da Alessandro Pesce | Mar 18, 2015
Mi sbaglierò, ma dev’essere stato durante la tournèè in cui hanno lavorato insieme Vincenzo Pirrotta e Luigi Lo Cascio in Diceria dell’untore, dev’essere scattato un qualcosa in quel periodo, per far nascere in entrambi l’interesse, la spinta a interrogarsi sull’origine della follia. su come e perchè un essere umano (o un popolo) possa transitare dalla VITA alla TRAGEDIA quasi senza accorgersene.
La riscrittura dell’Otello in siciliano che Luigi Lo Cascio ha scritto, punta molto su quest’aspetto: le passioni che si trasformano, che possono diventare fanatismo, perché nel deserto della solitudine umana fa presto a germogliare un seme cattivo. Specialmente una mente primitiva come spesso è la mente maschile, sicuramente com’è quella di OTELLO (inteso come Archetipo, non si tratta di una traduzione pedissequa di Shaekesperare ) con facilità possa diventare vittima di sentimenti negativi quali gelosia e possessività, fino alle estreme conseguenze.
Comincia dalla fine, come in un flashback da incubo, la rievocazione della vicenda, nella suggestiva nebulosa scena, come nebulosa è la mente umana. Si vede Jago incatenato che vomita il suo livore; si vede una donna ferita a morte (la toccante Desdemona di Valentina Cenni) che piange la fine di un amore, piuttosto che della vita terrena. Poi subentra una sorta di coreuta, un soldato che con passione (il bravissimo Giovanni Calcagno) fa rivivere le stazioni del nero cammino verso la tragedia. In un gustoso finale (che però spezza la tensione drammatica delle quasi due ore di bellissimo spettacolo) ambientato sulla luna, Otello, come Orlando, cerca Desdemona perché sulla luna ci sono le anime delle donne che abbiamo ammazzato e il soldato che lo accompagna come un novello Astolfo, sigla un finale quasi etico con esortazione alla ragione.
Se Lo Cascio attore è uno Iago forte e inconsueto. Vincenzo Pirrotta è il miglior Otello non accademico che si potesse immaginare; riassume lui stesso la potenza il senso di tutto lo spettacolo, attingendo al suo background di cuntista, alla sua fisicità possente ma anche infantile, alla sua Mitica tragicità.
data di pubblicazione 18/03/2015
Il nostro voto:
da Alessandro Pesce | Mar 16, 2015
Dave e Mark sono due fratelli, con un’infanzia desolata dietro le spalle. Soli per il mondo, hanno sempre dovuto cambiare casa e quindi si sono morbosamente attaccati l’uno all’altro.
Si sono dedicati ambedue al wrestler, uno sport dove l’approccio fisico è stretto e carnale, riuscendo ad arrivare a vertici olimpionici. Dave ha una famigliola felice, con una moglie e due bimbi; Mark vive solo in una casetta un po’trascurata, è un gladiatore solitario e taciturno, Dave è iperprotettivo, ha un bisogno continuo di sentire se il fratello minore sta bene, e vuole sempre abbracciarlo. Un giorno Mark riceve la telefonata di uno degli uomini più ricchi d’America, Du Pont, uno strano tipo, appassionato di wrestler, patriota reazionario, erede di una fortuna immensa e antica, che si è allontanato dalla tradizione familiare di corse di cavalli per prendere sotto la sua ala,( per la disperazione di sua madre ) i campioni di lotta della nazione americana, l’ambiguo sport di combattimento, pieno di abbracci e contorsioni, che ha suscitato in lui una passione strana e tardiva. Du Pont ha un progetto ambizioso: ospitare nel suo ranch e allenare i migliori lottatori, diventare un mentore per loro e far si che vincano le gare più importanti e le Olimpiadi.
L’atmosfera cupa che pervade tutto il film, diventa ancora più inquietante quando si passa dalla desolazione della periferia nella parte iniziale all’opulenza della tenuta Du Pont, dove tutto, dagli ambigui solerti collaboratori del padrone di casa, alla presenza ancora autorevole della vecchia madre, ai disturbanti trofei allineati nella sala appositamente dedicata (“ la cripta del mostro” ) provocano una sensazione di abiezione e un senso di panico, come propedeutici per una svolta violenta.
E’ una fortuna che questa storia metaforica ma realmente accaduta nel 1988,al tramonto dell’era reaganiana, sia stata girata da un autore sensibile e robusto come Bennet Miller che ha evitato le trappole del genere e ha soprattutto indagato nella psiche dei tre uomini, suggerendo genialmente e con estrema sensibilità i risvolti e i numerosi sottotesti,
Perfetti i protagonisti, specie l’irriconoscibile Steve Carrel, ma anche Ruffalo, Tatum e il cameo di Vanessa Redgrave.
data di pubblicazione 16/03/2015
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da Alessandro Pesce | Mar 9, 2015
L’eccentrico collezionista d’arte Lord Charlie Mortdecai ha un debito di 8 milioni di sterline con il governo inglese e allora decide di accettare l’incarico di recuperare un dipinto, rubato dai nazisti durante la seconda guerra mondiale, che sarebbe la chiave del segreto dell’oro del Terzo Reich. Se riuscisse nell’intento potrebbe pagare il debito e non sarebbe costretto a vendere o affittare ai turisti la sua sontuosa residenza, prospettiva che lo terrorizza.
Adattamento della prima avventura del personaggio letterario creato da Kyril Bongfiglioli, la tipologia di narrazione prelude a mio avviso a una serialità anche perché le caratteristiche dei personaggi sono assai felici: il protagonista con le sue manie estetiche e la passione per i propri baffi, la fedeltà granitica della coppia che resiste ad ogni attacco, la straordinaria guardia del corpo, deus ex machina in molti frangenti, con l’unico punto debole della propria erotomania e infine il bizzarro ispettore di Scotland Yard perennemente innamorato di Lady Johanna.
Il regista David Koepp che cambia stile a ogni film, qui giustamente s’è buttato sul fumetto tecnologico rispettando però un’aura postmoderna che regala fascino all’ambientazione
L’insieme è molto brillante, con qualche calo di mordente dovuto più che altro all’eccessiva lunghezza del plot.
Depp ovviamente è a suo agio in questo ennesimo personaggio- “maschera” in cui si sta specializzando; piuttosto scipiti invece Ewan Mc Gregor e la Paltrow, molto efficaci i personaggi di contorno.
data di pubblicazione 09/03/2015
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da Alessandro Pesce | Feb 26, 2015
L’umanità, le sue contraddizioni, il mondo nella banalità e nelle sorprese, come osservati da un piccione appollaiato su di un albero. Sguardo ineffabile, ironico, toccante, desolato, onirico, a volte lisergico, più spesso assurdo come uno Ionesco o un Beckett in ritardo di mezzo secolo.
Non c’è granché di nuovo nella filosofia e nei pensieri di questo piccione e nemmeno nel suo linguaggio, ma ci sono sprazzi di pura poesia e una bislaccheria che non puo’ non incantare.
A colmare qualche lacuna supplisce una messinscena perfetta, i 39 quadri di questo affresco sono davvero precisi in ogni dettaglio visivo. Divertitevi a osservare tutte le posizioni e i minimi movimenti dei componenti dell’insieme nelle varie scene: nulla è lasciato al caso.
Dopo i primi tre “incontri con la morte”, il resto è volutamente frammentato e affidato a un sottilissimo trait d’union rappresentato da due buffi venditori di scherzi di carnevale e a un refrain che sottintende piccole e grandi solitudini: mi fa piacere sapere che state bene ripetono i personaggi al telefono con un tono dolente e in un ambiente squallidamente atemporale dove i cellulari ci sono, ma anche i soldati a cavallo e dei vecchi caffè senza stile.
Autore di poche opere, di cui nessuna uscita in Italia, questo Roy Andersson, e il suo humour scandinavo forse non meritavano il Leone d’oro, ma i suoi “ quadri “ ci resteranno dentro.
data di pubblicazione 26/02/2015
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da Alessandro Pesce | Feb 24, 2015
La grande novità del teatro in Italia nel secondo dopoguerra ( e in definitiva la sua forza ) si ebbe grazie all’affermarsi, anche nel nostro paese, (con notevole ritardo rispetto, per esempio, alla Francia e alla Germania), del cosiddetto “teatro di regia” cioè di quel teatro dove tra il testo e la sua rappresentazione si inserisce l’opera mediatrice, scientifica, interpretativa, del regista, a volte ingombrante, a volte meno, ma a mio avviso sempre indispensabile.
Il 1945, data che gli storici del teatro, se vogliamo un poco semplicisticamente, stabilirono come data di inizio del teatro di regia, coincide con la messa in scena di Parenti terribili di Cocteau ad opera di Luchino Visconti, a cui segui’ la nascita del Piccolo Teatro di Milano con Giorgio Strehler e a Roma l’attività di Orazio Costa che fu non solo regista ma maestro di generazioni di attori,tra cui Ronconi stesso. A loro si aggiunsero via via altre personalità registiche come Giorgio De Lullo, Luigi Squarzina, Giancarlo Cobelli, Franco Enriquez, Massimo Castri e molti altri che hanno creato straordinari spettacoli alcuni dei quali rappresentati in tutto il mondo.
Gli ultimi anni hanno, ahinoi, visto la scomparsa di quasi tutti loro, cominciando da Strehler, morto nel 1997 fino a Ronconi, mancato l’altro giorno, ultimo di quella generazione prodigiosa e irripetibile che nonostante i suoi 82 anni ha continuato fino alla fine ha continuato a regalarci creazioni straordinarie.
Come tutti sanno Luca debuttò negli anni Cinquanta come attore ma ben presto nel ruolo di interprete iniziò a sentirsi stretto. Vittorio Gassman nella sua autobiografia ha testimoniato di quanto Luca tendeva ad “allargarsi “,a prendersi la responsabilità dello spettacolo intiero.
Gli inizi come regista non furono facilissimi per la ritrosia del mondo teatrale ad accettare certe idee e tesi altamente innovative. Fu dopo il famoso Orlando Furioso del 1969, primo esempio italiano di “teatro totale”, un successo planetario, che il talento visionario ed estroso di Ronconi cominciò ad essere apprezzato dando il via la alla costruzione del suo mito. In 50 anni ha messo in scena classici e contemporanei, grandi romanzi, opere liriche, perfino testi di scienza e di economia, e pure testi da tutti dichiarati “ irrappresentabili (basti pensare alle nove ore quasi integrali di Strano interludio) ma che in mano sua si tramutavano in stimolanti operazioni che ad ogni frammento rivelavano un’intelligenza fuori dal comune.
Se Strehler creava spettacoli poetici, di incredibile ritmo e musicalità, Ronconi tendeva invece a vertiginose indagini dove si sprecavano le sollecitazioni e gli interrogativi, quasi fosse un Kubrick della scena teatrale. Non si può poi dimenticare il Ronconi guida d’attori, anche la generazione degli attuali dai 40 ai 50 anni gli deve tutto: da Massimo Popolizio a Galatea Ranzi, da Luca Zingaretti, a Favino a Gifuni, tutti talenti da lui valorizzati.
Oggi fare un teatro di regia di alto livello è diventato complicatissimo: crisi economica, crisi di valori, morte di tutti i maestri, scarsa volontà di sacrificio e di approfondimento in un mondo che corre troppo. Per questo il dopo-Ronconi appare nebuloso …
Beato a chi ha vissuto quei tempi di passione di ardore per il mestiere, mi considero fortunato di aver visto almeno in parte quei meravigliosi spettacoli!
Il Teatro di Roma, di cui Ronconi fu direttore per molti anni, dedicherà la sera di domenica 8 marzo in onore suo. Da non perdere.
data di pubblicazione 24/02/2015
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