da Alessandro De Michele | Gen 8, 2020
Come ci ricorda sapientemente Manganelli nel suo Pinocchio un libro parallelo, nella figura del burattino e nelle sue inquietanti avventure è insita una straniante ambiguità, carica di possibili metafore e al tempo stesso sfuggente ad ogni definiva classificazione. Deve essere stata proprio questa oscura e perturbante eccedenza di senso, questa sfasatura tra significati apparenti (o contenuti manifesti?) e significati archetipici pescati dalle profondità di un immaginario popolare arcaico a incantare e sedurre irrimediabilmente Fellini. Il grande regista infatti coltivò a lungo il proposito di realizzare un film da Pinocchio: lo corteggiò garbatamente, girandoci intorno soprattutto negli ultimi anni della sua vita al punto che questa suggestione finì per contaminare la sua ultima sofferta opera che è La voce della luna.
Tuttavia, credo che proprio il percepire la grande potenza archetipica di questo racconto (che in qualche modo ” informa” un po’ tutto il suo cinema!) produsse una sorta di soggezione reverenziale che bloccò ogni passo decisivo verso una concreta realizzazione.
Dunque Pinocchio non poteva non rappresentare una seducente sfida carica di possibilità per un autore dotato di sensibilità umana e forza visionaria come Matteo Garrone: una sfida ambiziosa e piena di insidie, che si collocava tra il capolavoro di Comencini e il parodistico, fallimentare Pinocchio di Benigni. E paradossalmente Garrone riparte proprio da Benigni, e ne fa il punto forte del suo film: il suo Geppetto infatti è un omino fragile e spelacchiato che porta con se tutta la verità di un mondo contadino aspro e a volte feroce, fatto di povertà e di poesia, di innocenza e di superstizione, magico e terribilmente umano.
Da questa suggestiva evocazione muove e si dipana il film che tiene costantemente il passo con la narrazione del libro, concentrandosi sulla forza delle immagini, gestite con grande sapienza artigianale e coerenza espressiva, al fine di restituire più fedelmente possibile le suggestioni del racconto. Ma forse proprio questa intenzione di fedeltà finisce per essere una scelta che si pone come il punto forte e al tempo stesso il limite del film: probabilmente la necessità di contrarre i tempi adeguandoli ad un prodotto che, in virtù anche dello sforzo produttivo, è pensato per una grande platea (per di più natalizia!), non consente alle felici premesse di raggiungere uno sviluppo veramente compiuto e di mettere a fuoco una visione pienamente originale e “ autoriale”, come ci saremmo aspettati da un regista del calibro di Garrone.
Oltre al fatto di aver sacrificato interamente alcuni episodi (scelta assolutamente legittima in qualunque adattamento cinematografico), sembra che a volte l’inventiva registica abdichi alla necessità di attuare alcuni passaggi narrativi contraendo il racconto con soluzioni di montaggio che accorciano il respiro magico di alcuni momenti e penalizzano la performance di alcuni interpeti, penso in primis al Mangiafuoco di Proietti, che fa il suo dovere, ma non lascia il segno. Certamente apprezzabile il lavoro del piccolo Ielapi, che tuttavia è molto lontano dal restituire la guizzante, irriverente e inafferrabile energia dell’inorganico Pinocchio, nonostante l’encomiabile lavoro di Mark Coulier per il trucco del burattino, come per tutti i personaggi zoomorfi del film. Convincente e incisivo invece il Massimo Ceccherini –Volpe al punto da oscurare l’ottusa presenza del Gatto di Rocco Papaleo.
Insomma, Pinocchio è una di quelle grandi opere su cui si continuerà a dire, scrivere, pensare e immaginare, sedotti dall’inesauribile potenza evocativa che questo “raccontino popolare” continua ad emanare abitando la nostra memoria e il nostro inconscio; ma forse sono finiti i tempi in cui un artista, sfidando le logiche commerciali ed eludendo qualunque tentazione di compiacimento nei confronti del grande pubblico, spingeva le proprie “pulsioni creative” fino ai limiti dell’azzardo, avanzando in territori oscuri e inesplorati (penso a quanto fu spiazzante e avverso alle aspettative del grande pubblico un capolavoro come Il Casanova di Fellini).
In questo senso il film di Garrone rappresenta un perfetto esempio di prodotto di alta fattura, tuttavia preconfezionato, pensato a tavolino per un pubblico con un palato avvezzo a consumare immagini belle, quanto addomesticate, che più che a sogni perturbanti, aspira a sonni tranquilli.
data di pubblicazione:08/01/2020
da Alessandro De Michele | Gen 31, 2016
Nasce spontaneo il pensiero che con lui se ne sia andato l’ultimo dei grandi maestri del cinema italiano: un cineasta sapiente, appassionato, raffinato e sensibile, che in 50 anni di coerente e rigorosa attività, “ridendo e scherzando”, ci ha regalato pagine indimenticabili di grande cinema, che resteranno nella Storia della settima arte e nel cuore del grande pubblico.
Credo che ogni retorica celebrativa, ogni altisonante commemorazione (se pur in alcuni casi spontanea e sentita) avrebbe messo a disagio un uomo come Scola perché inesorabilmente in contrasto con quella sua sincera inclinazione a ridimensionare ogni iperbole espressiva, ogni affermazione di eccezionalità, riportando il discorso sul piano della vita di ogni giorno, dell’amore per il proprio lavoro, dell’interesse per ciò che è il destino comune: lui che, come pochi, ha raccontato splendori e miserie di un’umanità sempre sorprendente e meritevole di attenzione, sia che occupi salotti borghesi o degradate baraccopoli, condomini popolari o terrazze panoramiche. E il filtro attraverso il quale riusciva a dare credibilità e coerenza al suo sguardo, credo che fosse proprio quell’elemento che in qualche modo lo accumunava al grande amico Fellini: una sottile e calorosa ironia, che non diventava mai sarcasmo o snobistico distacco, ma un “ironia-simpatia” che era afflato, vicinanza e partecipazione con ciò che raccontava.
Queste considerazioni mi sono state suggerite da un recente, personale ricordo.
Qualche mese fa ho avuto la fortuna di poterlo incontrare con il pretesto di raccogliere una testimonianza-intervista per un nuovo progetto su Fellini nel quale ero stato coinvolto. Ero piuttosto dubbioso sul fatto di proporgli di riparlare dell’amico regista, pensando che nel realizzare il suo film Che strano chiamarsi Federico, avesse in qualche modo chiuso i conti con quell’argomento e quei ricordi, ed invece si rese disponibile.
Nonostante l’invadenza della troupe e la precarietà del suo stato di salute, ci accolse nella sua casa: era visibilmente provato e affaticato, ma rimasi sorpreso per quanto fossero intatti il piglio e il timbro della sua voce ed immutata la lucidità delle sue risposte. L’intelligenza e la spontaneità del suo argomentare mi indussero presto ad abbandonare la mia scaletta per seguire, con colloquiale piacevolezza, il filo del suo discorso sincero e profondo, ma estraneo a qualunque luogo comune o retorica.
Le premesse alla sua disponibilità erano state di non affaticarlo troppo, ma per me fu difficile concludere nonostante fosse trascorsa quasi un’ora senza che me ne accorgessi: avrei voluto restare lì, avvolto dai toni caldi e profondi della sua voce, e sentirlo raccontare ancora per molto del Marcaurelio, di Fellini, del cinema italiano, dei sui film, dei suoi attori… e domandargli di quell’inquadratura, di quella battuta, del piano sequenza iniziale di Una giornata particolare, dei movimenti di macchina in Brutti sporchi e cattivi, e molto altro ancora, ma non era il caso, non c’era tempo.
Sentivo però di dover in qualche modo testimoniargli quel senso di riconoscenza, di gratitudine che si prova per artisti che come lui ci hanno rivelato qualcosa di importante, che prima non sapevamo… Cercai un po’ goffamente le parole più semplici che mi parevamo più adeguate, si limitò a sorridermi con espressione soddisfatta ma senza alcun compiacimento, poi subito si alzò dalla poltrona.
Mentre mi accompagnava alla porta, la sua mano appoggiata sulla mia spalla, mi disse di aver avuto l’impressione di aver fatto “una delle interviste più sensate degli ultimi anni”. Mi congedò con queste parole che per me furono un regalo, senza immaginare che se ne sarebbe andato così presto.
data di pubblicazione:31/01/2016
da Alessandro De Michele | Apr 26, 2015
(Teatro Argentina – Roma, 21/23 aprile 2015)
L’Epos di un popolo è il potente crogiuolo da cui attingiamo i modelli più profondi del nostro funzionamento psichico, come le radici dell’anima che governano le prospettive attraverso cui vediamo noi stessi e il mondo: immagini mitiche a cui ritorniamo per riflettere sulla vita e sulle teorie che formuliamo su di essa.
In questo senso la riproposta di uno dei miti fondativi della nostra cultura occidentale, quale l’Eneide virgiliana, mai è sembrata così pertinente ed appropriata ai nostri tempi di disorientamento e perdita.
Storie di guerre e umane tragedie di esuli in fuga, disperati approdi sulle coste di terre della speranza, ci riportano prepotentemente alla tragicità di un presente in cui la sacralità dell’accoglienza riservata agli stranieri non ci garantisce più la benevolenza degli dei né la realizzazione del loro disegni.
Lo spettacolo di Giancarlo Cauteruccio, che dopo trent’anni viene riproposto al Teatro Argentina in una versione riveduta ed asciugata, ci spiazza e ci emoziona non solo per queste contingenti coincidenze sull’attualità, ma per la forza espressiva di un linguaggio che, scavalcando la concezione drammaturgica del racconto di parola, (punto essenziale della ricerca teatrale di quegli anni), affida all’immagine e alla suggestione del suono tutta la potenza evocativa di un territorio poetico fuori dal tempo.
Lo fa con grande effetto, coniugando l’arcaico con la tecnologia virtuale (allora in fase embrionale di sperimentazione) l’elaborazione del suono con il verso poetico. Questa combinazione sapientemente orchestrata contribuisce a fare, dell’esperienza teatrale in atto, un’esperienza squisitamente sensoriale e al tempo stesso profonda in quanto capace di schiudere visioni che fanno della scena il luogo del nostro immaginario più astratto al quale abbandonarsi con il piacere di perdersi.
In linea con questa scelta di concentrazione espressiva che si fa “performance – teatrale -concerto” è l’esecuzione live dei musicisti dei Litfiba, (autori ed esecutori delle splendide musiche) e dello stesso Cauteruccio, che portando al centro della scena il suo corpo “goffo e provato dal tempo”, fa risuonare le parole virgiliane con la potenza della sua voce.
In questo modo il timbro sporco e vibrante di suggestioni arcaiche sembra infatti squarciare le ondeggianti acque virtuali che dal boccascena invadono la platea e ci sommergono con la forza di un rito spettacolare che, giocando sulle sovrapposizioni, sfugge alle convenzionali definizioni.
Non a caso questa emozionale immersione, in un non-racconto teatrale fatto di quadri scenici che, come frammenti riportati alla luce del tempo ci parlano senza una logica continuità, raggiunge la sua massima forza espressiva laddove la forza della parola e del suono si fanno immagine e dove l’immagine evoca reconditi spazi di significato in cui la parola non ha accesso, con esiti di astrazione assolutamente convincenti.
In questo senso appena più dissonante ci è apparsa la performance canora di Ginevra Di Marco, non certo per la qualità della sua esecuzione, ma perché una certa didascalicità del verso lirico della canzone ci riporta su piani più razionalmente accessibili e, per questo, forse meno emozionanti.
È in questa suggestiva combinazione di racconto epico e allucinazione post-moderna, in cui la tecnologia si inserisce come residui diurni nella tessitura di un sogno, che l’Eneide di Krypton ha mantenuto la forza evocativa di una rappresentazione fuori dal tempo, capace di palarci di ciò di cui abbiamo sempre bisogno, illuminandoci sul nostro domani.
Per dirla con un verso di Pound: “Rendi forti i nostri sogni – perché il nostro domani non perda coraggio – a lume spento”
data di pubblicazione 26/04/2015
Il nostro voto:
da Alessandro De Michele | Gen 11, 2015
Quando Fellini la vide per la prima volta avanzare nei giardini del l’Hotel De La Ville a Roma, raccontò di aver provato quel senso di meraviglia, di stupore rapito, di incredulità, che si prova di fronte alle creature eccezionali, come la giraffa, l’elefante, il baobab…. Visione sconvolgente e perturbante – tutto ciò che le stava intorno, sbiadiva come ombre attorno a una sorgente luminosa…– racconta ancora il regista.
Quella gloria di divinità elementare schiuse nella fantasia del grande artista visioni destinate a diventare mito, immagini potenti, inedite, modernissime e ancestrali: incarnazione del Femminile, accarezzando quella frangia d’acqua della fontana di Trevi come un’arpa ammaliatrice, richiamò a sé, oltre all’attonito Marcello, il pubblico di tutto il mondo.
E così la giunonica svedese, la pin-up girl hollywoodiana, da poco consacrata al grande cinema con la partecipazione al film Guerra e Pace di King Vidor, sbaragliando ogni moralistica resistenza entra prepotentemente nell’immaginario collettivo come un’epifania di bellezza rigeneratrice: quel gesto semplice e spontaneo di raccogliere poche gocce d’acqua e come in un battesimo pagano versarle poi sul capo dell’uomo che le sta di fronte, diventa l’espressione di una, seppur fuggevole, possibilità di riconciliazione e armonizzazione con la bellezza del mondo.
È solo un attimo, un fremito illusorio, un istante eterno, ma da quell’attimo-eterno, come un raro e preziosissimo esemplare di farfalla, Anita Ekberg resta infilzata come dallo spillone di un entomologo che, sottraendola alla vita, la condanna precocemente all’immortalità.
Toccata dalla potenza del genio, con La dolce vita, la Ekberg raggiunge un iperbole di “rappresentazione di sé” che non le consentirà più di trovare la misura giusta ad esprimere le sue potenzialità di interprete e di attrice internazionale.
Sull‘onda lunga di quel travolgente successo, non può che auto-consacrarsi rappresentando se stessa nel divertente e irriverente sberleffo ai censori de La dolce vita che è l’episodio Le tentazioni del dottor Antonio del film Boccaccio 70, quindi, nella seconda metà degli anni ‘60, diventata cittadina italiana, partecipa a diverse produzioni internazionali e italiane, ma nessuna degna di nota.
Dopo una fuggevole apparizione, dove è ancora se stessa al seguito del Circo Orfei ne I Clown di Fellini, gli anni settanta le offrono solo ruoli in filmetti di genere, dove la sua “abbondante bellezza”, la sua imponete fisicità si afferma come il malinconico simulacro di uno sfiorito sex symbol sul viale del tramonto.
Ed è sempre sul filo di una malinconica nostalgia che si ripropone al pubblico la sua presenza in trasmissioni televisive commemorative, in interviste celebrative di un passato che sembra aver profondamente segnato la sua esistenza di donna sola, ora approdata ad una vita appartata, lontana dai riflettori, nella campagna romana, in compagnia dei sui cani.
Ma sarà ancora una volta nelle mani del grande demiurgo, che il suo mito riprenderà vita in alcune brevi, ma sempre memorabili sequenze cinematografiche, in cui realtà e fantasia, vita e rappresentazione si rincorrono e attraverso un reciproco riflettersi, si riconoscono.
E’ il set del film Intervista del 1987, e nella sua casa solitaria il grande regista la ritroverà: imponente e superba come un gladiatore, aprirà le porte a quella piccola troupe e un Mastroianni-Mandrake compirà il magico prodigio…: Oh bacchetta di Mandrake..il mio ordine è immediato….fai tornare i bei tempi del passato!!…
La sua luminosa bellezza riempie ancora lo schermo, per un attimo tutto resta sospeso, solo poche note dell’inconfondibile musica, poi tra volti rapiti e occhi velati, la voce di Marcello: – tu sei la prima donna del primo giorno della creazione…la madre, la sorella, l’angelo, il diavolo, la terra…la casa… ecco sì…sei la casa!…
data di pubblicazione 11 /01/2015
da Alessandro De Michele | Nov 10, 2014
(Una giovinezza enormemente giovane – Teatro Argentina – Roma, 5/9 novembre 2014)
Il trascorrere del tempo, come spesso accade, è rivelatore dell’autentica grandezza e universalità di un’artista: aldilà di quanto ingombrante possa essere il suo “personaggio” e le sue “personali vicende”,la specificità del suo nucleo poetico, come un prezioso e inesauribile minerale, continua radioattivamente ad emanare una forza e una suggestione potenti, capaci di riattivare la curiosità del pubblico, le riflessioni di intellettuali o l’immaginario di artisti in cerca di ispirazioni rigeneratrici o semplicemente di facili meccanismi identificativi fini a se stessi …( l’ultima fatica di Abel Ferrara è in questo senso indicativa). Pasolini rappresenta l’eccezionale caso in cui un intellettuale di primordine, solido e appassionato, genera, attraverso la grazia della poesia, un’artista eclettico e vitale … capace di stupire, incantare, scandalizzare … confondere; a prezzo di laceranti contraddizioni, oltraggiose esposizioni della propria vita … e del proprio corpo. Ed è proprio dal suo corpo, abbandonato nella desolazione di una notte oscura in cui si sentono solo rumori lontani e un latrare di cani, che parte Una giovinezza enormemente giovane, lo spettacolo tratto dal testo del compianto Gianni Borgna, elaborato su scritti di Pasolini: dunque la scena è quella del delitto, un delitto ratificato nell’atrocità di quella notte, ma presagito come destino ineluttabile attraverso tutto il corpus della sua opera. Suggestiva e inquietante è l’apertura dello spettacolo che ci introduce subito nella teatrale dimensione de – l’oltre – attraverso la presenza metafisica dello stesso Pasolini (interpretato da Roberto Herlitzka); il poeta osserva il proprio cadavere … impastato di sangue e fango, stigmatizzazione di una fine emblematica e catartica … proprio come in una sacra rappresentazione. Se il registro dello spettacolo sembra inizialmente voler attingere proprio alle suggestioni del Sacro (poi ribadite un pò didascalicamente nel finale con la musica di Bach e le immagini tratte dal “Vangelo”) … la riflessione-monologo a cui lo stesso Pasolini-Herlitzka si abbandona nel corso dello spettacolo ha qualcosa di troppo programmaticamente pensato ai fini di una esaustiva e sintetica celebrazione del Pasolini pensatore civile, per sorprenderci ed emozionarci veramente: attingendo dagli Scritti corsari, dalle Lettere luterane e da quel profondo e magmatico contenitore che è Petrolio, non mancano riferimenti ai misteri dell’ENI, alla fine di Mattei, al genocidio delle periferie a l’omologazione culturale che ha cancellato l’orizzonte delle piccole patrie … e sull’orizzonte delle stragi, la spiazzante e profetica previsione di un popolo che come polli d’allevamento – avrebbe accettato – la nuova sacralità, non nominata, della merce e del suo consumo. Niente di più appropriato e pertinente dunque, per i nostri desolati giorni, in termini etici e di contenuti … ma sulla scena qualcosa scricchiola: un sapore convenzionalmente celebrativo appunto, che va a scapito della poesia, della tensione e della coesione del testo (perchè quel lungo elenco con nomi e generalità delle vittime delle stragi di Piazza Fontana?) – c’è un tono un pò troppo fiacco e monitorio nella recitazione del protagonista, che contraddice l’ambigua vitalità di Pasolini … e in questo senso forse, l’ossuta e un pò anchilosata fisicità di Herlitzka (superbo attore dal volto pieno di pathos) che si trascina con passo stanco e senile sulla scena contribuiscono a ribadire questo senso di estraniamento dalla disperata vitalità del poeta! – ( … perché allora, muovendosi nella dimensione metafisica della scena-teatro, non farlo interpretare da un attore enormemente giovane che con la fisicità di un calciatore avrebbe intonato col giusto vigore i giovanili versi friulani?…) soprattutto nel finale, quando il testo rievoca l’ultima notte in cui spinto da quella oscura, famelica pulsione che lo possedeva, compie quella che forse è la più tragica e al tempo stesso sublime esperienza a cui un artista può aspirare: la deflagrante collisione che porta a fondersi la realtà con la sua rappresentazione …la vita con la propria creazione. Forse proprio per questo Pierpaolo Pasolini …. non smetterà mai di parlarci!
data di pubblicazione 10/11/2014
Il nostro voto:
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