Una famiglia apparentemente tranquilla viene sconvolta da un evento traumatico: l’arresto del figlio appena tredicenne, Jamie, accusato di aver accoltellato a morte una compagna di scuola. “Non ho fatto nulla” – ripeterà il ragazzo. I genitori, dal canto loro, sono convinti che si tratti di un errore di persona. Sarà vero? O è vero il contrario?
Si ispira al genere true crime questa miniserie britannica girata in piano sequenza, senza tagli e senza interruzioni. Solo un cambio di prospettiva, seguendo il cammino spesso tortuoso dell’uno o dell’altro personaggio. Un filo che non si spezza né si recide, ma si avvolge e si dipana via via come una matassa. O si espande come una ragnatela. Un male che coinvolge in primo luogo il giovane Jamie Miller (Owen Cooper, ottimo interprete), protagonista della vicenda. Ma anche la sua famiglia, gli amici, la comunità tutta intera.
Chi è il vero colpevole? Chi ha ucciso chi, e come lo ha fatto. Poiché si può uccidere in tanti modi. E soprattutto, come può un bambino – poco più di questo, in realtà – essere all’origine di un tale crimine. E subirne le conseguenze, proprio come fosse un uomo, un adulto.
Tra le primissime scene, l’irruzione degli agenti di polizia dentro casa dei Miller. Per arrestare lui, il ragazzino. Prelevarlo, stanarlo da sotto le coperte, lì dove appare gracile e indifeso, e col pigiama irrorato di paura. Irrompono in egual misura l’incredulità, lo sgomento, e al tempo stesso il sospetto, terribile. Ma a risultare davvero straziante, nel corso di tutta la narrazione in “presa diretta”, non è il pianto di Jamie. Piuttosto, è quel baratro negli occhi smarriti del padre, Eddie Miller (interpretato da un intenso Stephen Graham), la smorfia atroce sul viso contratto di lui, man mano che gli eventi si susseguono e il “vero” si disvela. Sono le lacrime trattenute a fatica dalla psicologa (Erin Doherty) al termine dell’ultimo estenuante colloquio col ragazzo/detenuto. È lo sguardo attonito di Luke, l’ispettore incaricato del caso (Ashley Walters), di fronte a una realtà che egli stesso (a sua volta padre di un adolescente) ignorava. Mentre gli adulti armeggiano con logiche e tecniche ormai prive di senso (ricerca del movente, testimonianze di altri per “capire perché”), i giovanissimi si muovono sotterraneamente, con linguaggi cifrati, portatori di ambiguità e violenza (“Non lo sapevo! È difficile credere a tutto questo tramite due simboli…”).
Si cerca dunque una verità che nella “rete” virtuale dei rapporti fasulli semplicemente non esiste. Distorta, deformata, mutata in pensiero fallace nella mente dei figli (“Per me è importante quello che pensi, non quello che è vero”). E proprio in questa mancata corrispondenza tra intima percezione e dato di realtà risiede il dramma di questa “Adolescence”. Che non fa più rima con “Innocence”. In un mondo di piccoli che fa paura ai grandi.
data di pubblicazione:18/03/2025
Grazie Daniela
Ho seguito con interesse questa mini serie Netflix. Quattro episodi girati in presa diretta e con i suoi tempi per inquadrare i singoli personaggi e nel contempo una realtà amara che si fa fatica a accettare. Uno spaccato di questa società oramai in decomposizione dove tutto diventa pretesto per una reazione incontrollata. Un adolescente deriso e bullizzato da una compagna che non percepisce la gravità di ciò che fa e di ciò di cui lei stessa sarà vittima. Un malessere dilagante in cui gli stessi genitori sono colpevoli inconsapevolmente del misfatto. Un copione che si ripete sempre più spesso per identificare una vita oramai alla deriva…