LE ULTIME COSE di Irene Dionisio, 2016

Irene Dionisio è una giovane regista torinese (oggi trentenne) che con Le ultime cose, dopo essersi laureata in Filosofia estetica e sociale e frequentato il Master in documentarismo diretto da Daniele Segre e Marco Bellocchio, esordisce con questo film nel lungometraggio. Presentato a Venezia nella sezione Settimana della critica affronta in questi giorni il pubblico delle sale. La regista, con l’Associazione Fluxab di cui è socia fondatrice, cura progetti su temi come l’integrazione, le politiche culturali e le questioni di genere, temi che ha già in parte affrontato nei suoi documentari, e che costituiscono il punto di partenza anche per questo film che infatti in origine doveva essere un documentario.
Sono molte le persone che ogni giorno varcano la soglia del Banco dei pegni di Torino, tra smarrimento, angoscia e tentativi di mantenere il decoro. Cercano di ottenere una dilazione alla miseria impegnando appunto, quelle poche ultime cose che possiedono. Sandra, una giovane trans rifiutata dalla famiglia e appena tornata in città, cerca lavoro; Michele è pensionato e con sua moglie condivide la grande pena di non poter dare al suo nipotino di tre anni tutto ciò di cui ha bisogno per crescere meglio, soprattutto un indispensabile apparecchio acustico; Stefano da poco assunto al Banco, si scontra con colleghi che da tempo hanno fatto del Banco un luogo sordido dal quale ricavano soldi illeciti grazie al traffico dei pegni operato da altrettanto sordidi individui che come squali girano attorno all’edificio a caccia di bolle da riscattare e oggetti da ricomprare. Il perito “anziano” a cui Stefano è stato affidato, sottostima gli oggetti d’accordo con i rivenditori illegali all’esterno che si propongono immediatamente come compratori alternativi, offrendo compensi più appetibili a questo esercito di nuovi poveri. Stefano prova a comportarsi eticamente ma, forse perché troppo debole, alla fine sembra rinunciare alla sua posizione. Dico sembra, perché come molte altre cose di questo film, resta accennata senza essere sviluppata. La Dionisio non scava nei personaggi, li presenta e cerca di intrecciare labilmente queste storie senza riuscire però ad imbastire il racconto, e senza racconto e approfondimento manca l’interesse dello spettatore a saperne di più, a interessarsi veramente a queste vite. Lo sguardo della regista è attento alle piccolissime cose che definiscono i caratteri e le persone: monili, tinture slavate su capelli sciupati, abbigliamento da bancarella, case dignitose senza bellezza, ma non riesce a sfondare il confine che dalla documentazione, dalla testimonianza, si proietta nel racconto cinematografico, con ritmo e veri snodi drammaturgici. Insomma niente racconto corale come vorrebbe essere, dove non riescono a emergere neppure queste tre storie che dal coro dovrebbero elevarsi e allo stesso tempo rappresentarle tutte.
La stoffa c’è e il punto di partenza interessante, ma come ci ha ormai abituati Gianfranco Rosi, per far coesistere al cinema la verità della documentazione e la verosimiglianza della narrazione ci vogliono veri colpi d’ala di lirismo. Cinematografico!

data di pubblicazione 3/10/2016


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