L’amore e la tenerezza passano attraverso il complemento oggetto di “alcune rose”, l’eredità delle Madri attraverso un dativo di possesso. Mia madre, di Nanni Moretti, è un film che lascia nello spettatore un senso poetico di gratitudine: per un racconto tanto personale che però ha il coraggio e la capacità di non chiudersi e ripiegarsi in una nostalgia retorica e ammiccante, di non spingere l’acceleratore sull’emozione spicciola, ma di raccontare l’inadeguatezza umana di fronte alla vita, al dolore, e anche alla sua messa in scena. Margherita, regista impegnata nelle riprese del film Noi siamo qui, dispensa ai suoi attori, da anni, lo stesso suggerimento: mettiti a lato del tuo personaggio. Ma se lei stessa e gli attori che dirige non sembrano cogliere a pieno il senso del messaggio, a metterlo in pratica è proprio lo stesso Moretti, che si mette a lato del personaggio che qui lo incarna: gli occhi blu e la specificità femminile di Margherita (la Buy), appunto, di cui Nanni diventa il fratello Giovanni. E la scelta è più che felice. Margherita si fa megafono di ciò che Nanni ha da dirci: mi dà fastidio la retorica. Quelle frasi non sono vere e non servono a nessuno. Il regista è uno stronzo a cui permettete di fare di tutto. Ma i messaggi di Nanni passano anche attraverso i dialoghi del film che si sta girando: anche sforzandosi, lei non riuscirà a capire cosa significa per noi questo lavoro, dice Vittorio (Enrico Ianniello) al Barry Haggins interpretato da un magnifico Turturro, che balla (scena memorabile!), si dimena nel suo personaggio, ingabbiato nella finzione del cinema americano che rappresenta e che lo fa urlare: riportatemi nella realtà. Nanni non risparmia le critiche anche a sé stesso, e al cinema che rappresenta, soprattutto per l’incapacità di cogliere e raccontare una realtà che è fatta anche di operai con le sopracciglia depilate. I riflettori, inoltre, sono puntati alla difficoltà umana e personale di conciliare un set di finzione con il dolore dell’esistenza che porta a vedere la madre, interpretata dalla grandissima Giulia Lazzarini, incapace di ritrovare le parole giuste dopo tanto aver aiutato le generazioni in veste di insegnante, a trovare quelle stesse parole sul vocabolario dell’esistenza, passando per il latino. Che fine farà quell’eredità, quella cultura, tutto quel lavoro (e quindi, poi, anche il nostro)? Un meraviglioso finale dà una risposta che non è consolazione, ma scelta di vita. E ci regala emozione vera. Grazie Nanni.
data di pubblicazione 20/04/2015
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Si resta sempre sconcertati dal credito (sovente dall’entusiasmo acritico) che Moretti continua ad avere presso critica(certa) e pubblico(certo). La forma autobiografica (ma non solo) – più o meno esplicita – abbisogna di una narrazione che riesca a dare a personaggi e situazioni quella “tipicità” – per dirla con il buon, e forse un pò dimenticato, Lukàcs – che faccia evitare l’appiattimento in un Individuale che non diventa eco di una dimensione più ampia (che può essere di ordine sociale o psicologico). Si resta allibitì dalla superficialità e banalità narrative del regista (che continua anche a spacciarsi per attore), di una vicenda in cui le due storie (quella, ennesima, del regista in crisi e quella familiare che resta invischiata in osservazioni di una cronaca familiare sentimentalistica che non si fa storia). I dialoghi e le solite idiosincrasie (nei contenuti e nella forma) morettiane confermano l’eterno dilettantismo dell’autore. Non sembri svalutativo dare a Moretti del dilettante, perchè anzi la consapevolezza di esserlo (da parte dell’interessato e dei suoi estenuanti ammiratori) ne farebbero un regista rispettabile. Dilettante, secondo l’adagio chapliniano (siamo tutti dilettanti, non cresciamo abbastanza per diventare di più: “Luci della ribaltà”).(Questa non è una recensione critica. la quale comporterebbe un maggior e pacato ragionamento).