da Alessandro Pesce | Lug 12, 2016
Con vergognoso ritardo di ben oltre tre anni, rispetto alla presentazione al festival di Venezia 2013 e all’uscita internazionale, ecco che, finalmente, nelle sale semivuote e gelide di aria condizionata, viene proposto al pubblico Tom a’ la ferme, uno dei gioielli del giovane regista canadese francofono Xavier Dolan, geniale talento, conosciuto al grande pubblico per Mommy ma autore di una mezza dozzina di pellicole che rivelano un talento altissimo e una ispirazione fresca e originale, e soprattutto di una mano sicura e ormai anche ampiamente matura. Il mese scorso gli è stata dedicata, qui a Roma, un’affollata e applaudita retrospettiva. Chi non ha avuto la fortuna di poterla seguire, è invitato a vedere questo Tom a’ la ferme e soprattutto a non perdere, quando uscirà, dopo l’estate, il mirabile Fino alla fine del mondo, premiato all’ultimo Cannes, entrambi film tratti da pièce, ma per nulla teatrali anzi cinematografiche in sommo grado.
Ma quali sono le doti principali di Dolan? Innanzitutto la maestria con cui con pochi e mai banali elementi, introduce lo spettatore e lo cattura. Alcuni critici hanno paragonato il tipo di effetto da approccio di Dolan a quello che avranno avuto i primi spettatori della nouvelle vague o a quello che avranno colpito i primi spettatori di Petri, Bellocchio e Bertolucci, e questo non per improbabili similitudini o affinità tra questi cineasti, ma per la incredibile felicità di mano e di potenza di racconto.
Come negli altri suoi film è un nucleo familiare al centro di Tom a’ la ferme.
Tom è un giovane pubblicitario che si reca nella fattoria di famiglia del suo compagno morto per, partecipare alle esequie dello stesso, ma molto presto Tom capirà che è chiamato a sostenere un ruolo rassicuratore poiché la madre Agatha non sa nulla della vita del figlio defunto e l’altro fratello è violento e omofobo. Il film si trova ad un certo punto sulla soglia di una virata da thriller psicologico o addirittura di un horror fino a una svolta regalataci dal racconto di un non protagonista. Invece no, è solo l’inferno quotidiano che scaturisce da non detto.
data di pubblicazione: 12/07/2016
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da Alessandro Pesce | Giu 21, 2016
L’autore di Pusher, di Drive e di Solo Dio perdona ha realizzato un film complesso e ambizioso, partendo dalla sua consueta cifra algida, asciutta, ereditata dal suo Maestro sceneggiatore preferito Paul Schrader, ma avventurandosi stavolta con coraggio in sentieri visionari, molto simbolici, che nella seconda parte del film virano sull’horror alla maniera di Suspiria di Argento, sovrabbondando altresì di citazioni psicologiche, e con allusioni a Jan Kott (se la Bellezza è Dio, è desiderio dell’uomo divorarla)
Essendo stato Refn regista di video e spot era l’ideale per questa storia che ha al centro come angelo sacrificale, una sedicenne troppo bella, di una bellezza mitica e assoluta, che non ha bisogno di trucchi né di sovrastrutture. Una bellezza che non può che suscitare gelosie in un universo dove i 21 anni fanno spavento e dove, probabilmente, l’autore stessodà libero corso ai suoi dèmoni. Ilimiti stilistici del film sono l’estetismo reiterato e la tentazione troppo modaiola delle locations e delle musiche.
Ambigui e sfuggenti i personaggi maschili più importanti, soprattutto il gestore dello squallido motel affidato, chissà perché, a un attore importante come Keanu Reeves.
Era chiaro che la platea di Cannes accogliesse con favore e clamore un film così potente, ma una visione più riflessiva ridimensionerà fatalmente il fenomeno.
data di pubblicazione:21/06/2016
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da Alessandro Pesce | Mag 7, 2016
(Teatro Argentina – Roma, 20 aprile/8 maggio 2016)
L’anniversario di Pasolini è stata una buona occasione, per i registi, di rileggere diversi testi teatrali del poeta friulano. Negli ultimi mesi abbiamo visto, infatti, Il vantone e due versioni differenti di Porcile e attualmente abbiamo a Roma in scena un Pilade al Vascello e all’Argentina l’ambizioso Calderón.
Quest’ultimo è uno dei drammi più enigmatici ma anche più affascinanti di Pasolini, intriso com’è del suo pensiero e di molte sue suggestioni e topoi ricorrenti.
Un dramma corposo, dalla struttura non lineare, con evidenti problemi per la messinscena, che tuttavia è stato già in passato rappresentato con buoni risultati, prima da Luca Ronconi nel travagliato e memorabile laboratorio di Prato del 1979 e poi da Giorgio Pressburger, qualche anno dopo, più tradizionalmente.
Adesso, nella sua produzione più importante dell’anno, è il Teatro di Roma ad occuparsene, con la regia di Federico Tiezzi.
L’ispirazione sorge dal capolavoro La vita è un sogno di Calderón de la Barca, di cui prende peraltro soltanto lo spunto drammaturgico. L’ambientazione è negli ultimi anni della Spagna franchista e la trama presenta tre sogni successivi, in tre ambienti diversi: aristocratico, proletario, medio borghese. Abbiamo dei personaggi che al risveglio non riconoscono la propria vita, la fuga possibile è il sogno (o il teatro ?), perché la vita reale mette nel loro destino ostacoli insormontabili. Cosa impedisce la felicità? Quasi sempre il conflitto tra individuo e potere.
Scritto nel 1967, alla vigilia dei moti sessantottini, quasi contemporaneo del suo film Teorema, l’opera ha umori solo apparentemente discordanti, più spesso lo spettatore attuale si sorprenderà per la vis profetica di molti passaggi.
Lo spettacolo di Tiezzi è visivamente stupendo e opportunamente allusivo sebbene si notino momenti di impaccio specie nei cambi di scena.
Il cast è tutto eccellente, oltre a naturalmente Sandro Lombardi segnaliamo almeno Lucrezia Guidone, Sabrina Scuccimarra e Graziano Piazza. Attento e catturato il pubblico nelle due ore senza intervallo.
data di pubblicazione:07/05/2016
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da Alessandro Pesce | Feb 15, 2016
(Teatro Parioli Peppino De Filippo – Roma, 11/21 febbraio 2016 e in tour)
Un divertissement dalle note cupe, uno scherzo di quattro animali da palcoscenico che giocano a parodiare un grande classico del teatro del novecento. Sin dal titolo è chiara l’intenzione irrisoria: “finale-di-partita” diventa Dipartita finale, sberleffo atroce, forse, verso il più grande dei misteri.
Anche qui, come nel capolavoro parafrasato, abbiamo dei personaggi anziani e menomati: un vecchio attore cieco, il suo amico (un ex aiutante servo di scena ?) che non riesce a dormire e che ha visioni molto strambe, e ancora un truculento- in senso plautino- romanaccio che dovrebbe completare l’invenzione di una storia un po’ fantascientifica ma che invece si sfoga sbraitando volgarmente sui temi più alti della Vita alternando sprazzi di lucidità e profondità a grevi citazioni. I tre sono situati in una stanza vicino al fiume, fatiscente e abitata da topi e da un misterioso uovo la cui comparsa dà il “la“ a interrogativi esistenziali. Sembra che siano immortali, superstiti di chissà quale catastrofe e condannati, come i protagonisti di Fin de partie a giorni tutti uguali. Ma alla fine un estremo sberleffo: sono solo dei barboni poeti che non vogliono abbandonare la baracca e invece arriva la scavatrice che li spazzerà via, come nei Giganti di Strehler la ruspa rompeva il carretto di Ilse.
Ma neppure, questa potrebbe essere la verità. Lo spettatore dovrà contentarsi della verità del teatro. Hai detto niente!
Rendendosi conto dell’angoscia del testo la regia dell’autore stesso, Franco Branciaroli, spinge molto sull’allegria, sui vezzi dei commedianti, sui capricci e i ricordi dei musical dell’attore cieco (Pagliai), sullo smarrimento del fedele amico (Gianrico Tedeschi), sulla grinta di Maurizio Donadoni e sull’evocazione di Toto’, che Branciaroli regala alla Morte. E il pubblico sembra conquistato dagli attori ma perplessi dal resto.
data di pubblicazione:15/02/2016
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da Alessandro Pesce | Feb 4, 2016
(Teatro Quirino – Roma, 2/14 febbraio 2016 e in tournèè)
La versione di Molière del mito di Don Giovanni è uno dei testi più misteriosi e ambigui del grande commediografo francese. E’ impressionante come, con anticipo di un secolo, ci siano tracce di protoilluminismo, soprattutto nel personaggio del protagonista che non è semplicemente un collezionista della seduzione ma un libertino per scelta esistenziale e filosofica, quasi un marchese De Sade ante litteram che professa anti-deismo, in un pensiero che aprirà presto scenari rivoluzionari. Fondamentale l’alter ego, Sganarello, che funge da moralizzatore dei costumi ma che nel grido finale “la paga!” genialmente e beffardamente riporta il discorso dall’etica ai bisogni primari.
Lo spettacolo prodotto dal TSA e da Korateatro e diretto da Alessandro Preziosi (anche protagonista) è assai agile e curato, arricchito scenograficamente da proiezioni 3-D utili ad evocare interni ed esterni. Forse, però è stilisticamente troppo costruito su uno stampo buffonesco e grottesco come in certi lontani spettacoli degli anni Settanta, con vezzi e lazzi non estranei a Molière, ma qualche volta stucchevoli. In questa chiave Preziosi attore è funambolicamente efficace ma convince pienamente soltanto nella “tirata sull’ipocrisia” dove si avvertono brividi di verità. Encomiabile lo Sganarello applauditissimo e strapremiato di Nando Paone che rinuncia a psicologie ambigue (come lo Sganarello recente di Manuela Kustermann) ma con autorità tratteggia le sfumature del personaggio. Il cast, tutto buono, è nobilitato da Lucrezia Guidone, sublime nella metamorfosi di Donna Elvira.
data di pubblicazione 04/02/2016
Il nostro voto:
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