SOLE CUORE AMORE di Daniele Vicari, 2017

SOLE CUORE AMORE di Daniele Vicari, 2017

Il precariato nel lavoro che diviene precariato nella vita. Gli ultimi che, almeno in terra, non diverranno mai i primi. Una storia semplice e al tempo stesso complicata su cui il cinema italiano aveva bisogno di riflettere.

Il motivetto scanzonato del tormentone portato al successo quindici anni fa da Valeria Rossi diviene il titolo di una storia semplice e complicata al tempo stesso. Semplice, perché una volta usciti dalla sala di proiezione basta guardarsi attorno per rendersi conto di quanto comuni siano le vicende raccontate da Daniele Vicari. Complicata, perché l’impotenza dei personaggi di Sole cuore amore somiglia molto a un sentiero senza vie d’uscita.

La riflessione sui tempi del precariato nel lavoro e nella vita è affidata alla storia di due donne, tanto amiche al punto da sentirsi sorelle.

Eli (Isabella Ragonese) è sposata con Mario (Francesco Montanari). Hanno quattro figli e un solo lavoro, quello di Eli, costretta a un’estenuante maratona di mezzi pubblici dall’alba fino al tramonto per raggiungere da Ostia un bar nel quartiere Tuscolano di Roma. Il puntuale ritardo degli autobus e le condizioni di lavoro in cui non c’è spazio per diritti e tutele iniziano a diventare un macigno troppo pesante, anche per le robuste spalle e il sorriso radioso di Eli.

Vale (Eva Grieco) ha lasciato la Facoltà di fisica per dedicarsi al mestiere di ballerina. Anzi, di performer, perennemente in bilico tra le esposizioni di arte moderna e le serate nei locali notturni. Tra una madre che prova imbarazzo per un lavoro che non considera tale, un padre morto “per colpa sua” e una sessualità che, come la sua vita, fatica a trovare una stabile collocazione, Eva sembra ricevere conforto dalla famiglia di Eli, offrendosi di spiegare ai suoi bimbi le equazioni e far aprire solo per loro le porte del parco giochi acquatico.

Sole cuore amore, affresco intriso di un realismo a tratti rassegnato, consegna al cinema italiano un’interessante riflessione su quegli ultimi che, almeno in terra, non arriveranno mai a essere primi. Presentato nell’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, insieme, tra l’altro, a 7 minuti di Michele Placido, testimonia chiaramente l’urgenza della rinascita di un cinema (anche) politico-sociale.

La sceneggiatura, almeno a tratti, indulge a qualche stereotipo di troppo. Non è certo l’originalità la cifra che si ricerca in un film che pretende di raccontare la vita “comune”, ma da quei passi di danza che scandiscono dall’inizio alla fine il ritmo della storia, forse, ci si poteva aspettare qualche slancio più convinto e convincente.

Ottima la prova di Isabella Ragonese, perfetta mentre sostiene tanto le diverse anime del suo personaggio quanto i 113 minuti del film.

data di pubblicazione: 4/05/2017


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L’ACCABADORA di Enrico Pau, 2017

L’ACCABADORA di Enrico Pau, 2017

Un angelo della morte si aggira spettrale tra le rovine materiali e morali di una Cagliari distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.

La “femmina accabadora” è colei che, segnata da un destino in parte inevitabile, raccoglie dalla madre l’eredità di dare la morte a chi sta soffrendo troppo per poter continuare la propria vita. Sospesa tra il mito e la realtà dei racconti che disegnano una Sardegna arcaica e ancestrale, l’accabadora è una figura che ha già ispirato l’omonimo romanzo di successo di Michela Murgia, del quale il film di Enrico Pau riproduce indubbiamente atmosfere e suggestioni senza però che, contrariamente a quanto lo spettatore possa immaginare arrestandosi alla lettura del titolo, la pellicola sia tratta dal libro.

L’Accabadora è strutturato lungo la contrapposizione tra i villaggi della Sardegna dei primi anni Quaranta del secolo scorso, apparentemente immobili nella fissità di un passato che solo a fatica lascia spazio al futuro, e la moderna Cagliari, sventrata dai bombardamenti e impotente di fronte agli orrori della guerra.

Annetta (Donatella Finocchiaro) si muove dalla campagna alla città in cerca di Tecla (Sara Serraiocco), sua nipote, fuggita alla ricerca di una vita migliore dopo la morte della madre. Alloggia in una villa resa spettrale dalla guerra, rendendosene custode visto che le proprietarie, muovendosi in una direzione uguale e contraria rispetto alla protagonista, decidono di rifugiarsi in campagna.

Nel suo viaggio attraverso le viscere di Cagliari, Annetta incontrerà il medico Albert (Barry Ward) che presta la sua opera in una sorta di lazzaretto di corpi e di anime, al quale approderà anche la giovane Tecla. Indubbiamente interessante, sebbene non del tutto amalgamato nel tessuto narrativo, il rapporto con Alba (Carolina Crescentini), un’artista che si dedica anche al restauro di statue “malate”. L’accabadora, il medico, la restauratrice: modi diversi per far fronte alla sofferenza, tenuti insieme da una pietà che va oltre la scienza e la fede, anche se segnata da un’insuperabile sofferenza.

Sebbene il lavoro di Pau possa contare su un cast ineccepibile e su una fotografia sempre protagonista, la sceneggiatura non sembra in grado di restituire la complessità dei personaggi, a partire dalla protagonista, costringendola entro un quadro visivamente potente ma narrativamente appiattito su un andamento in larga parte identico a se stesso.

data di pubblicazione: 30/4/2017


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SLAM – TUTTO PER UNA RAGAZZA di Andrea Molaioli, 2017

SLAM – TUTTO PER UNA RAGAZZA di Andrea Molaioli, 2017

Un ragazzo di sedici anni, il suo skateboard, l’amore per una ragazza, le responsabilità cui neppure gli adulti sembrano in grado di assolvere. Riusciranno i nostri eroi a vivere la realtà senza rinunciare ai propri sogni?

Sam (Ludovico Tersigni) ha sedici anni e la voglia di vivere in simbiosi con il suo skateboard. Quando però incontra Alice (Barbara Ramella), scende dalla tavola per perdersi nel labirinto dell’amore adolescenziale, quello che ti infiamma e poi ti gela con la stessa impietosa repentinità. Alice resta incinta e Sam sembra destinato a perpetuare la storia della famiglia dalla quale proviene: sua madre (Jasmine Trinca), infatti, ha trentadue anni e non perde occasione per ricordare a sé stessa e a chi le sta accanto quanto le abbia sconvolto la vita una gravidanza così precoce. Il papà di Sam (Luca Marinelli, attualmente in sala con Il padre d’Italia), poi, non è esattamente un modello da prendere come riferimento e l’unico consiglio che può dare al figlio è quello di fuggire dalle sue responsabilità, proprio come aveva scelto di fare lui sedici anni prima.

Sam e Alice riusciranno a trovare, a loro modo, un equilibrio, fuori dall’ideale di una famiglia e di una storia d’amore perfette, ma forse con maggiore solidità di quella che i rispettivi genitori sono stati in grado di assicurare loro.

Il cinema italiano più recente sembra aver riscoperto il gusto per le storie ispirate dal mondo adolescenziale: Piuma, L’estate addosso e, tra poco nelle sale, Non è un paese per giovani.

Slam, tratto dall’omonimo romanzo di Nick Hornby e diretto da Andrea Molaioli (La ragazza del lago, Il gioiellino) è indubbiamente animato dalle migliori intenzioni, specie per evitare di inciampare nello stereotipo che, per pellicole di questo tipo, è sempre in agguato. La cifra narrativa si caratterizza per una continua oscillazione tra realtà e sogno. Sam intrattiene un costante dialogo ideale con Tony Hawk, il più famoso skater della storia, la cui voce originale interviene e a scandire le fasi più significative della storia. Alla stessa cifra narrativa appartengono anche i “salti temporali” del racconto, che sovrappongono le coordinate spazio-temporali e cercano di condurre lo spettatore nel sogno ad occhi aperti di Sam.

L’impressione complessiva, tuttavia, è quella di un film che perde la sua identità nel momento in cui decide di avere tante (troppe): non è un teen movie, ma non è neppure altro. Nonostante il solidissimo cast sul quale si poggia, Slam perde di incisività nella parte centrale, quando il connubio tra realtà e finzione non riesce a realizzarsi pienamente. Il film di Molaioli resta però un esperimento interessante, che strizza l’occhio più a un pubblico di genitori che di figli.

data di pubblicazione: 23/03/2017


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LA LUCE SUGLI OCEANI di Derek Cianfrance, 2017

LA LUCE SUGLI OCEANI di Derek Cianfrance, 2017

Un’isola tra due oceani, un faro e il suo guardiano, un uomo e una donna chiamati al cospetto delle proprie responsabilità.

Responsabilità, senso di colpa, coraggio e perdono. Sono queste le parole chiave che potrebbero sintetizzare The light between oceans di Derek Cianfrance, presentato alla 73. Mostra di Venezia.

Tom (Michael Fassbender, candidato all’Oscar nel 2016 per Steve Jobs) diviene il guardiano del faro dell’isola Janus. È reduce dalla prima guerra mondiale e dopo gli orrori della trincea non teme l’assolutezza di una solitudine che ha messo a dura prova i precedenti guardiani. Desira anzi concedersi una pausa dalle proprie responsabilità, nascosto e protetto dalla magnificente sontuosità di una natura che diviene a tutti gli effetti una protagonista della suggestione visiva confezionata da Cianfrance. Izabel (Alicia Vikander, premio Oscar 2016 per The Danish girl) riaccende in Tom la scintilla di una vitalità che pareva irrimediabilmente soffocata e sceglie di condividere il magnifico isolamento di Janus, in una dimensione sospesa dallo spazio e dal tempo. Il passato, del resto, va superato e del futuro non si può parlare, trattandosi al più di speranze o desideri: non resta dunque che vivere il presente, cristallizzandolo in un fotogramma sospeso tra il “prima” e il “poi”. Come Giano bifronte e il mese di gennaio che da quella divinità deriva il suo nome, a metà strada tra la fine del vecchio anno e l’inizio di quello nuovo. Come l’isola di Janus e il suo faro, chiamati a fare da spartiacque e, al tempo stesso, da raccordo, tra due oceani. Ma il tempo e la vita sono refrattari a ogni tentativo di fermo immagine e continuano inesorabili la propria corsa verso l’eterno ritorno.

Dal mare arriva una prova: un uomo morto e una bimba viva a bordo di una barca alla deriva. Le coscienze dei due protagonisti si trovano di fronte alla necessità di una scelta, innescando una spirale di sentimenti contrastanti, una tempesta in grado di rendere invisibile quel faro che aveva restituito l’impressione di un rassicurante punto di riferimento. Ogni scelta però comporta delle responsabilità, dalle quali neppure la solitudine dell’isola può rendere esonerati. Non resta dunque che trovare la via per evadere da quella che, per usare le parole scelte da Alicia Vikander, si trasforma in una vera e propria “prigione emotiva”.

Tratto dall’omonimo romanzo di M.L. Steadman, The light between oceans riesce senza dubbio nell’intento di confrontarsi con interrogativi universali, capaci di andare ben oltre la contingenza della singola storia. Michael Fassebender e Alicia Vikander (sor)reggono una sceneggiatura dal peso indubbiamente non trascurabile, a tratti ridondante, con qualche concessione di troppo nel finale. La regia, la fotografia e il talento degli attori (molto convincente anche la prova di Rachel Weisz) riescono però a tenere insieme i pezzi di una storia dalle molteplici chiavi di lettura.

data di pubblicazione: 09/03/2017


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OMICIDIO ALL’ITALIANA di Maccio Capatonda, 2017

OMICIDIO ALL’ITALIANA di Maccio Capatonda, 2017

La Giustizia affidata alle indagini condotte nei salotti televisivi e i giornalisti che divengono sacerdoti di un rito pronto a sacrificare ogni morale all’altare dello share: un surreale ma incredibilmente realistico affresco di quel che resta di uno Stato di diritto umiliato dalla logica del processo mediatico.

Acitrullo è un piccolo paese (s)perduto nell’entroterra molisano, dove si può arrivare solo affrontando una serie interminabile di curve, salite, discese e strade interrotte. 16 anime, età media 68 anni, niente campo per il cellulare e un modem 56K che fallisce il suo tentativo di connessione con il resto del mondo.

Il Sindaco Pino Peluria (Maccio Capatonda) non riesce ad arrestare l’inesorabile esodo dei compaesani verso Campobasso e anche suo fratello Marino (Herbert Ballerina) sogna ormai una nuova vita nella “capitale del mondo”. L’improvvisa morte dell’arcigna contessa Ugalda Martirio in Cazzati (Lorenza Guerrieri) riaccende però le speranze di Pino. Acitrullo ha l’occasione di conoscere i fasti di Avetrana, Novi Ligure, Cogne, Erba: paesi sconosciuti, che la TV e il turismo dell’orrore hanno reso famosi nel mondo.

In paese arrivano le forze dell’ordine capeggiate dall’inetto commissario Fiutozzi (Gigio Morra), ma le indagini sono condotte dalla troupe di “Chi l’acciso” e dalla regina dello share tinto di giallo, la dottoressa Donatella Spruzzone (una superba Sabrina Ferilli). Gli effetti benefici non tardano ad arrivare: Acitrullo, reso famoso dalla luce accecante del piccolo schermo, è inondato da turisti provenienti da ogni parte d’Italia che, importando l’abitudine dell’aperitivo e della musica ad alto volume, portano il benessere e spazzano via l’identità del piccolo centro.

La comicità surreale di Maccio Capatonda, distanziandosi dalle realtà, ne tratteggia un affresco impietoso ed efficace: il regista che dispone il “trucco” del cadavere affinché il sangue risalti meglio, l’assassino scelto con il televoto, il commissario che legge il gobbo predisposto dai “professionisti del settore” e l’ammiccante conduttrice televisiva che organizza l’agenda mediatica al solo fine di massimizzare gli ascolti. Quando una storia passa attraverso il piccolo schermo, ammonisce Donatella Spruzzone, non importa più che si tratti di un omicidio o di una catastrofe naturale: tutto diviene intrattenimento, tutto resta piegato al macabro gusto dello spettatore “medio”, ipnotizzato dal rituale del processo mediatico e disposto a tutto pur di assicurarsi un selfie sui luoghi del delitto.

Quando Pino Peluria esclama “I giornalisti stanno venendo ad arrestarci”, con conseguente irruzione in casa del Sindaco di una squadra armata di telecamere e microfoni, la sovversione dello Stato di diritto può dirsi ultimata.

Sebbene qualche gag non risulti del tutto efficace, Omicidio all’italiana resta un esperimento interessante. Impeccabile Sabrina Ferilli, nel ruolo della sacerdotessa del rituale mediatico. Preziosi i camei di Nino Frassica e Ninni Bruschetta. Apprezzabile anche il finale a sorpresa che, regalando alla storia quel bagliore di reale mistero, lo colloca in maniera trasversale a cavallo dei generi, colorando di un sorriso amaro il volto dello spettatore che, almeno una volta nella vita, si sarà fermato  guardare il mondo ricostruito da un plastico.

data di pubblicazione: 07/03/2017


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