La Calabria, l’adolescenza, il fatidico ’68, la scoperta della politica, i gol dalla bandierina di Palanca. Pieno di ingredienti l’orizzonte adolescenziale del protagonista di un romanzo che è un memoir, un intenso viaggio nel passato. Ricco di icone, di simboli, di contraddizioni, di smarrimenti, di scoperte sull’altro sesso. Timori e tremori da un mondo inabissato su cui va a frugare l’esercizio di memoria. L’alta qualità letteraria del libro si esplica con una lingua che più del calabrese tout court ammicca a uno slang catanzarese che deforma le parole ma di cui il lettore non tarda a impossessarsi. L’autore ci fa entrare in un mondo in cui si poteva cambiare il mondo prima che il mondo cambiasse noi o ci convincesse al minimo comune denominatore del quieto vivere, senza palpiti e sussulti. Al contrario era la passione che animava l’uscita dall’infanzia e l’ingresso in quella semi-maturità ricca di ambizione e di spirito di rivolta. Si percepisce l’angustia esistenziale del vivere in un sud retrogrado e che scopre con ritardo le conquiste civili della società. Tutto il progresso appare spostato al nord. Con una gita a Roma, come in un viaggio in Germania o nel profondo nord. Dunque è il ritratto collettivo di una generazione che spicca nel quadro d’assieme. Senza dimenticare il magico piccolo piedino di Palanca, centravanti del Catanzaro, capace di segnare dal calcio d’angolo. E per ben tredici volte come ricorda il titolo del libro. Palanca assurge al ruolo di protagonista inconsapevole, a eroe di una rivoluzione incompiuta, neanche fosse un Mao Tse Tung. Il raccolto in agrodolce mantiene la giusta tensione fino alla fine e dalla narrazione solista si eleva a ritratto di una classe, di un popolo accomunato dalla stessa anagrafe e dallo stesso deluso anelito al cambiamento. Oggi che di utopie sembriamo non farcene il ricordo di quegli anni è ancora più vivo e struggente.
data di pubblicazione:22/10/2019
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