da Alessandro Pesce | Set 25, 2000
Pellicole che hanno al centro un personaggio ricco di fascino che, entrando in una comunità, la destabilizza con il suo carisma, ve ne sono a centinaia. Ma di solito lo sconvolgimento dell’ordine costituito è visto con positività, come una possibilità di rivoluzione. Per esempio il protagonista di Teorema di Pasolini, che stravolge la vita e la psiche dei componenti della famiglia borghese dove capita, fu interpretato come metafora del ‘68 ma anche del Cristianesimo, e stessa sorte subì perfino E.T. di Spielberg. Non è il caso del giovane Kano, a mio avviso soltanto un angelo del male, nel nuovo film di Oshima, dal fascino ambiguo metà bambino metà demonio.
Tutti gli chiedono come mai, lui, ricco, sia voluto entrare tra i samurai e la sua risposta è chiara: per poter uccidere. L’ordine costituito del corpo dei samurai, che si fonda su regole d’onore e di saggezza ne resta sconvolto. Tutti o quasi tutti i samurai se lo vorrebbero portare a letto e per placare lo scandalo si arriva gradualmente alla tragedia finale. Ma è troppo tardi: nulla sarà più come prima e l’ultima scena, in cui l’eccellente Beat Kitano spezza, urlando, l’albero di ciliegio, sintetizza magnificamente questa idea.
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da Alessandro Pesce | Set 12, 2000
A Medellin si spara come se niente fosse, i ragazzi vanno in giro con il “pezzo” (la pistola), lo stereo e il rosario a collo, i fuochi d’artificio non indicano una festa di quartiere ma celebrano l’arrivo in America di un carico di coca. In questo inferno nasce un grande amore tra lo scrittore Fernando Vallejo (autore del romanzo da cui il film ) e un sedicenne killer e battone. In bilico tra il visionario e il film a dialoghi, l’opera di Scroeder è, per me, in parte irrisolta ma comunque interessantissima.
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da Alessandro Pesce | Set 12, 2000
Claude Chabrol, un autore che ho frequentato sempre poco, con questa ultima opera ha creato un autentico capolavoro che definirei di “ingegneria registica”.
Provate a immaginare: un probabile scambio di neonati, di cui uno fecondato artificialmente; un incidente stradale in cui perde la vita una donna il cui marito sposerà la sua migliore amica; un altro incidente identico vent’anni dopo. E ancora: una donna, Mika, figlia adottiva e erede e presidente di una industria di cioccolato; un pianista famoso; suo figlio, un ventenne che ama le lingue morte e le lumache; una bellissima ragazza che suona il piano anche lei e sua madre, direttore di un Istituto di Medicina legale.
Si rischiava il feuilleton o uno di quegli incasinatissimi noir americani di questi ultimi anni. Chabrol, invece, costruisce una tanto invisibile quanto robusta struttura drammaturgica e filmica che incastra a perfezione le situazioni, esplora vertiginosamente la psiche dei personaggi, senza cedimenti o sbavature ma allo stesso tempo senza fastidiose invadenze e il risultato è un meccanismo impeccabile e profondo che non sarebbe dispiaciuto a Stanley Kubrick.
Inoltre si diverte a citare (letteralmente: nominandoli) Fritz Lang e Jean Renoir suggerendo così chiave di lettura giusta.
Del resto non è difficile intuire che la soluzione dell’intrigo è in quei thermos pieni di cioccolato che Mika (Isabelle Huppert, bravissima e di classe , comme d’habitude) prepara per i familiari e gli ospiti di cui, per “sublimare” le sue frustrazioni, dirige silenziosamente la vita e la morte.
All’esterno, l’algida Losanna ben fotografata da Renato Berta, in sintonia con il perbenismo e le perversioni dell’ambiente umano.
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da Alessandro Pesce | Set 12, 2000
E’ un Altman di buona annata questo film che parla di un ginecologo attorniato da una serie di donne impossibili della Dallas-bene, uno sguardo allo stesso tempo sarcastico ma affettuoso sull’umanità. Intelligente, acuto, zeppo di segnali. Il finale , poi, (che non vi svelo) è uno dei più sorprendenti e felici degli ultimi anni.
Richard Gere è nel ruolo, ma penalizzato nell’edizione italiana dal solito doppiaggio impostato di Mario Cordova. Tra le numerose attrici, festeggio un ritorno alla grande di Farrah Fawcett, bravissima nella caratterizzazione della moglie in stato di regressione mentale per…mancanza di problemi.
da Alessandro Pesce | Set 12, 2000
Vi ricordate il “dentone” Alberto Sordi che si presentava a un provino tv in un episodio de I complessi? Lui non aveva complessi, invece il dentone Rubini ne è afflitto tanto da credere di possedere una bocca speciale, forse maledetta, col risultato che come persona, non riesce a maturare e ciò provoca, tra gli altri problemi, una incredibile morbosa gelosia.
Proprio a causa di questa, la sua ragazza gli rompe i famosi denti e allora comincia il calvario da uno studio dentistico all’altro, tra allucinazioni e dolorosi ricordi, contrappuntato da riflessioni esistenziali sul dolore, la felicità e il rapporto tra corpo e anima. Grazie alla capacità majeutica del più odiato tra i dentisti, che gli fa venir fuori una miracolosa terza dentizione, egli rinasce a nuova vita, probabilmente più sereno e maturo. Bisogna riconoscere che Salvatores è uno dei pochissimi registi italiani che cerca e sperimenta nuove strade, stavolta con risultati buoni.
Aldilà delle scene crude e della magnifica colonna sonora, il racconto del percorso doloroso del protagonista può provocare nello spettatore (specialmente quello della generazione di Salvatores- e del sottoscritto) emozioni profonde, anche laceranti. Qualcuno ha citato Cronemberg: forse, ma ripassato in salsa mediterranea. Fra i difetti, alcuni personaggi inutili come lo zio che colleziona il pelo delle sue conquiste, e la prova insoddisfacente di un Sergio Rubini troppo esteriore, ma in compenso è girato con una cura e una perizia encomiabili.
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