da Alessandro Pesce | Dic 10, 2014
La terza volta di Liliana Cavani alle prese con la figura gigantesca del Santo di Assisi, quasi un’ossessione che ritorna ogni ventina d’anni a tormentare la creatività della grande regista imponendo un necessario ripensamento e approfondimento.
Nel 1966 il primo incontro, abbastanza casuale, una proposta accettata dall’allora giovanissima Cavani, con modesto interesse da parte sua, poi risolta in un film televisivo che forse rimane il migliore dei tre, permeato da sollecitazioni contemporanee (le prime proteste giovanili, la contestazione agli albori) e che dal punto di vista formale risentiva sia del cinema didattico e politico sia dell’influenza del teatro epico brechtiano (di quegli anni sono i grandi allestimenti di Giorgio Strehler). Fu un Francesco che nulla concedeva all’iconografia né alla leggenda favolistica. Quasi inesistente l’aspetto dei miracoli, molto presente, invece, quello della “scomodità” del personaggio. Qualcosa di lontano dal “pazzerello” di Dio tratteggiato quindici anni prima da Rossellini e per nulla parente dall’immaginifico film che dopo qualche anno creerà Zeffirelli. L’edizione del ‘66, Francesco di Assisi nonostante, quindi, fosse scevra da ogni spettacolarizzazione, fu successo di venti milioni di spettatori, il protagonista Lou Castel fu lanciato come perfetto interprete di personaggi difficili e l’anno stesso girò I pugni in tasca.
Diversa la scena mondiale e il respiro culturale nel 1989, l’anno del secondo film, intitolato semplicemente Francesco: Liliana Cavani era diventata una regista di fama internazionale, autrice di grandi e famose pellicole, come Il portiere di notte, Aldila del bene e del male e molti altri. La produzione necessitava di nomi hollywoodiani e Mickey Rourke nel ruolo del titolo e Elena Bonham Carter come Chiara sembravano avere l’innocenza e la naiveté dei loro personaggi. Questo secondo film, ovviamente, non aveva nulla del didascalismo del primo, la storia cominciava laddove finiva l’altro, ancora oggi restano nella mente le scene eremite sulla neve, il viso tormentato di Rourke tra il dolore e il mistero della santità. La spiritualità, il misticismo hanno preso il posto della contestazione, forse per questo la fortuna di questo film al botteghino è stata decisamente relativa.
Oggi questo nuovo Francesco ai tempi di Papa Francesco, nasce dalla voglia di approfondire alcuni aspetti trascurati volutamente nei due precedenti, come l’esperienza ad Oriente e di esaltare l’impossibilità di incasellare la figura di Francesco in qualsivoglia categoria, perché la sua vita e le sue scelte sono atipiche, estreme, positivamente contraddittorie e in ultima analisi, impossibili da omologare, è questa la sua modernità, come dice la Cavani, non è possibile inquadrare Francesco nel passato, ma se mai nel futuro. Il film prodotto dalla CIAO RAGAZZI della Rai, ha per pubblico ideale i giovanissimi e troppe volte nel corso della fiction prevale un linguaggio facile e televisivo che lascia il tempo che trova, ma nonostante ciò Francesco ci tocca e incanta egualmente, soprattutto quando si percepisce quella che Diego Fabbri chiamava la follia del Cristianesimo puro.
data di pubblicazione 10/12/2014
da Alessandro Pesce | Dic 1, 2014
Gli autori di Boris hanno immaginato un contro-film natalizio dove la festa più grande dell’anno è vista come una ferale sciagura e descritta con caustico sarcasmo e corrosiva comicità. Ma solo in parte si tratta di satira sociale o antropologica, perché la costruzione della storia e dei personaggi sono lontanissimi da ogni verosomiglianza e, giustamente, fanno piuttosto pendere la bilancia dalla parte dell’ humour demenziale dove tutto è come in uno specchio deformante. La vicenda si snoda su due tempi speculari, uno ambientato in un borgo immaginario del viterbese dove gli odi atavici e il perdono sono ancora legati a beni come un decespugliatore o alla caccia al cinghiale e l’altro invece in una alta borghesia dove i rapporti familiari e le nevrosi dipendono molto dagli utili della società di famiglia, appena celati dalle manie di beneficenza della padrona di casa. I medesimi attori, tutti straordinari (da notare soprattutto i due Guzzanti, Mastrandrea ed una inedita irriconoscibile Laura Morante) interpretano ruoli in entrambe le due parti del film mentre al conduttore Cattelan e alla Mastronardi sono affidati i due innamorati che come un fil rouge attraversano tutta la vicenda. Il film è esilarante nella prima parte, una serie di sorprendenti figure e situazioni visionarie azzeccatissime, ma poi la seconda parte è più sfocata e stanca, soprattutto prevedibile.
data di pubblicazione 1/12/2014
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da Alessandro Pesce | Nov 18, 2014
Il libro di Ipazia di Mario Luzi è un esempio classico in versi dove il teatro è solo “in prestito”: ciò avviene perché l’autore, ormai scomparso, durante la sua produzione poetica si è dedicato anche alla drammaturgia – vedi Rosales , Hystrio e altri – ma dando maggior peso all’aspetto lirico anziché a quello scenico.
In scena alla Sala Uno, per la regia di Roberto Zorzuth, e prodotto dalla compagnia Politecnico col Festival dei Teatri di Pietra – con cui ha già svolto diverse piazze estive – narra lo sfondo delle vicende della affascinante protagonista, vissuta fra il IV e il V secolo d.c., scienziata e filosofa, martire del paganesimo e della libertà di pensiero e ancora oggi avvolta in un alone di mistero. Nell’epoca Ellenistica, in cui la donna è quasi sempre relegata ad un ruolo subalterno, è su di lei che sembra giocarsi il destino della città di Alessandria, durante le sommosse fra Cristiani e Impero Romano d’Oriente. Ma, anche se i versi, appunto, sembrano richiamare una partitura musicale, sono le parole ad essere pregne di significato e ad intessere il forte legame fra la poesia e la tradizione di un certo teatro italiano – ormai passata, come quella della memorabile edizione del compianto grandissimo Orazio Costa Giovangigli.
E della parola l’allestimento in questione fa un buon uso, ponendola inevitabilmente in primo piano e sorreggendola con un’ottima interpretazione degli attori, che si muovono con padronanza in uno spazio essenziale ma anche suggestivo. Articolato in otto scene con prologo ed epilogo, l’impianto registico prevede una scena fissa con momenti di Teatro fisico, alternati ad altri ben più statici. Le interpretazioni attoriali, pur essendo di cifra fin troppo tradizionale, sono stilizzate e compensano bene la apparente povertà di azione voluta dal poeta.
Ipazia appare solo in due scene intense, per essere poi chiamata in questione da altri. La figura è quella di una donna coraggiosa e in contatto con un alter-ego (forse ultraterreno?) e piena di ideali dove il caos vorrebbe produrre fondamenti per il “nuovo”. Come nel più grande teatro classico, la sua fine non viene rappresentata in pubblico, ma solo raccontata a posteriori, dopo mille presagi. Buona ed efficace l’interpretazione dell’attrice Cristina Putignano. Interessante l’apporto del personaggio ambiguo del Prefetto – interpretato con espressività e grande misura da Andrea Bonella -, da cui intravediamo i pericoli e le paure vissute da chi è al comando e tuttavia sente di essere in balia degli eventi.
Bravi anche Fabio Pappacena (Sinesio), Alessandra Cavallari (Ione), Arianna Saturni (Teodora), e lo stesso Roberto Zorzuth (Gregorio). Da vedere.
data di pubblicazione 18/11/2014
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da Alessandro Pesce | Nov 17, 2014
Tre anni dopo Inception Christopher Nolan torna a un soggetto fantascientifico. Qui la materia non è fredda e concettuale come nel precedente film, si tratta di salvare la Terra, con una missione spaziale che parte alla volta di Saturno allo scopo di trovare delle risorse: negli States, infatti, le coltivazioni sono ridotte al minimo e non c’è da mangiare. Non immaginate però imprese in pompa magna supportate dal tifo popolare e venate di eroismo. La missione si svolge in assoluta segretezza. Nell’equipaggio c’è un padre: Cooper (lo struggente Matthew Mc McConaughey), che ha dovuto abbandonare la giovane figlia Murphy, legata a lui da speciali affinità elettive e c’è una donna, il Dottor Brand (una persuasiva Anne Hathaway) che ha lasciato a casa l’anziano padre, la “mente” della missione (il solito monumentale Micheal Caine). Non si sa se la spedizione ha speranze di riuscita, non si sa quanto tempo staranno fuori, quando Cooper tornerà, se tornerà, Murphy sarà una donna adulta e il padre del Dott. Brand sarà probabilmente già passato a miglior vita.
Questa rete di affetti familiari ed il fascino, la paura dell’ignoto, sono componenti nuove per il cerebrale Nolan che per la prima volta guadagna in calore e in afflato.
Ma purtroppo il grande regista eccede in altri difetti: costruisce una sceneggiatura inutilmente complessa, verbosissima, infarcita di dialoghi retorici o di sciocco humour, zeppa di colpi di scena, vanamente lunghissima (ben 169 minuti!)
Inoltre manca la poesia dell’infinito, lo stupore e lo sgomento di film come Gravity, per non parlare della profondità filosofiche di capolavori come 2001 o Solaris.
Il divertimento c’è, ma mancano il rigore e la misura, qualità che latitano negli autori di oggi, i quali probabilmente non hanno più fiducia nella semplicità come filtro di interpretazione della realtà.
data di pubblicazione 17/11/2014
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da Alessandro Pesce | Nov 7, 2014
Che uno spettacolo di successo venga ripreso dopo anni dalla première e per la terza volta, con la stessa protagonista e il medesimo allestimento, non è un fatto frequentissimo per i teatri italiani.
Ancora più singolare è che non si tratti di un classico ma di un autore contemporaneo Annibale Ruccello, senz’altro il più interessante drammaturgo che ha operato in Italia negli anni 80, consacrato da diversi successi sia in Patria che all’estero, forse ancora di più dopo la sua tragica scomparsa.
E’ stato autore di storie spesso estreme e visionarie, ma nello stesso tempo connesse strettamente alla realtà dei nostri tempi, e a volte, come in questo caso, addirittura profetiche, nel senso che una storia come quella della casalinga Adriana Imparato, frustrata e depressa e del suo tragico finale. oggi è ancora più attuale e vivo e ahimè più vicino alle nostre maledette cronache quotidiane.
Come in tutte le opere di Ruccello anche in Notturno si mescolano ad arte ironia, divertimento, dramma, commozione, surrealismo e naturalismo, sangue e poesia, comicità e thrilling.
La regia di Enrico Maria Lamanna ha saputo con precisione e lucidità (doti che poi quel regista non ha poi più saputo trovare), interpretare la varietà dei toni della pièce e felicemente ha ricreato in scena quell’ambiente degradato di hinterland partenopeo, toccando l’apice della regia nei momenti di “sogno” come quando si materializza il ricordo del Padre-Madre o nelle “apparizioni” degli “ospiti”.
Un cast perfetto fa da contorno alla protagonista meravigliosa, Giuliana De Sio, che per la terza volta affronta questo difficile personaggio tra fragilità e follia, solitudine e voglia di sognare. L’attrice ritrova la straordinaria complicità con il personaggio aggiungendo nuovi fremiti di maturità dopo il difficile momento di malattia che ha attraversato.
L’esito del pubblico di fronte a questo spettacolo si conferma entusiasta, come se il pubblico avvertisse di essere di fronte a qualcosa di urgente, che ci appartiene, che poi è il vero senso del Teatro.
Dopo Napoli lo spettacolo sarà a novembre a Roma e poi in tournée a beneficio degli spettatori che non hanno potuto vederlo nel 1996 e nel 2003.
data di pubblicazione 7/11/2014
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