da Alessandro Pesce | Giu 11, 2015
Riapre il teatro Eliseo, la storica struttura che ha rappresentato un caposaldo del teatro romano e italiano in genere. Con la semplice terza persona del verbo essere, E’ il neodirettore Luca Barbareschi intende l’Eliseo come “realtà nuovamente magicamente presente”, ma anche “ E “ congiunzione che vorrebbe “unire e non dividere idee relazioni rapporti”. I giochetti linguistici di Barbareschi indicano quindi la volontà di aprire una nuova fase, fatta di grande positività, scommesse e rinnovamento, sia per la grande realtà di via Nazionale, sia per Il Piccolo Eliseo, l’amato “ridotto” (come lo chiamavano un tempo), una “e” minuscola, ma non meno importante.
Le ultime vicende del nostro protagonista, teatro privato di interesse pubblico, sono state caratterizzate da grandi vicissitudini, che raccontandole avrebbero come sfondo il periodo difficilissimo e complesso che la capitale e il paese stanno, purtroppo, ancora attraversando. Dopo una chiusura repentina e preoccupante – sia per i dipendenti della società che per cittadini e operatori culturali, artisti, maestranze – si annuncia l’imminente riapertura fissata al 29 settembre, non prima del termine dei lavori di ristrutturazione, previsti in estate, ma con la nuova stagione 2015/2016 già realizzata e ricca di sorprese.
“Quello che stiamo costruendo e restaurando è uno spazio polifunzionale che usufruisce di due sale da utilizzare per prosa, musica, incontri culturali, biblioteca” – dichiara Barbareschi in conferenza stampa. Continua “un organismo eterogeneo e sfaccettato, per un investimento a tutto campo, ben radicato nel contesto di una città complessa”.
Il palco dell’Eliseo grande propone un cartellone di dodici spettacoli, sia produzioni interne che esterne, e relative coproduzioni: si spazia dai classici (Chechov, Schnitzler, Pinter, Chaplin, e ovviamente il Bardo…) alla drammaturgia contemporanea, dove non mancano autori italiani; ma è il piccolo Eliseo, pochi metri più in là, a farsi depositario dei testi più attuali (per dirne uno il Sorrentino cineasta con Hanno tutti ragione (protagonista Iaia Forte), poi Paravidino, Vacis, Carlotto, Labute) Tanti i registi del panorama italiano più consolidato ma anche più promettente, tanti gli attori, dai nomi più altisonanti a quelli un po’ più emergenti: fra questi spiccano lo stesso Barbareschi, immancabile, Ugo Pagliai, Filippo Dini, Lunetta Savino, Paola Quattrini, Michele Placido, Gabriele Lavia, Stefania Rocca, Carlo Cecchi, Eros Pagni, Alessandro d’Alatri, Tosca e Venturiello e dulcis in fundo Francesco Scianna e Ambra (nel citato Pinter).
Un nuovo complesso, articolato e invitante, senza contare le attività collaterali, che nei particolari sono da considerarsi ancora segrete. Così il grande attore e regista getta le basi per un grande rilancio, in linea con quasi un secolo carico di storia – il teatro di prosa preferito dai romani nel 2018 sarà centenario.
Tuttavia, in questo quadro di risorse, non mancano due perplessità, l’inizio degli spettacoli alle ore 20.00 ma soprattutto la concreta apertura di una scuola di recitazione, vera piaga fallimentare di tutto il teatro italiano e delle attuali contingenze professionali degli attori nostrani, ormai saliti a numeri immaginabili e non gestibili.
Comunque, mentre le istituzioni e gli enti locali, con l’assessore Giovanna Marinelli in testa, salutano il nuovo direttore, per il momento, da noi, “lunga vita al TEATRO ELISEO !
data di pubblicazione 11/06/2015
da Alessandro Pesce | Mag 18, 2015
Non molti italiani sanno che la letteratura del nostro paese ha avuto, nel Seicento, un grande scrittore di favole e racconti come Giambattista Basile, creatore di storie fantastiche legate alla cultura mediterranea ed in particolare alla tradizione del nostro meridione, racconti di sfrenata fantasia barocca, che hanno influenzato moltissimo la favolistica anche europea, ed anglosassone, che ne ha ripreso temi e topoi.
Il cinema d’autore si era avvicinato al mondo poetico di Basile già nel 1967, quando Francesco Rosi girò C’era una volta, con un cast divistico, protagonisti Sofia Loren e Omar Sharif al massimo del loro clamore. Nonostante la bella ambientazione di solarità mediterranea, il film non funzionò: il pathos e l’ispirazione sembrarono latitanti, per motivazioni probabilmente anche produttive.
Assistendo al trailer di questa nuova fatica firmata da Matteo Garrone, ispirata a Lo cunto de li cunti, si è avuta come primo impatto qualche perplessità. Si è temuto il peggio, pareva un fantasy modaiolo sostanzialmente algido e anonimo. Per fortuna, mai fidarsi del trailer, la sceneggiatura di quattro eccellenti penne italiane hanno ci hanno regatato un’ impronta nobilmente nostrana. E’ vero che si è sacrificata l’atmosfera del Sud a favore di ambienti più cupi e più nordici, ma le tre novelle scelte e mirabilmente intrecciate e messe in scena, contengono tutte le tematiche e gli umori del magnifico cinema di Matteo Garrone. Le ossessioni estreme (come in L’imbalsamatore, Primo Amore), la visione mostruosa dei rapporti, della passione, della sete di potere (come in Reality, Gomorra), e in più nuove riflessioni su realtà e artificio, bellezza e bruttezza, amore e violenza. Queste fiabe dove le ossessioni e gli egoismi spesso sono punite ma a prezzo di atroci sofferenze forse non piaceranno ai bambini e ai drogati di happy end, ma credo ci sia un pubblico disposto a farsi affascinare da suggestioni di illusione e disincanto. Le scelte di cast sono state opportune , non ispirati a criteri di popolarità ma piuttosto di aderenza fisica e bravura di interpreti, l’ensemble tecnico ha dato risultati strepitosi.
data di pubblicazione 18/05/2015
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da Alessandro Pesce | Apr 20, 2015
Il sipario si apre su altri due sipari a righe che danno un effetto optical, come fossero tanti fiammiferi allineati, preparando un’emotiva ipnosi collettiva. Ma perché le prime parole, o fonemi, che ascoltiamo, sono incomprensibili? A che serve parlare se non si capisce, si chiede un’ipotetica narratrice. E perché nel palcoscenico finalmente aperto campeggia un enorme punto interrogativo? Stiamo per ascoltare la fiaba di Andersen La piccola fiammiferaia, la storia della bimba povera che muore di gelo o si sta giocando al gioco del teatro con un’intenzione insieme semplice ma anche squisitamente meta teatrale? Non è la prima volta che Chiara Guidi e la Societas Raffaello Sanzio si avvicina al mondo delle fiabe, in un indimenticabile Buchettino (titolo italiano di Pollicino) di anni fa, il pubblico era ospitato in una stanza buia dove tutti, piccoli e grandi, dovevano coricarsi dentro alcuni lettini da collegio ottocentesco e lì ascoltavano la narratrice che raccontava la fiaba mentre i passi dell’orco e la sua ombra inquietavano il fortunato pubblico di quella esperienza teatrale. Qui all’apparenza è tutto più astratto e meno coinvolgente ma poi quando nell’oscurità si dà inizio al rito dei fiammiferi accesi, tutto si fa incantato e toccante: un gioco che non può fermarsi, perché ad ogni fiammifero acceso corrisponde un’evocazione, un ricordo,e basta una musica, una percezione, un attimo di teatro, insomma, e la magia riprende e anche le favole tristi possono riacquistare il calore della memoria, nessun gelo reale vincerà, la fantasia e il teatro hanno la meglio sulla Morte. Protagoniste di questo incantesimo la maestria di Chiara Guidi e la semplicità della piccola attrice che si fa guidare e grazie a loro per la prima volta La bambina dei fiammiferi non è “una favola che mi fa piangere”, come diceva coi lucciconi agli occhi la mia nipotina quando gliela narravo io.
data di pubblicazione 20/04/2015
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da Alessandro Pesce | Apr 9, 2015
Nel 1915, in Anatolia, durante le terribili vicende del genocidio degli armeni, il fabbro Nazaret ne passa di tutti i colori, perde persino la voce a causa di una ferita (il “cut” del titolo originale), pensa di aver perduto le sue due bimbe ma poi viene a sapere che sono ancora vive e parte per una difficile ricerca che lo porterà in giro per mezzo mondo.
Questo film del turco Fatih Akin dovrebbe essere il terzo di una trilogia sulla vita, la morte e il demonio, cominciata con La sposa turca, continuata con Ai confini del paradiso, due pregevoli pellicole abbastanza innovative dal punto di vista anche tecnico e drammaturgico, di cui questa attuale non sembra neppure lontana parente. Siamo infatti difronte a un corretto polpettone stile anni ‘60, ben girato e illustrato ma anche molto prevedibile da tutti i punti di vista che piacerà probabilmente a un grande pubblico sensibile alla commozione e magari, anche all’Academy, ma che non aggiunge nulla alla poetica dell’autore. A poco vale l’accurata colonna sonora volutamente straniante, mentre l’unica metasequenza intelligente e fantasiosa è quella del parallelo tra il mutismo del protagonista e quello di una comica di Charlot.
Inoltre c’è da dire che l’edizione italiana ha un doppiaggio troppo tipo “fiction di rai uno” ed infine il titolo scelto, Il padre, fatalmente sottolinea la parte melodrammatica del soggetto (il papà che sacrifica tutto per trovare le figlie), a scapito di un più lacerante significato esistenziale (una ferita di un uomo e di un popolo) a cui allude il titolo originale.
data di pubblicazione 09/04/2015
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da Alessandro Pesce | Mar 30, 2015
Quando Ted, professore di filosofia in un’università americana, torna con la moglie Ruth, nella casa della sua infanzia a Londra, trova la sua famiglia che non ha lasciato la vecchia dimora dove vivono ancora il vecchio padre, lo zio Sam e i due fratelli Lenny e Joey, La casa è rimasta tale e quale in maniera impressionante, con la poltrona del padre capofamiglia al centro della scena. Questo ritorno è l’occasione di una serie di incontri in cui i rapporti sono quelli tipici del Pinter prima maniera: caratterizzati da dialoghi e battute brevi, contradditorie, come i comportamenti dei personaggi; pause, silenzi, dettagli trascurabili o ingranditi in maniera deformata. Ogni azione, ogni parola ne sottintende altre, ogni insinuazione o silenzio potrebbe dar adito ai malintesi. La crudeltà dei rapporti familiari può ricomporsi al calore di un ricordo per poi smentirsi nuovamente, mentre il personaggio di Ruth catalizzerà l’interesse del microcosmo maschile e potrà, a fine commedia, occupare il posto del padre, la famosa poltrona del Capofamiglia, ma non è detto che invece la donna sarà una vittima sacrificale, mentre Ted lascerà definitivamente la casa perché ha capito che probabilmente è la sola via di salvezza. Questa pièce oggi non è più scandalosa come poteva apparire al momento della prima londinese (1964) ma colpisce ancora come coltello nella piaga dell’istituzione familiare e soprattutto piace perché aldilà di ogni lettura è una bellissima pièce, dove è stimolante soprattutto il linguaggio, il non detto. Un eterno problema dei registi è stato sempre: come mettere in scena il linguaggio di Pinter. C’è chi ha esagerato con le metafore e i silenzi, specialmente nei primi allestimenti; c’è chi ha piegato alla propria poetica i temi pinteriani, tradendoli del tutto (per esempio Visconti), c’è chi oggi sceglie la strada di un realismo alla Eduardo, come ha fatto molte volte Carlo Cecchi. Quando nel 1974 ci fu la prima italiana di Ritorno a casa, Carla Gravina chiese consiglio a Pinter sul personaggio di Ruth e l’autore le disse: “cerca di non farne una ninfomane”. Dunque si presume che volesse personaggi naturali, non grotteschi. Potrebbe quindi suscitare qualche perplessità quella recitazione imposta dal grande regista tedesco Peter Stein, tutta sopra le righe, sia nella voce sia nel linguaggio del corpo, ma tutto sommato gli attori sono efficacissimi (in primis Paolo Graziosi) e la messinscena del bellissimo spettacolo nel suo insieme è da ammirare per l’encomiabile sorvegliatissima e intelligente regia che sottolinea ogni battuta e ogni spazio, ogni vuoto. In definitiva il suo progetto registico ha vinto e gli applausi scrosciano.
data di pubblicazione di 30/03/2015
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