nella mente del giovane artista. Einar adora truccarsi e atteggiarsi “come una donna” perché Einar “è una donna”. In un momento storico in cui la sua condizione si trova etichettata come anomalia biologica dalle mille diagnosi, destinata alla “cura” con trattamenti terapeutici invasivi o al confino nelle tenebre ghettizzanti del manicomio, la presa di consapevolezza di Einar-Lili non è né scontata né agevole. La proiezione socio-culturale della storia cede tuttavia il posto alla dimensione di intima transizione vissuta dai due protagonisti, che si prendono coraggiosamente per mano mettendosi in cammino lungo un sentiero forse doloroso ma indubbiamente doveroso. Il tutto incorniciato da una natura sontuosa e scandito da quell’arte pura e salvifica che, sempre a Venezia 72, era già comparsa in Francofonia e Marguerite.
Il tessuto narrativo si caratterizza per l’apprezzabile rievocazione di un’infanzia priva, per una volta, di traumi pronti a giustificare la “particolarità sessuale”, anche se, tralasciando il cliché dell’inversione dei ruoli all’interno della coppia (è Genda il vero “maschio” tra i due), il passaggio da una fase all’altra della complessa metamoforsi-rinascita del protagonista appare a tratti segnato da transizioni troppo bruscamente repentine per risultare del tutto credibili.
L’interpretazione di Redmayne, semplicemente perfetta nella sua sorprendente capacità di lasciar trasparire la vibrante emozione della progressiva presa di coscienza, è senza dubbio una prova da premio. Ciò che importa, come ha precisato l’attore intervenuto in conferenza stampa a Venezia, è tenere distinto il “genere” dalla “sessualità”, secondo logiche e meccanismi che ha potuto imparare a comprendere attraverso il proficuo e generoso confronto con molti transgender, il cui aiuto si è rivelato prezioso per la preparazione del ruolo. Alicia Vikander si inserisce nel film con convinzione e indispensabile complementarietà. Nel cast anche Matthias Schoenaerts (Un sapore di ruggine e ossa, A bigger splash, Suite francese) e Amber Heard.
data di pubblicazione 18/02/2016
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da Antonella Massaro | Feb 1, 2016
(Macro – Roma, 19/12/2015 – 03/04/2016)
Lasciate ogni tristezza voi ch’entrate è il monito che accoglie il visitatore della mostra Videos, radios, cianfrusaglies e che introduce nel meraviglioso e sfavillante mondo di Renzo Arbore. L’esposizione, allestita presso i locali del Macro di Roma, rende omaggio a uno dei più poliedrici rappresentanti dello spettacolo contemporaneo: musicista colto e lungimirante valorizzatore di talenti, primo DJ italiano e ardito sperimentatore cinematografico.
Renzo Arbore, però, è soprattutto un viaggiatore instancabile e un appassionato osservatore del mondo che lo ospita, con l’inguaribile (s)mania di comprare quelli che alcuni definiscono gadgets, altri cianfrusaglie, ma che secondo lui restano autentiche “stronzate”: oggetti di scarso valore intrinseco, quasi sempre di dubbio gusto, immancabilmente di plastica, che solo legati al nome di Renzo Arbore potevano trovare la via per finire esposti in un museo. Bisogna comprarli come quando si fa una rapina, senza pensarci troppo, avverte Arbore: perché se ci fermasse anche solo un momento a riflettere, il coraggio di portare a termine quell’acquisto verrebbe inevitabilmente meno.
L’aspetto più interessante della mostra è certamente il viaggio perennemente sospeso tra la dimensione pubblica e quella privata di un mattatore che non smette di affascinare il suo pubblico. Le copertine di giornali e delle riviste che hanno segnato in maniera irreversibile e riconoscibile molti dei decenni appena trascorsi, la collezione di occhiali tra cui si distinguono quelli di Mariangela Melato, la passione viscerale per la musica jazz, gli “abiti di scena” (camicie, cravatte, gilet e cappelli) che hanno reso Arbore riconoscibile al grande pubblico, i versi di riconoscenza di Roberto Benigni. Il tutto intervallato da installazioni video e autentiche “postazioni cinematografiche”, che proiettano quei frammenti di televisione da quali emerge con immutata chiarezza una geniale attitudine all’arte e alla sperimentazione.
Un originale viaggio tra immagini, suoni e colori che non lascia disattese le aspettative.
Unica nota dolente: il prezzo del biglietto all’entrata e il costo dei gadgets in vendita all’uscita, che tratteggiano un listino prezzi indubbiamente assai lontano dalla “cianfrusaglies-filosofia”.
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