Le montagne fredde e innevate dell’Albania. Una bambina rimasta orfana salvata da un uomo in grado di divenire la sua finestra sul mondo e, al tempo stesso, le sbarre che le impediscono di prendersi il mondo pulsante al di fuori di quella finestra. È un misto di Georgie e Lady Oscar la piccola Hana, la quale, crescendo, assume i lineamenti mascolinamente femminili di Alba Rohrwacher e carica sulle sue gracili spalle il peso di quella roccia che a un certo punto “sceglie” di diventare. In una società retta da un modello familiare e sociale integralmente e incondizionatamente patriarcale la donna non può davvero scegliere. Non può bere, non può contraddire, non può fumare, non può essere libera (anche solo di non essere qualcosa di chiaramente definito). L’alternativa è scendere dalle montagne e lasciarsi trascinare via dalle onde del mare, come fa Lila, la sorella di Hana, schivando la pallottola del matrimonio combinato che vorrebbero piantarle nel cuore; oppure restare, come fa Hana, invocando la tutela offerta dal Kanun, legge non scritta eppure in grado di assumere quella forza di indiscussa e indiscutibile inderogabilità che solo le leggi non scritte sono in grado di vedersi riconosciuta senza bisogno di tribunali e di sentenze. Hana giura di restare vergine. Che vuol dire non solo rinunciare alla propria sessualità, ma anche al proprio nome, al proprio corpo, alla propria pelle, al proprio sguardo. Quando entrambi i genitori muoiono, quando sulle montagne la neve inizia a sciogliersi, Hana “sceglie” però di scivolare a valle. Di cercare sua sorella. Di allentare gradualmente la pressione di quella fascia che le comprime il seno. Di specchiarsi nelle acque di una piscina capace di tenere a galla i corpi (e le anime) più diversi. Di sorridere di fronte a quelle parole “mai dette e scritte male” che proiettano la sua vicenda particolare sul più ampio schermo di una, per dir così, “condizione femminile” capace di andare ben oltre i confini segnati dai monti albanesi.
Una storia indubbiamente potente, ispirata al romanzo omonimo di Elvira Dones e che segna l’esordio cinematografico di Lucia Bispuri, tenuta a battesimo dalla buona accoglienza riservatale all’ultimo Festival di Berlino. Sebbene il messaggio e la “morale” si rivelino, almeno a tratti, didascalicamente esibiti, lasciando in troppo evidente superficie l’avvio di una complessa e per nulla scontata metamorfosi, Vergine giurata resta un film armoniosamente composto nella convincente alternanza spazio-temporale che scandisce il racconto, con un’essenzialità dei dialoghi tesa a valorizzare l’eloquenza delle immagini e la dinamica fissità dello sguardo di Alba Rohrwacher, costante e rassicurante certezza del cinema italiano degli ultimi anni (Coppa Volpi all’ultima Mostra del Cinema di Venezia per Hungry Hearts di Saverio Costanzo).
data di pubblicazione 23/03/2015
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