da Accreditati | Giu 20, 2016
In India il fiume sacro Gange è adorato dagli indù, che la mattina, scendendo dalle scalinate (ghats) della città sacra Benares, vi si possono immergere in atteggiamento di preghiera per purificarsi dai propri peccati. Due storie d’amore si consumano sotto il cielo e tra le gradinate di questa città bagnata dal fiume, personificazione della dea Devi, senza tuttavia che i protagonisti se ne rendano conto, ma che solo alla fine come due linee parallele in un punto preciso all’infinito si toccheranno, apparentemente per caso.
Una ragazza viene sorpresa dalla polizia in un albergo, a letto con il suo compagno di studi Safhya: Devi è il suo nome e quella era la sua prima volta. La ragazza dovrà scontare a caro prezzo questo atto ritenuto dalla società come qualcosa di spregevole e vergognoso, soprattutto nei confronti del padre Vidyadhar Pathak, uomo molto stimato, saggio e colto, ridotto in miseria dalle circostanze della vita. Deepak, invece, è uno studente di ingegneria, la famiglia si occupa del crematorio lungo le sponde del Gange: il ragazzo si alterna con il fratello ed il padre nella cremazione dei cadaveri, dedicando il poco tempo che gli rimane allo studio. Si innamora perdutamente di Shaalu Gipta, una ragazza contattata su facebook che però appartiene ad una casta superiore alla sua ed il cui amore, sia pur ricambiato, non potrà essere essere vissuto alla luce del sole sino a quando il ragazzo non finirà gli studi e non avrà trovato un dignitoso lavoro.
Neeray Ghaywan, giovane regista indiano al suo esordio, con Tra la Terra e il Cielo ci narra due storie parallele per alcuni aspetti simili in quanto in entrambe l’amore si trasforma in sofferenza e la morte sembra avere il sopravvento, in maniera crudele, sulla vita. Adottando due diversi registri narrativi nel raccontarci le vicende di questi quattro giovani, il regista tuttavia riesce a fonderli sul finale in un tutto più armonico, lasciando ben intravedere l’apertura verso una nuova vita che risorge dalle ceneri della precedente. Coerente con la millenaria spiritualità della religione indiana, il film ci induce a credere che il nostro essere sia animato da opposti che si susseguono in un incessante movimento circolare, dove anche i contrasti trovano il loro punto di fusione.
Ghaywan ci dà un’immagine diretta e reale dell’India di oggi senza risparmiarci nulla, anche ciò che di spirituale ha molto poco, prendendo a pretesto due storie d’amore per parlarci della vita di ogni giorno in cui i giovani lottano, e a fatica, tra una realtà che guarda al progresso ed alla modernità, e una mentalità retrograda che pesa come un macigno frenando il paese ed impedendogli di emanciparsi completamente.
Nel film i personaggi, ciascuno spinto da motivazioni diverse, lottano per riscattarsi socialmente ed inserirsi in un nuovo mondo più evoluto, scontrandosi con corruzione, pregiudizi ed una tradizione religiosa con la sua rigida suddivisione in caste, rigorosamente chiusa in schemi che non permettono alcuna trasgressione.
Ma ancora una volta l’amore sarà l’unica strada percorribile per riscattarsi da queste gabbie convenzionali, con l’immagine di due anime che su di una barca vengono traghettate dall’altra parte del Gange verso un futuro inaspettato.
data di pubblicazione:20/06/2016
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da Accreditati | Giu 17, 2016
Secondo la teoria di alcuni, Dio è un essere perfettissimo ma bizzarro che, oltre a trastullarsi sulle disgrazie di noi umani (concetto esemplarmente tradotto in immagini nello spassoso quanto intelligente Dio esiste e vive a Bruxelles di Van Dormael), a volte manifesta la sua infinita saggezza e indiscussa onniscienza attraverso la voce di uno, scelto forse a caso, che a questo punto verrà definito e ricordato dai posteri come un genio. Il prescelto, di suo, parrebbe non mettere nulla, se non limitarsi ad enunciare qualcosa che sino a quel momento era sconosciuto: fungendo da tramite tra gli uomini e Dio ne diventa il suo portavoce, arrivando ad affermare qualcosa che già c’è, solo che nessuno prima di allora sapeva dove fosse.
L’uomo che vide l’infinito di Matt Brown parla di questo: il protagonista Ramanujan (Dev Patel) espone formule matematiche nella loro totale completezza senza avvertire la necessità di doverle dimostrare perché lui, nel suo modo di sentirle, non ne ha bisogno in quanto quei teoremi sono come una musica, sinfonie nella sua testa. Il racconto parte agli inizi del ‘900 da Madras, in India, a quel tempo colonia britannica, dove il geniale ragazzo Ramanujan vive in assoluta indigenza, scrivendo teoremi, algoritmi, equazioni esponenziali a n incognite e la successione dei numeri primi sul pavimento di un tempio, non avendo la possibilità neanche di comperarsi la carta per trascriverle. Dopo aver fatto innumerevoli tentativi in patria per essere ascoltato, decide di inviare una lettera al famoso Trinity College di Cambridge esponendo parte delle sue intuizioni; la lettera viene intercettata dal professore G. H. Hardy (Jeremy Irons), freddo ed ostile, che inviterà il giovane a confrontarsi e ad argomentare quanto asserisce nella sua missiva.
Il film si basa su una sceneggiatura a volte traballante ed incline al melodramma che, con qualche cliché di meno, avrebbe raggiunto una maggiore incisività facendo risparmiare allo spettatore qualche lacrima di troppo. La storia di questo giovane ragazzo indiano, passato poi alla storia come un genio della matematica, scorre abbastanza fluida, mettendo essenzialmente in luce la sua conquista di un ambiente ingessato ed avverso perché troppo intriso di pregiudizi e decisamente poco incline a riconoscerne una superiorità intellettuale. Ben interpretato, il film si lascia vedere anche grazie ad una attenta ricostruzione storiografica, una bella fotografia e per quell’ingiustificato fascino che la dicitura “tratto da una storia vera” esercita sullo spettatore.
La chiave di lettura del film tuttavia non sembra doversi ricercare nel contrasto generazionale e razziale tra il protagonista e l’ambiente austero del College inglese, quanto nell’ispirazione divina delle formule enunciate che solo una sapiente dose di spiritualità indiana ne giustifica l’accettazione.
Purtroppo fa male constatare che ad un attore del calibro di Jeremy Irons siano riservati nell’età matura solo ruoli da tronfio professore universitario (La corrispondenza). Questa fase della sua carriera, non certo la migliore, è comunque di tutto rispetto al confronto dei ruoli ultimamente interpretati da Robert De Niro che, proprio nel cast assieme ad Irons in quel meraviglioso Mission, diede vita ad una delle più memorabili scene di conversione che siano mai state portate sul grande schermo.
data di pubblicazione:17/06/2016
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da Accreditati | Mag 20, 2016
Finalmente un film che ci ha circondati, avvolti e spettinati, come le chiome delle due travolgenti interpreti e le loro storie. Virzì ci diverte e commuove realizzando una pellicola in cui il confine tra la lucida razionalità e la pazzia è decisamente compromesso e dissolto, così come quello tra commedia e dramma, a metà tra Thelma & Louise, Il grande cocomero e Qualcuno volò sul nido del cuculo, in cui il mondo è diviso in due: tra quelli che vogliono stare male e quelli che vogliono stare bene… Applaudito a lungo e a ragione al 69° Festival di Cannes, La pazza gioia parla del lato oscuro che c’è in ognuno di noi, ma che in qualcuno prende quel tono di “cupa cromia” da reprimere e nascondere. Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi) e Donatella (Micaela Ramazzotti) sono due donne in cura presso una comunità psichiatrica che, approfittando della distrazione dei sorveglianti, riescono a scappare intraprendendo un viaggio al limite del credibile che ci porterà a scoprire le loro vite e l’origine della loro “pazzia”, in cui gli slanci vitali sono incarcerati nei regolamenti. Due donne che secondo alcune perizie sembrerebbero “matte”, ma che sicuramente sono alla disperata ricerca di un po’ di felicità, di quella pazza gioia che assume dei contorni semplici, innocenti, innocui.
Difficile stabilire se il film di Virzì faccia più ridere o commuovere. Una cosa è certa: è autentico, senza buonismi, pietismo, retorica o banalità. È un film sull’amicizia, sulle difficoltà della malattia ma anche un atto d’accusa nei confronti della “normalità” che, schierandosi dietro i Giudici, i Tribunali, i direttori sanitari o i medici degli OPG, troppo spesso è cieca, sorda e insensibile verso i più deboli, i più indifesi, i più generosi.
Beatrice è una istrionica, charmant, elegante e femminile contessa decaduta, sempre attenta ai dettagli e schiava della bella vita; mentre Donatella è una giovane ragazza madre dal corpo esile e spigoloso, mascolina nei modi e negli abiti, che si accontenta di avere uno spazzolino da denti, una torcia e un cellulare datato che usa solo per ascoltare a oltranza la canzone di Gino Paoli “Senza fine”, convinta che sia stata il suo babbo a scriverla per il famoso cantautore. La storia del loro incontro e della loro amicizia, nata tra le stanze di Villa Biondi, si sviluppa tra la torrida campagna toscana e il litorale tra Ansedonia e Viareggio, in una dimensione paradisiaca ed ancestrale della Maremma, e la perdizione corrotta delle discoteche.
Straordinaria l’interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi, splendida la maturità artistica raggiunta da Micaela Ramazzotti, incredibile l’armonia poetica tra le due interpreti.
Il confronto tra le due protagoniste sul lungomare di Viareggio al tramonto è un momento emozionante, carico di tante verità, in cui lo spettatore non potrà non sentirsi vicino a loro e parte di loro, in cui i farmaci e le terapie mediche vengono sostituiti da un po’ di sana sincerità ed empatia che fa dire, a chi è nato triste ma che vuole guarire, “meno male che ci sei tu”.
data di pubblicazione:20/05/2016
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da Accreditati | Apr 3, 2016
Ivan Cotroneo racconta una storia di amicizia e di disagio attraverso la vita, i gesti e le parole di tre sedicenni, ambientandola in quella provincia d’Italia incapace di evolvere verso il nuovo e di integrare, con una scuola che spesso poco insegna e pochi valori trasmette, generando stereotipi e convenzioni a cui ci si lega per non rimanere da soli. Ecco allora che tre adolescenti, già segnati da profonde ferite e dalla complessità dei loro anni, scelgono di comune accordo la via dell’emarginazione per sopravvivere, convinti che la loro amicizia li salverà.
Cotroneo li racconta a modo suo, volando sulle storie di Antonio, Blu e Lorenzo con leggerezza e con ali di colorata fantasia, rimanendo tuttavia radicato nella realtà che vivono questi ragazzi nati nel terzo millennio. Blu, scrittrice in erba schietta e dura, scrive a se stessa proiettata nel futuro “per non dimenticare” il presente, in cui i suoi coetanei la etichettano sui muri di scuola con appellativi squalificanti; Lorenzo si rifugia costantemente in un mondo immaginario, sfoggiando in modo tronfio una forza che non ha, per cercare sicurezza e trovare quell’ammirazione dei suoi coetanei che apparentemente disprezza; l’introverso Antonio sfoga tutte le sue frustrazioni nello sport, unico campo in cui eccelle ed in cui può essere sé stesso, senza l’ombra ingombrante di un fratello maggiore scomparso prematuramente. Può dunque un semplice bacio cambiare le loro vite? Secondo il regista sì, se dietro di esso ci sono i sogni, le speranze, le gioie e i dolori, le relazioni familiari e scolastiche degli adolescenti di oggi che viaggiano in rete, ma che hanno dei genitori ed insegnanti spiazzati dall’amplificazione che queste nuove tecnologie riescono a generare sulle vite dei loro figli, rendendo molto complesso (e non sempre colpevole) il loro ruolo di educatori.
Un bacio è una riflessione sulle fragilità e sulla difficoltà dell’essere adolescenti oggi, sulla solitudine che troppo spesso sconfina nella disperazione e sulla necessità di interrogarsi come, in questa folle corsa del quotidiano, rendere vivi e presenti i valori veri.
Il film usa un linguaggio spiazzante che può risultare inizialmente superficiale, perché pur muovendosi tra violenza, bullismo ed omofobia ci distoglie costantemente da essi nell’intenzione di sorprenderci, proprio come gli adolescenti sanno fare con le loro vite in bilico tra il tutto ed il suo contrario, con quell’impellente e costante bisogno di bruciare le tappe piuttosto che darsi tempo.
Molto curata la colonna sonora ed il cast è di tutto rispetto; a Luca Tomassini sono state affidate le coreografie di spassosissimi intermezzi danzanti, mentre la produzione vede il ritorno della gloriosa Titanus in una singolare fusione con Lucky Red ed Indigo.
data di pubblicazione:03/04/2016
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da Accreditati | Feb 18, 2016
Basato su una storia vera il film di Thomas McCarthy, presentato a Venezia 72 nella Sezione fuori concorso, narra di un gruppo di giornalisti investigatori appartenenti alla sezione denominata Spotlight (tutt’oggi esistente) del quotidiano locale The Boston Globe.
È l’estate del 2001 quando il neo direttore (Liev Schreiber) decide che la Spotlight deve accantonare le indagini giornalistiche in corso per riaccendere i riflettori su alcuni casi di abusi su minori susseguitisi una trentina di anni prima nella loro comunità ad opera di alcuni prelati, e segretati dall’omertà di alcuni componenti di spicco della società cattolica bostoniana. Coordinati da Walter Robinson “Robby” (Michael Keaton), nel gennaio del 2002 il gruppo Spotlight riuscirà a rendere di pubblico dominio la storia di un sistema di protezione attuato da un gruppo di avvocati nei confronti di alcuni sacerdoti della diocesidi Boston.
Il film di McCarthy è di estrema attualità e punta il dito non solo sull’inefficacia delle rare misure adottate dalla Chiesa nei confronti delle sue mele marce, ma soprattutto sulle violenze, oltre che fisiche anche di fede, arrecate a bambini affidati alle cure di sacerdoti, veri e propri padri spirituali, che in questo modo hanno doppiamente violentato le proprie vittime.
Ben interpretato, incalzante e realistico, non banale né retorico, in Spotlight spicca l’interpretazione di Mark Ruffalo, che intervenuto a Venezia in conferenza stampa, aveva manifestato uno spirito in linea con le sue battaglie da attivista in campagne di rilevanza politico-sociali. Sicuramente da vedere, sia per lanciare il messaggio di un ritorno al giornalismo libero ed investigativo che oramai in America è di appannaggio solo di pochi professionisti finanziati da privati, sia per invitare ovviamente la Chiesa a fare chiarezza.
data di pubblicazione 18/02/2016
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