da Antonella Massaro | Set 4, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
La complessa rete di rapporti che lega una giovane donna e un Reverendo si traduce in un viaggio nel fanatismo religioso e nella miseria umana, ambientato nella desolazione del West.
Stati Uniti d’America, Badlands, XIX secolo. Liz (Dakota Fanning) parla solo attraverso il linguaggio dei segni, ma, anche grazie al supporto della figlioletta, sembra perfettamente inserita in una di quelle piccole comunità del Wild West raccolte intorno alla propria Chiesa e al proprio Reverendo, in cui però la pietà e la devozione sono solo la fragile facciata dietro la quale si celano i sentimenti più oscuri e degradanti. L’arrivo del nuovo Reverendo (Guy Pearce, in una delle sue migliori prove d’attore) turba profondamente Liz. La paura e la violenza irrompono prepotentemente nella storia, che, seguendo un andamento ritroso, dall’Apocalisse fino alla Genesi, chiarisce la complessa trama di rapporti che lega i due protagonisti.
La composita epopea raccontata da Martin Koolhoven conduce nell’abisso delle pulsioni più orride e ripugnanti, alimentate da un farneticante fanatismo religioso che arriva a giustificare ogni più squallida miseria umana. Dall’altra parte si pongono (e si oppongono) la speranza che diviene coraggio, il desiderio di rivalsa che diviene anelito di emancipazione. Il finale tenterà di (ri)comporre, sia pur in maniera contraddittoria, il nero e il bianco chiamati a fronteggiarsi nel corso della storia.
Con Brimstone la selezione ufficiale di Venezia 73 esplora un’ulteriore sfaccettatura dei generi, approdando a western con tanto di duello tra pistoleri sul terreno polveroso della via antistante al bordello cui è affidato un ruolo cruciale nell’intreccio narrativo. Le numerose ed esplicite scene di violenza rappresentano indubbiamente una delle cifre più caratterizzanti del film, anche se non sempre conferiscono un reale valore aggiunto a quel viaggio nella desolazione umana del West che forse il regista olandese intraprende con qualche punta di eccesso di zelo.
L’impressione complessiva è quella di un racconto ridondante, non solo per la durata di 148 minuti, ma anche per la tendenza a sovraccaricare il filo rosso di una storia che diviene difficile da rinvenire quando il film volge al termine.
Non basta l’elegante citazione de La pietà di Michelangelo e, più in generale, l’evidente ricerca estetica che pervade tutto il film. Così come non basta la solidità del cast, con le convincenti interpretazioni di Guy Pearce, Dakota Fanning, Emilia Jones (nel ruolo di Liz da adolescente) e il cammeo di Kit Harington e Carice van Houten, provenienti direttamente da Il trono di spade.
Brimstone, malgrado la durata, resta un’opera per molti aspetti incompiuta, che non riesce nell’impresa, centrata da Arrival con la fantascienza, di muovere dalle costanti del genere per poi superarle in maniera originale.
data di pubblicazione: 04/09/2016
da Antonella Massaro | Set 3, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
“The Anarchist Cookbook” è il noto “manuale del perfetto rivoluzionario”, con tanto di ricette per la fabbricazione domestica di ordigni esplosivi, che pare abbia rappresentato la lettura preferita degli attentatori che hanno insanguinato la democrazia americana negli ultimi decenni. William Powell prova a spiegare cosa significhi essere l’autore di quel libro.
Le stragi più sanguinarie che hanno ferito (in senso non solo materiale) la democrazia americana negli ultimi decenni, dal massacro alla Columbine High School agli ultimi delitti targati ISIS, parrebbero svelare un minimo comun denominatore. Molti degli attentatori erano in possesso di una copia di The Anarchist Cookbook, libro scritto da William Powell e pubblicato nel 1970. Una sorta di “manuale del perfetto rivoluzionario”, in cui, accanto al manifesto ideologico di chi si faceva portavoce della controcultura in grado di salvare il mondo, figurano ricette illustrate in grado di spiegare, in maniera accessibile anche ai meno esperti, come fabbricare esplosivi o realizzare sabotaggi. Un caso letterario e politico capace di andare ben oltre la contingenza del ’68, anche grazie alla moltiplicazione esponenziale assicurata dal web e dalla facilità di acquisto garantita da Amazon.
In American Anarchist, presentato fuori concorso alla 73. Mostra di Venezia, Charlie Siskel dà voce proprio all’autore William Powell, morto qualche mese fa (luglio del 2016). L’uomo a volte ironico e a volte smarrito che compare sullo schermo sembra del tutto diverso, persino nello sguardo, dal ragazzo di 19 anni che, imbevuto di ideali e di speranze, credeva nella necessità di “fare la rivoluzione”. Prova rimorso per quello che ha scritto e per come lo ha scritto, ma non ha posto fine alla distribuzione del libro nel momento in cui avrebbe potuto ritirarlo definitivamente dal mercato. Non si sente responsabile delle stragi compiute, ma non può negare di avvertire la responsabilità e il vero e proprio rimorso (che è cosa diversa dal rimpianto) per uno strumento che si è prestato a un uso distorto. Chi scrive un libro non è certamente assimilabile a chi commette una strage, per quanto le parole si sono rivelino spesso armi potenti quando si tratta di giustificare la violenza. Le bombe fabbricate secondo le ricette di Powell hanno fatto vittime anche nelle scuole: nella sua “seconda vita”, per una sorta di curioso e crudele paradosso, Powell si dedica proprio all’insegnamento, specie a favore di quei “ragazzi difficili” che hanno trovato nel suo manuale il mezzo per comunicare con una società poco inclusiva nei loro confronti.
American Anarchist può essere osservato da almeno due prospettive. Focalizzando l’attenzione unicamente sul contenuto, si tratta indubbiamente di una storia che merita di essere raccontata, non solo perché sconosciuta al grande pubblica, ma perché offre la possibilità di rileggere criticamente un passato ancora molto recente. Volgendo invece lo sguardo al contenitore, sembra difficile scorgere un prodotto cinematografico capace di andare oltre la (pur interessante) intervista corredata da (ancor più interessante) materiale di repertorio.
Sembra in ogni caso condivisile la scelta di offrire a un documentario di questo tipo una vetrina tanto prestigiosa come quella di Venezia. Resta però un interrogativo: se The Anarchist Cookbook fosse stato il manifesto di un’ideologica esattamente speculare a quella “sessantottina”, si sarebbe trattato di un’operazione altrettanto “digeribile”?
data di pubblicazione: 02/09/2016
da Antonella Massaro | Set 2, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
A seguito di un’invasione aliena, la linguista Louise Banks si vede affidato l’arduo compito di decifrare il modo di comunicare, e quindi di essere, delle misteriose creature atterrate sul pianeta Terra.
12 oggetti non identificati approdano in luoghi molto distanti del globo terrestre, gettando le popolazioni e i rispettivi capi di Stato in una condizione mista di sconcerto e terrore. Sembrerebbe l’ennesima storia dell’ennesima invasione aliena quella raccontata da Arrival, ma il film di Denis Villeneuve riesce a sorprendere una Mostra di Venezia perennemente oscillante tra storie rivolte al passato oppure proiettate verso il futuro, ma unificate dal comune intento di veicolare una riflessione sul presente.
Difficile comprendere quale sia l’intento che ha spinto le strane e inquietanti creature ad approdare sulla Terra. Difficile comprendere addirittura se le strane creature riescano a decifrare il concetto di “intento”. Per ottenere delle spiegazioni che mettano a tacere l’ansiosa fame di risposte da parte di un mondo che si sente sotto assedio per il solo fatto di non conoscere i propri ospiti, bisogna dapprima individuare un codice che consenta una comunicazione tra “umani” e “non umani”, mettendo a punto un alfabeto, una grammatica e una sintassi condivisi. Proprio per questa ragione il Colonnello Weber (il premio Oscar Forest Whitaker) decide di affidarsi alla linguista Louise Banks (la convincente Amy Adams, a Venezia anche con Nocturnal Animals), affiancata dallo scienziato Ian Donnelly (Jeremy Renner).
Il linguaggio, del resto, non solo è alla base di ogni convivenza “civile”, ma incide sui centri maggiormente attivi del cervello, influenza il modo di pensare dell’essere umano e il suo rapportarsi alle coordinate spazio-temporali di riferimento. Non resta che decifrare il modo di comunicare, e quindi di essere, dei nuovi arrivati.
Louise, sforzandosi di restare impermeabile alle logiche di quelle istituzioni da cui pure è stata reclutata, intraprenderà un viaggio alla scoperta delle nuove creature e, in definitiva, di se stessa.
Linearità e circolarità del tempo, necessità e libertà nel progredire della vita di ognuno: sono alcuni dei temi che, anche grazie a una sceneggiatura accurata e convincente, il progressivo dialogo con gli extraterrestri riesce a portare in primo piano. Sullo sfondo, ma sempre ben visibile, resta il tema così eterno eppure così attuale della necessità di comunicare e di restare uniti per evitare di restare sopraffatti dalla paura del “diverso”, posto le “incomprensioni” generano divisioni, caos e, quindi, guerra.
L’impressione complessiva è quella di un film che, pur ripercorrendo alcuni dei più consolidati stilemi del cinema fantascientifico, riesce a imporsi per originalità e consapevolezza anche a un pubblico esigente come quello del Lido.
data di pubblicazione: 02/09/2016
da Antonella Massaro | Set 2, 2016
(73. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 2016)
Un’isola tra due oceani, un faro e il suo guardiano, un uomo e una donna chiamati al cospetto delle proprie responsabilità.
Responsabilità, senso di colpa, coraggio e perdono. Sono queste le parole chiave che potrebbero sintetizzare The light between oceans di Derek Cianfrance, in concorso alla 73. Mostra di Venezia.
Tom (Michael Fassbender, di recente candidato all’Oscar per Steve Jobs) diviene il guardiano del faro dell’isola Janus. È reduce dalla prima guerra mondiale e dopo gli orrori della trincea non teme l’assolutezza di una solitudine che ha messo a dura prova i precedenti guardiani. Desira anzi concedersi una pausa dalle proprie responsabilità, nascosto e protetto dalla magnificente sontuosità di una natura che diviene a tutti gli effetti una protagonista della suggestione visiva confezionata da Cianfrance. Izabel (Alicia Vikander, premio Oscar per The Danish girl) riaccende in Tom la scintilla di una vitalità che pareva irrimediabilmente soffocata e sceglie di condividere il magnifico isolamento di Janus, in una dimensione sospesa dallo spazio e dal tempo. Il passato, del resto, va superato e del futuro non si può parlare, trattandosi al più di speranze o desideri: non resta dunque che vivere il presente, cristallizzandolo in un fotogramma sospeso tra il “prima” e il “poi”. Come Giano bifronte e il mese di gennaio che da quella divinità deriva il suo nome, a metà strada tra la fine del vecchio anno e l’inizio di quello nuovo. Come l’isola di Janus e il suo faro, chiamati a fare da spartiacque e, al tempo stesso, da raccordo, tra due oceani. Ma il tempo e la vita sono refrattari a ogni tentativo di fermo immagine e continuano inesorabili la propria corsa verso l’eterno ritorno.
Dal mare arriva una prova: un uomo morto e una bimba viva a bordo di una barca alla deriva. Le coscienze dei due protagonisti si trovano di fronte alla necessità di una scelta, innescando una spirale di sentimenti contrastanti, una tempesta in grado di rendere invisibile quel faro che aveva restituito l’impressione di un rassicurante punto di riferimento. Ogni scelta però comporta delle responsabilità, dalle quali neppure la solitudine dell’isola può rendere esonerati. Non resta dunque che trovare la via per evadere da quella che, per usare le parole scelte da Alicia Vikander, si trasforma in una vera e propria “prigione emotiva”.
Tratto dall’omonimo romanzo di M.L. Steadman, The light between oceans riesce senza dubbio nell’intento di confrontarsi con interrogativi universali, capaci di andare ben oltre la contingenza della singola storia. Michael Fassebender e Alicia Vikander, approdati al Lido come coppia nella vita dopo l’intesa trovata proprio sul set del film, (sor)reggono una sceneggiatura dal peso indubbiamente non trascurabile, a tratti ridondante, con qualche concessione di troppo nel finale. La regia, la fotografia e il talento degli attori (molto convincente anche la prova di Rachel Weisz) riescono però a tenere insieme i pezzi di una storia dalle molteplici chiavi di lettura.
data di pubblicazione: 02/09/2016
da Antonella Massaro | Mag 16, 2016
George Clooney e Julia Roberts di nuovo insieme sul grande schermo. Jodie Foster dietro la macchina da presa. Lo spettatore di Money Monster – L’altra faccia del denaro si siede in sala pronto a lasciarsi sorprendere dal trio delle meraviglie. E le sue aspettative non restano deluse.
Lee Gates (George Clooney) conduce il programma televisivo “Money Monster”, con il quale rende accessibili i misteri dell’alta finanza al grande pubblico: con un stile spesso sopra le righe, ammantato di paillettes e lustrini, Lee commenta l’andamento del mercato, fa previsioni, consiglia investimenti. È una star, eccentrica ed egocentrica, capace di trasformare in intrattenimento il turbinio di denaro che si muove a livello globale e a velocità non umanamente controllabili.
In cabina di regia siede Patty Fenn (Julia Roberts), che riesce mirabilmente, ma con insofferenza crescente, a stare dietro alle continue improvvisazioni di Lee.
Durante una trasmissione in diretta irrompe nello studio il giovane Kyle Budwell (Jack O’Connell), con una pistola, una bomba e un detonatore. Ha investito tutti i suoi risparmi nelle azioni della società IBIS seguendo il consiglio di Lee Gates, ma un improvviso glitch, un errore di sistema nel funzionamento dell’algoritmo progettato per gestire in modo sicuro i risparmi degli investitori, ha determinato una perdita di 800 milioni di dollari. Ora non chiede indietro il suo denaro, ma cerca delle risposte. E Lee Gates e Patty Fenn faranno di tutto per trovarle.
Il messaggio di Money Monster risuona chiaramente ed è lo stesso su cui il cinema americano si è interrogato spesso (per restare alle pellicole più recenti 99 Homes e La grande scommessa): dietro le complesse macchinazioni dell’èlite finanziaria c’è la massa di piccoli risparmiatori, che complessivamente sono necessari al funzionamento della macchina globale, ma singolarmente non sono indispensabili alla sua folle corsa. E dietro ciascun piccolo risparmiatore c’è una storia fatta di sacrifici e di sogni, capaci di essere spazzati via da un improvviso e imprevedibile glitch.
Il film di Jodie Foster riesce però a comunicare quel messaggio in maniera originale, fondendo magistralmente lo stile drammatico e le battute da commedia, l’andamento adrenalinico e il sentimento non smielato (emblematica la sequenza in cui Lee chiede aiuto al “suo” pubblico, invitandolo a investire in diretta su IBIS per assicurare un recupero del titolo). Il tutto tenuto insieme da svolte narrative sincronizzate con una perfezione magistrale, capaci in più di un’occasione di sorprendere lo spettatore.
A ciò si aggiunge la cura meticolosa riservata alle sfumature di ciascun personaggio, dai protagonisti a quelli secondari. Fenn, che non riesce a dirigere come vorrebbe il programma “finto” di Lee, recupera nell’emergenza della realtà il suo più autentico ruolo di regista. Lee mette da parte il cinismo in nome di un ideale di giustizia. Kyle resta inevitabilmente affascinato dal meraviglioso mondo della TV. E così via, fino all’ultimo dei cameramen e dei poliziotti, in un film che in fondo risulta corale e in cui la magnificenza dei protagonisti si amalgama armoniosamente nel contesto, seguendo l’andamento di un copione ben scritto e di una macchina da presa consapevole. La psichedelica regia delle sequenze inziali anticipa i fuochi di artificio della storia, tanto nella più corposa parte girata in studio quanto nelle “epiche” sequenze finali. Fino alla conclusione per cui, nonostante tutto, the show must go on, specie quando lo show è in tutti i sensi business.
Presentato fuori concorso al Festival di Cannes e uscito contemporaneamente in Italia, come molte delle pellicole che stanno rischiarando la Croisette in questi giorni, Money Monster è un film da non perdere.
data di pubblicazione: 15/05/2016
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