Dal genocidio, riletto senza estenuazioni e compiacimenti con gli occhi di un bambino di quattro anni (il nonno dell’autore), fino alla transizione sovietica dell’Armenia. Torna in patria un americano nato in Armenia per conoscere realmente il proprio Paese ma finisce in carcere per la gelosia di un militare di regime. Dunque il film si trasforma in un movie carcerario abbassando un po’ la temperatura del climax.
Levità e leggerezza. Il protagonista ha sempre il sorriso sulle labbra nonostante l’escalation drammatica della propria detenzione. Il limite del film è non riuscire a trovare un graduale approdo in un genere preciso. I sovietici sono grotteschi, lo sviluppo è drammatico, il finale è sentimentale. Così, scrollandosi di dosso qualche esagerazione caricaturale, fa pensare a La finestra sul cortile ovvero la vita scrutata attraverso le sbarre del carcere vivendo e soffrendo per le vicende della famiglia, spiata da lontano unico motivo di attrazione della giornata. In effetti questo legame indiretto avrà un senso nel finale ad avvenuta liberazione. La situazione che apre le porte alla libertà, schivando la Siberia, tra l’altro, è la morte del grande dittatore Stalin. Un grande senso di orgoglio armeno trapela nelle intenzioni anche se il regista vive in America, come si intuisce dal suo accento. Dopo i primi ciak all’altezza del marzo 2020 (in piena escandescenza di Covid) l’opera trovo sbocco in Italia. E grande merito va alla piccola sala romana del Delle Province che l’ha presentata in anteprima alla presenza dell’onnivoro autore e dell’attrice principale. Segnalazione per gli Oscar di due anni fa e stupore anche nel plot per l’incredibile accusa di cosmopolitismo che costa la perdita della libertà al protagonista, complice una cravatta, simbolo del capitalismo.
data di pubblicazione:17/01/2025
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