da Gabriella Ricciardi | Gen 26, 2017
In un’epoca satura di rumori, intitolare il proprio film Silence, è molto più che una scelta estetica, e Scorsese ne era così consapevole da aver aspettato quasi trent’anni per realizzarlo dal romanzo omonimo di Shusaku Endo, uno scrittore cristiano le cui pagine ricordano più i temi e il sapore di quelle di Bernanos che di Mischima.
1630. Montagne foderate da una vegetazione così fitta da essere verde smeraldo, precipitano su rocce grigie che si aprono in crateri colmi di acqua caldissima. I giapponesi chiamano Inferno quel luogo e lo usano per torturarci i cristiani che non hanno abiurato la loro fede.
In una grande stanza di un istituto religioso olandese, attraversata da una fredda luce nordica, padre Rodrigues e padre Garupe (Adam Driver e Andrew Garfield) devono convincere il loro superiore, a lasciarli partire alla volta del Giappone dove sperano di ritrovare il loro maestro, Padre Ferreira (Liam Neeson) di cui non si hanno più notizie e che pare abbia abiurato e viva ormai come un giapponese. La camera si stacca da terra e segue i tre sulla bianca scalinata dell’Istituto gesuita, rendendoli tre macchie nere lontanissime, come se fosse Dio stesso testimone di quella decisione rischiosa e definitiva, vedendo le cose da una prospettiva impossibile a chi è sulla terra, impegnati come si è nella frivolezza e durezza del vivere. Questa ripresa dall’alto sarà l’unica del film, a sottolineare che il dramma che vi si consuma è tutto dentro la dimensione umana benché parli di fede e di Dio. I padri si imbarcano a Macao di notte con una guida, Kichijiro – il vero maestro spirituale di padre Rodrigues – un giapponese dell’isola di Goto che vuol far ritorno a casa. Quel viaggio notturno è di una bellezza assoluta: l’imbarcazione che solca un mare vellutato e gonfiato dal vento in una nebbia delicata, fumosa, sta traghettando i due gesuiti in un altro regno, un regno dal quale non si può tornare indietro, perché ciò che scopriranno di se stessi renderà il loro viaggio oltre che pericoloso, iniziatico, una scena in cui Scorsese salda perfettamente il piano simbolico, metafisico, con quello delle immagini a cui si affida tutto il tormentato rapporto con la fede di Rodrigues.
In Giappone le comunità cristiane sono state decimate e vivono nel terrore. Gli abitanti del piccolo villaggio che li accoglie e nasconde sono poverissimi. La loro è una vita di umiliazioni e stenti. Non hanno che la prospettiva di morire per poter stare eternamente in paradiso. E in questo Scorsese offre la prima chiave interpretativa allo spettatore. Il potere per essere tale, per mantenere il controllo assoluto sulle persone, le umilia fino a togliergli tutto; privandoli della fede cristiana, impedendogliela, di fatto non ne determina solo la miseria con tasse esose, ma entra dentro i pensieri, dentro i cuori, estirpandone fede, desideri e dignità, perché per restare vivi devono calpestare l’immagine che venerano. La fede praticata da questi contadini, è una fede molto simile a quella dei primi martiri cristiani, una fede che sconvolge i due gesuiti determinati e forgiati dalla ferrea disciplina degli esercizi spirituali, ma fredda rispetto a questa, così animata dalla speranza. Vivono in comunità e la celebrazione della messa, di notte e in una capanna, è davvero un momento rivoluzionario, sembra dirci Scorsese, perché nulla dopo quel rito dovrebbe restare immutato. Quella intensità e coesione dovrebbe naturalmente generare la risposta di Dio, ma Dio tace. Il governo, l’Inquisitore, uccidono e Dio non concede che il silenzio in risposta a tutta quella sofferenza. Come in tutti i film di Scorsese la violenza è esplicita, reale, ma più aumenta, più genera nei due gesuiti tenerezza e compassione. Tutta la riflessione del regista sulla fede è come si percepisce Dio, l’intangibile, tanto che la sceneggiatura è estremamente asciutta, i dialoghi serrati e necessari. Il rapporto con la fede è affidato alle immagini che rappresentano il volto di Cristo, scelto nel bellissimo ritratto di El Greco, che lo fa dolcissimo, quasi triste. Anche quel volto così cercato, tace di fronte alle sofferenze, rivelandosi nel cuore di Rodrigues proprio quando sembra che tutto sia perduto. Specchiandosi nell’acqua, vede riflessa prima la sua immagine e poi sovrapporsi a questa, il volto del Cristo di El Greco e poi di nuovo tornare lui. Allora capisce che non c’è separazione tra sé e il divino, ma che l’uno vive dentro l’altro, una scoperta e un vissuto che invece Padre Ferreira non sperimenterà mai. Quando finalmente si incontrano, il maestro è davvero diventato buddista, vive con sua moglie, ha dei figli. Studia in un tempio. Ha il compito di convincere padre Rodrigues ad abiurare, la sua abiura salverà la vita a molti, come ai cinque torturati che dividono la prigione con lui e che stanno morendo di una morte lentissima e crudelissima. Ferreira lo spinge a ragionare sull’inutile sacrificio di altre vite. Non c’è nessuna religione, o divinità che valga il miracolo di una vita, con la bellezza di un volto umano che ti guarda. Rodrigues deve combattere con l’orgoglio. È il suo demone più minaccioso. Lo rende onnipotente, gli fa credere di essere come Gesù che porta la croce, non perché ogni uomo è divino e viceversa, ma perché c’è una totale identificazione dettata dall’orgoglio, con la sofferenza e morte del Cristo chiesta da un ordine superiore. Dal Padre. Inversamente ad ogni logica che vuole il Figlio allontanarsi ed emanciparsi dalla casa paterna, il padre celeste chiede il sacrificio del figlio. Scorsese non sembra sfiorato dunque dall’analisi freudiana, continuando a ritenere necessario (per lo meno alla fede) il sacrificio del figlio per saldare il divino all’umano.
Scorsese ha senz’altro guardato al Vangelo di Pasolini; lo cita quando mette Rodrigues su un cavallo e gli fa attraversare il villaggio scortato dai soldati mentre la folla lo insulta, rendendo la scena speculare a quella in cui il Cristo di Pasolini viene acclamato nella domenica delle palme. Quello che gli interessa di Pasolini è la totale umanizzazione di Cristo; un uomo che è divino perché dotato di tenerezza e compassione per i simili. Ecco perché Rodrigues cede, deve salvare quelle persone e non metterne altre in pericolo, perché cadendo, ossia abiurando, sconfigge finalmente l’orgoglio.
Lo vediamo invecchiare, aver negato la fede, parlare perfettamente giapponese, ma poi nel silenzio della casa che divide con una moglie e una figlia, ritrovarla, riuscire a riascoltare la voce di Cristo insieme a Kichijiro, l’essere debole per eccellenza, colui che per paura ha tradito ripetutamente Rodrigues, la sua famiglia, e tutte le volte ha disperatamente chiesto di essere perdonato. È lui l’umile che si deve amare, senza amare la sua fragilità non si può dire di amare gli uomini. Troppo facile amare i belli e i buoni, come lo stesso Rodrigues si dice.
Confesso di essere stata irritata per gran parte del film dall’intransigenza e dalla necessità indiscussa del proselitismo, dalla cieca devozione alle immagini che vanno custodite e protette a costo della propria vita, schegge assolute di divino per chi ve ne vede in esse. Questo culto così prosaico, apotropaico direi, mi irritava, ma Scorsese fa un passo indietro e mentre afferma la grandezza di quelle immagini, ne denuncia il loro limite di oggetti. Se ne rende conto padre Rodrigues quando non ha più niente da regalare (né un crocefisso, né un’immagine sacra) e smembra il suo rosario, capendo che ognuno di quei grani sarebbe stato il tesoro segreto di quei contadini affamati di speranza. E non è stato, ed è ancora così, nel nostro Sud, dove la devozione al proprio santo, alla sua immagine (le reliquie, le ossa, la veste) è il lessico e perno di quella fede? Scorsese ci avverte che esistere è coesistenza degli opposti. Non c’è fede senza superstizione; non c’è bene senza male; non c’è umiliazione senza riscatto; non c’è paura senza coraggio; non c’è Dio senza l’uomo.
A margine di tutta questa complessità teorica e teologica, Silence è un film di imponente bellezza, ma che come tutte le cose belle non è semplice, ossia è una bellezza lavorata dal pensiero e dalla consapevolezza profonda della materia che si tratta.
L’unica cosa che non mi ha convinta nella precisione filologica dedicata agli ambienti, ai vestiti, ai comportamenti, è la lingua. Perché dei contadini poverissimi nel Giappone del 1600 dovevano conoscere l’inglese? Come era possibile che sapessero parlare una lingua così lontana dei contadini che avevano visto solo fango e sopraffazione?
L’altra è la durata. Credo che si poteva leggermente asciugare, anche se mi rendo conto che il respiro che il regista ha voluto dare è quello biblico, esteso, di Moby Dick.
Interrogandomi sul titolo – questa parola che è condizione, e che racchiude il nero nelle sue volute grafiche – ne ho chiesto ragione a mio figlio e lui mi ha risposto così:
“Il silenzio è preghiera.” Semplice no?
data di pubblicazione:26/01/2017
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da Gabriella Ricciardi | Gen 12, 2017
(Complesso del Vittoriano – Roma, 11 Novembre 2016 / 29 gennaio 2017)
L’ondata di gelo che si è riversata su Roma non ha risparmiato nemmeno le sale del Complesso del Vittoriano che ospita la mostra di Ligabue. Anche lì il freddo era purtroppo così penetrante da distogliere l’attenzione che la bella mostra richiede e vorrebbe.
Freddo a parte, la mostra raccoglie circa cento lavori di Antonio Ligabue, dagli esordi intorno agli anni ’20 fino al ’65, anno della sua morte, ed è curata da Sandro Parmiggiani, che oltre ad essere un amico personale di Ligabue è il Direttore della stessa Fondazione, e da Sergio Negri, Presidente del comitato scientifico.
Prima di entrare in sala, un bel filmato, andato in onda e realizzato da Rai 3 sul finire degli anni ’70, ci proietta immediatamente nel suo mondo. Lo vediamo correre tra le colline della sua Gualtieri, il paese sulle rive del Po dove viveva la madre prima di emigrare incinta, nella Svizzera tedesca dove Antonio nacque e visse fino ai 19 anni e da cui fu poi espulso. Una Gualtieri che lo vide entrare e uscire dall’ospedale psichiatrico e lavorare, senza comunque riuscire a scalfire la miseria ( almeno fino agli anni 50 quando cominciò a vivere della sua pittura) come “scariolante”.
Corre e imita la voce degli uccelli, e la sua mimesi è così totale e perfetta da stimolare le risposte delle cornacchie posate sui rami vicini. È sempre solo Ligabue. Solo nei campi, solo nella poverissima casa-studio dove si prepara a dipingere non senza aver compiuto, prima di farlo, una lunga e straziante serie di gesti scaramantici e apotropaici che dovevano zittire le voci e le presenze nella sua mente, voci nemiche che gli impedivano di dipingere e lo inchiodavano al dolore. Il momento più struggente del filmato è quando appare vestito da donna, con delle sottovesti bianche, per la purezza specifica lui; una lunga gonna che avvolge con attenzione attorno alle gambe magre e si siede sul letto, compunto, davanti a un piccolo fuoco. È la compagna immaginaria, la moglie che avrebbe voluto avere e che invece non avrà mai. Allora trasforma se stesso fino a diventare lui quella moglie tanto desiderata.
Confesso di aver sospeso qui la visione del filmato, perché quella solitudine faceva così male da rischiare di “inquinare” la visione della sua opera che invece ha l’importanza e la dignità di un pittore maturo e compiuto, senza essere quindi schiacciata e trascinata emotivamente dal “caso” Ligabue.
Il mondo animale è quello che sente più vicino, un universo ferino e spietato che dice quanto Ligabue percepisse l’aggressività del mondo. Giaguari, pantere, tigri del bengala, galline, tacchini, aquile che artigliano con ferocia la preda, spesso un cigno dal lungo collo. Sono immersi in una natura dai toni smeraldo e fitta quanto una giungla, mischiando piante e felci di una foresta tropicale con animali dell’aia di casa nostra. La verdissima e brillante foresta ha echi di Gauguin, ma gli animali che Ligabue proietta in primo piano, che siano oranghi o giaguari, hanno la bocca spalancata ed enorme di un boa e nascondono tra denti e lingua i tratti del volto del pittore. I quadri dell’inizio sono più incerti, l’olio più diluito sulla tavola, poi via via Ligabue diventa se stesso, crede nelle proprie capacità pittoriche, è attento alla composizione e non solo all’espressione. I colori si fanno più spessi, sono contornati da pesanti linee nere che ne mettono in risalto l’aspetto materico. Si pensa a Ligabue come a un pittore spontaneo e naif privo di cultura pittorica. Questa mostra invece dimostra come Ligabue guardasse con attenzione le opere degli artisti che lo interessavano, Gauguin e Van Gogh soprattutto, e di come poi li abbia trasformati in materia sua, facendo della Polinesia il cortile di Gualtieri. Colpisce una boule con i pesci rossi che non può non ricordare il famosissimo quadro di Matisse con lo stesso soggetto e titolo. Là erano macchie guizzanti di colore proiettati su un cielo azzurrissimo e felice, qui sono due prigionieri antropomorfi del cristallo. Ti guardano infelici e non c’è nessun cielo dietro, né nessun drappo rosso rubino sul tavolo, dove la boule è posata, a dire di quanta luce è fatto il mondo. Ci sono solo loro, prigionieri della ripetizione in uno spazio angusto.
In ogni quadro c’è lui. Lui che appare in un angolo con il cappello bianco e la sahariana della caccia grossa dal sapore inglese, quadro che apre la mostra. Se ne sta dietro una donna africana come se ne fosse un’emanazione guardinga; anche lì come nel filmato, come se da se stesso potessero venire e conciliarsi due creature.
Con felice intuizione gli autoritratti sono sistemati in sequenza su un’unica parete: Antonio Ligabue col naso dell’aquila che sempre cercava di attenuare, mostrandosi in quello che doveva ritenere il suo profilo migliore, è sempre accompagnato da insetti. Mosche soprattutto, e qualche rara farfalla che ha smarrito ogni bellezza; insetti che ronzano fuori come dentro la mente del pittore, creando un’interferenza fastidiosa tra se stessi e il mondo, che lontano s’indovina più placido di chi lo abita. Qualche casetta allineata sulla collina, una staccionata, un cielo che si avvoltola in nubi violacee che esplodono in tempesta o che sono travolte da un vento turbinoso. In primo piano gli occhi disperati e indagatori di chi portava in giro la sua solitudine come un grido. Questa serie di autoritratti sono davvero bellissimi, belli quanto quelli che siamo abituati ad amare del pittore olandese, con le orecchie lavorate come fossero scavate nel legno, le giacche e i maglioni dai colori forti e quella voglia di bucare il tempo e lo spazio per vincere la solitudine e trovarsi finalmente in mezzo agli uomini.
data di pubblicazione:12/01/2017
da Gabriella Ricciardi | Gen 12, 2017
Presentato in concorso a Cannes 69, Paterson di Jim Jarmusch è finalmente nelle sale italiane. Paterson (Adam Driver, lo vedremo tra poco in Silence) fa il conducente di autobus di linea a Paterson nel New Jersey, vive con Laura (la bellissima Golshifteh Farahani) che dipinge tutto quello che trova in bianco e nero, perfino i suoi cupkaes sono in bianco e nero e anche la chitarra che sta iniziando a suonare lo è. Lei è convinta che diventerà una grande cantante country e che i dolci che sforna per il mercato del sabato li arricchiranno, e lui non la smentisce mai, e non perché non capisca che a volte lei esagera con i sogni, ma perché crede nella poesia e non vuole schiacciare la realtà soltanto sulla sua dimensione più evidente, ma non per questo più reale.
La loro è una unione amorosa di piena e dolce complicità, solo il cane Marvin ringhia un po’ quando si scambiano affettuosità, perché anche lui è innamorato della bella Laura. Ma tutta questa ripetitiva vita potrebbe essere noiosa e basta se ad accenderla di una luce incorruttibile non ci fosse la poesia. Sì, perché Paterson è un poeta anche se le sue poesie non le ha mai lette nessuno, solo Laura e non tutte, che adora William Carlos Williams (anche lui nato a Paterson) e che racconta a se stesso – versificandola senza rima – la sua vita e in quel racconto e nello sguardo che posa su tutte le cose che gli accadono, anche se sono sempre le stesse, quelle cose si illuminano di senso, di eleganza e spessore.
Jarmusch con Paterson compie un miracolo, quello di far accadere la poesia sullo schermo e non di raccontarla; vediamo il processo e lo vediamo poeticamente, non è una “registrazione” documentaristica. Vediamo nascere un componimento o guardare le cose come un poeta le guarderebbe per poi riscriverne senza che il processo creativo venga sminuito dal racconto, perché sta accadendo sotto i nostri occhi.
Paterson e Laura sono attenti l’uno all’altra ma non sono mai stucchevoli; il quartiere dove vivono non ha niente di speciale; lei vorrebbe vedere pubblicate le poesie di lui e lo spinge a promesse che poi lui non mantiene, ma questo non le scalfisce l’amore e la stima per il suo compagno. Jarmusch sta bene attento a farci entrare nella loro intimità in punta di piedi. Entriamo sì, nella loro camera da letto, ma mai per assistere a una scena di sesso; li vediamo svegliarsi insieme, cercare la posizione nel letto coniugale, vita che si salda in gesti semplici e quotidiani. La loro è una poesia senza sottotesto perché è evidente e la differenza la fa Paterson. È lui che guarda al mondo senza giudizio, cercando piuttosto di svelarne a se stesso e a noi, le trame segrete da cui è attraversato. Quando, per un odioso incidente di cui è colpevole Marvin, il suo taccuino segreto andrà distrutto, all’improvviso la sua consueta passeggiata, il quartiere, le persone, tutto perde lucentezza e smalto. La realtà si offusca e si spegne, rivelando nient’altro che se stessa. Solo quando Paterson con la complicità di un misterioso poeta di Osaka seduto anche lui davanti alle belle cascate della città, gli dona un nuovo e intonso taccuino, la vita e le cose riprenderanno a brillare di quella luce che solo la poesia è in grado di dare.
Il miracolo di questo film è che è poesia esso stesso, senza manifesti, senza ricorrere ad alcun luogo comune sulla poeticità della vita, rischi che invece si sono manifestati in film come ad esempio Le ricette della signora Toku. Bello senz’altro, ma l’agguato del “film manifesto” su quanto cioè la nostra vita sia piena di per sé di miracoli quotidiani, ne mette in realtà in pericolo l’essenza più segreta e inspiegabile.
Paterson no, resta un haiku perfetto.
data di pubblicazione:12/01/2017
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da Gabriella Ricciardi | Nov 22, 2016
Giulia cammina con gli occhi bassi senza un filo di trucco, con una lunga treccia che le oscilla sulle spalle di un vestito castigato. Giulia non sembra appartenere a questo tempo dove ci sono facebook e la rete, e infatti non gli appartiene, perché il suo mondo è la comunità (la setta?) dei Testimoni di Geova e tutto quello che c’è fuori è proibito, pena la disassociazione dal gruppo. Giulia è Sara Serraiocco de La ragazza del mondo, un mondo che si lascia sempre più desiderare nonostante i pericoli che gettarcisi dentro comporta.
La ragazza del mondo è la promettente opera prima di Marco Danieli che getta lo sguardo dentro le stanze del Regno dove la comunità dei Testimoni di Geova si riunisce. Oltre a negare le trasfusioni e ad aver ricevuto più di una volta la fatale scampanellata che te ne annuncia la visita, poco sappiamo del modo che hanno di tenere compatto il loro esercito, minacciato a volte dagli ormoni. Sì perché il film, ispirato a una storia vera, racconta di Giulia, della sua giusta sete di vita, di baci e di desiderio carnale, e che trova in Libero, Michele Riondino, il compagno per aprirsi all’impetuosità di questo desiderio.
La vita di Giulia è regolata dalle adunanze, dal proselitismo, schiacciata da genitori che non le permettono nemmeno di pensarsi all’Università, lei che frequenta un istituto tecnico per ragionieri ed è un vero talento per la matematica. Studiare è coltivare un atteggiamento narcisistico, questo le dice il padre, meglio essere assunte dal mobilificio dove sta già facendo uno stage e scordarsi di farsi stregare dagli algoritmi. Ma Libero, appena uscito di galera per spaccio e a cui Giulia offre un lavoro in azienda, la travolge con la sua fisicità, con la sua scanzonata trasparenza che cozza contro le regole che da sempre le hanno imposto, ma che si fa sempre più strada nel suo sangue.
In un cinema italiano attento a storie che si ambientano tra camera e cucina (mi si passi la spiccia definizione per lo stile del cinema nostrano), il film di Danieli invece riesce a dialogare con un contesto sociale più ampio utilizzando il linguaggio del cinema di genere. Anche se racconta in modo meno convincente la deriva della storia, arrivando, per le vicende che riguardano lo spaccio, a snodi narrativi prevedibili, la personalità di Libero riesce comunque a saldare i distinti mondi, sospeso com’è tra il desiderio di una normalità sentimentale dalle tinte melò e l’appartenenza alla strada.
Scritto molto bene, quasi filologico nell’attenzione ai gesti e ai linguaggi che parlano i vari personaggi rendendoli sempre credibili, si affida a volte (colpevolmente) alla musica come riempitivo per una scena già risolta, come se il cinema da solo non bastasse. Invece le immagini sono “giuste”, serrate nonostante a volte si ripetano. Sullo sfondo una galleria umana che racconta una città sdrucita, disoccupata, lontanissima dalle griffes del centro, davvero dirompente quando arriva Pippo Del Bono, uno degli anziani della comunità, bravissimo nel suo ruolo di controllore viscido e vischioso della morale delle ragazze aderenti ai Testimoni, e guardiano implacabile della coesione della setta. L’atmosfera è soffocante, ma Giulia nonostante qualche incertezza, troverà con coraggio la sua strada, una strada che la porta nel mondo, che ha il sapore della libertà e che imparerà a percorrere da sola.
Sia la Serraiocco che Riondino hanno vinto per le loro interpretazioni il Premio Pasinetti a Venezia, dove La ragazza del mondo era in cartellone alle Giornate, essendo davvero coinvolgenti e credibilissimi. Resta a lungo nello spettatore il passo di questa giovane che dal buio dell’indottrinamento, cerca la luce, percorrendo una città che a poco a poco sarà più sua, una città totalmente priva di smalto e raccontata solo nelle sue strade periferiche che Danieli racconta in modo convincente e senza maniera.
data di pubblicazione:22/11/2016
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da Gabriella Ricciardi | Ott 13, 2016
Se mi dovesse capitare qualcosa, dite che ho fatto di tutto per campare. E di campare Dario Fo aveva ancora molta voglia nonostante i suoi 90 anni di cui più di settanta passati in teatro.
Del paese dov’era nato, Sangiano, diceva che era il paese delle meraviglie e insieme a Porto Tronzano e Porto Valtravaglia dove aveva vissuto dopo il trasferimento del padre capostazione, erano un pezzo di Lombardia dove – come ha raccontato nel suo libro autobiografico sui suoi primi anni di vita – giravano contrabbandieri e pescatori, più o meno di frodo. Due mestieri per i quali occorre molta fantasia. È a loro che devo la mia vita dopo: riempivano la testa di noi ragazzi di storie, cronaca locale frammista a favole. Da grande ho rubato a man bassa.
Da lì viene il granmelot, la lingua inventata di Mistero buffo come di altri suoi testi, un impasto di dialetti lombardi, di lingue straniere, bave di latino, interiezioni, stravaganze popolari, proverbi, lingua colta e gestualità.
Non avrebbe senso scrivere un “coccodrillo”, un genere che non amo e che spessissimo finisce per essere un peana acritico di chi ha lasciato questa zolla; né mi metterò ad analizzare il corpus dell’opera teatrale di Dario Fo come si fece invece quando parte dell’opinione pubblica e alcuni critici letterari si dichiararono stupefatti della scelta dell’Accademia svedese. A questo penseranno i giornali. Credo che invece abbia un senso provare a raccontare cosa è stato, cosa ha significato Dario Fo per una generazione come la mia, quella nata negli anni sessanta, cresciuta con la televisione in bianco e nero che trasmetteva tutto il grande teatro e che si ritrovava in piazza a manifestare e a chiudere i cortei con sul palco a fare festa, proprio Dario Fo con l’inseparabile Franca Rame.
Avevo dodici anni quando i genitori della mia amica e vicina di casa mi chiesero se volevo andare anch’io con loro al Teatro Tenda di Piazzale Clodio (a Roma).
A parte l’emozione di uscire la sera(!), uscire di sera per andare a teatro era come salpare per una terra mitica, il regno stesso dell’affabulazione. Quando si spensero le luci, il centro dello spazio teatrale fu occupato da un uomo disarticolato con i denti da coniglio, tutto vestito di nero. Si muoveva veloce ed emettendo suoni gutturali e poi di sorpresa, mentre lo spazio occupato solo da lui si andò popolando di gente. Era Mistero buffo. C’era Maria Maddalena, e gli sposi di Cana e Lazzaro il cui possibile ritorno dalla morte aveva generato un agguerrito gruppo di scommettitori; c’era Zanni che sognava di mangiare ed era così affamato che finiva per mangiare anche se stesso. Un mondo di contadini, di donne che cucinavano il niente, e tutto faceva lui, quell’attore che assomigliava a un giullare medioevale e sapeva mischiare la lingua colta di Cielo D’Alcamo con quella popolare lombarda e l’antico francese.
Sembrava che si fosse fermato lì, sulla piazza del teatro, proprio come facevano le antiche compagnie di giro, e avesse fatto sedere tutti in cerchio e ci stesse raccontando, a ognuno di noi, quanto grandi e buffi erano i testi sacri e quanto belle le pale d’altare con gli ori e i drappi dei santi, ma come altrettanto belli e sacri fossero i pastori, e quanto ironici e vernacolari i santi. E ce lo diceva con il corpo. Era una lingua vissuta.
Non sapevo che ci fossero altri vangeli oltre a quelli che a scuola mi avevano insegnato; si chiamavano apocrifi e l’attore sembrava conoscerli così bene da riuscire a cambiarli e a impastarli con la grassa terra Lombarda, magi che dall’Oriente si sedevano a riposare sulle sponde del Po.
Era ancora presto per saperle queste cose ma potevo sentirle, potevo emozionarmi e scoprivo rapita che il teatro non era un rito paludato, ma un luogo vivo dove accadevano cose e si reificavano mondi dove gli steccati culturali che a scuola ci insegnavano a rispettare, saltavano. Anche i re e i santi sapevano di terra e popolo, e i contadini godevano come i signori della bellezza delle cupole affrescate.
Ero incantata da quella lingua, una pasta densa di pietre preziose e ciottoli che il corpo dell’attore faceva vivere. La voce era un organo che si muoveva tanto quanto il corpo; erano le gambe piegate sulle ginocchia di una pia e timorata Madonna, ma erano anche gli occhi disorbitati e increduli di chi grazie alla sua astuzia è invitato a mangiare alla mensa del re.
Nutro una autentica passione per le lingue, per la loro genesi e trasformazione, e credo che Dario Fo ce ne ha regalata una capace di sintetizzare sinesteticamente quanto di alto e di basso, di povero e grasso, di triviale e di mistico dovrebbe avere una lingua per raccontare la complessità del mondo.
data di pubblicazione:13/10/2016
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