SPEAK NO EVIL di James Watkins, 2024

Louise e Ben Dalton, americani residenti a Londra per motivi di lavoro, sono in vacanza in Toscana con la figlia Agnes, afflitta da disturbi d’ansia. Socializzano con un’altra coppia, Paddy e Ciara, anche loro genitori di un bambino – il piccolo Ant – stranamente chiuso e silenzioso. Trascorrono dei bei momenti insieme, cercando di recuperare un rapporto in crisi. Tornati a casa, e ai problemi quotidiani, decidono di accettare l’invito dei nuovi amici, per un week end di relax nella campagna inglese in compagnia di questi. Gli sconosciuti, però, hanno un lato oscuro, che lentamente verrà a galla. Inquietanti verità saranno svelate, in un climax di tensione inarrestabile, fino allo shock finale.

 

Gæsterne. “Ospiti”. È il titolo dell’originale horror danese al quale il film americano è ispirato. Parola chiave dall’etimo duplice, che definisce tanto chi dà ospitalità quanto chi la riceve, questa mette a fuoco una singolare quadriglia – due coppie contrapposte in modo speculare – in una sorta di danza sempre più macabra.

È la storia di un’amicizia nata troppo in fretta, accordata reciprocamente, complice una spasmodica ricerca di nuove esperienze e di contatti umani non virtuali. Abbracci che vanno oltre il semplice shaking hands squisitamente britannico. Grandi sorrisi e sonore risate. Una apparente solidarietà cameratesca tra uomini, uno spiccato istinto di “protezione” mostrato dalle due donne. Corpi che si denudano all’improvviso per tuffarsi in acqua senza pudore (o quasi) e senza paura. Confidenze premature sulla vita di coppia, confessioni intempestive su fantasie o apatie sessuali, a seconda del caso. Fame di condivisione, insomma. Una fame massiccia, che materialmente (e metaforicamente) affiora, nei pasti consumati insieme, attorno alla stessa tavola. Ragione per cui l’atto di nutrirsi rimanda spesso a una bestialità primitiva e persino a una sorta di cannibalismo latente (l’oca di famiglia, allevata nella fattoria e dotata persino di nome proprio, sarà sacrificata “in onore” degli ospiti e servita con una spremuta color rosso sangue di arance siciliane). Una fame che vorrebbe saziarsi, dunque, anche di “carni” da divorare. Fin troppo evidente l’imbarazzo di Louise (Mackenzie Davis) – dichiaratamente vegetariana – che fingerà di ingoiare il boccone, per poi rigettarlo nascondendolo nel palmo della mano con un gesto furtivo. Evidente almeno quanto l’inettitudine del marito di lei, Ben Dalton (Scoot McNairy), incapace di imporsi o di far “sentire la propria voce”.

Di genuino, di vero, non c’è nulla. Tutta la prima parte del film e buona parte della seconda si fondano su questa arte del simulare (o del dissimulare), su questo fingere di “mandare giù il boccone”. Che si fa via via più amaro (per coloro che sono “ospitati”, soprattutto), dapprima per quella condizione di “cortesia dovuta” che rende schiavi di certe convenzioni sociali, poi anche per sudditanza psicologica e per eccesso di prudenza, per viltà malcelata. L’unico rapporto autentico è quello che si instaura tra i due bambini, Ant ed Agnes (interpretati dal piccolo Dan Hough e dalla giovane Alix West Lefler), sebbene inficiato dall’impossibilità di comunicare verbalmente. Ant non ha la lingua per parlare, e quando tenta di scrivere lo fa in un idioma incomprensibile alla bambina (anche lui sarà costretto ad “ingoiare” il pezzetto di carta contenente il suo messaggio, affinché non venga intercettato). Solo certe immagini potranno sopperire all’inefficacia delle parole, svelando pienamente l’orrore. Un orrore che tarda ad arrivare, lasciando per lungo tempo allo spettatore l’illusione che, forse, non giungerà mai. Che magari finirà per essere addomesticato da un buonsenso comune. O ancora, che si scioglierà in quelle grida a cielo aperto prodotte dai due maschi (quasi due primati urlanti), con funzione “liberatoria”. I due uomini, protagonisti della storia, appaiono qui quasi alleati, ancorché profondamente diversi. E soltanto alla fine, manifestamente nemici. Particolarmente significativo – per ironico contrasto – è il nome del protagonista Paddy, paronimo del comunissimo ed innocuo Buddy (in inglese, “amico”). Presenza scenica che incombe, costantemente sopra le righe, la sua è una figura minacciosa senza mai risultare inquietante fino in fondo. I suoi gesti assumono quasi sempre i tratti di una burla, talora persino di una provocazione infantile (Mostramelo! Mostrami amore!). La sua risata è uno sberleffo alla vita, le pupille appigliate a quel filo doppio (scala o fune) che morbosamente lega vittima e carnefice, fino all’assedio finale.

Non è uccidere, lo scopo ultimo, ma l’atto stesso di far abboccare il pesce all’amo. Per ricreare a forza un legame da sempre negato, una condivisione a qualsiasi costo. “Do you feel the same?” – provi le stesse cose? – canterà lui, in uno dei momenti più drammatici, con la voce rotta e la ferocia negli occhi, sulle note di una dolcissima melodia (Eternal flame di The Bangles), superbo contrasto di toni. Spicca tra tutte la straordinaria interpretazione di James McAvoy, troppo istrionico, in realtà, per incutere vero terrore. Risultando comunque efficace, ben calato nel ruolo controverso e senz’altro non facile del cattivo. Nella finzione cinematografica, uno dei tanti cattivi. “Che poi così cattivi non sono mai”.

data di pubblicazione:16/09/2024


Scopri con un click il nostro voto:

3 Commenti

  1. Bellissima recensione che anche ad una sola visione riesce a leggere “tra le righe” tutti i trucchi e le sottigliezze di una sceneggiatura molto ben fatta… benchè molto “cattedrattica” direi da manuale di sceneggiatura. Grazie per la recensione

  2. Un film intrigante, presentato in modo arguto.
    Davvero notevole l’osservazione dei dettagli che caratterizzano le relazioni/contrapposizioni fra i personaggi.

  3. Sempre interessante leggerti, grazie Daniela.

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Ricerca per Autore:



Share This