Di Starnone non si butta via niente. Paragone irriguardoso, come per il maiale. Un romanzo, uno spettacolo teatrale, un film, mancherebbe solo una serie a puntate su Netflix, un prequel o un sequel. Ma il prodotto cinematografico seppure non originale è di prima qualità con un regista che non ha mai banalizzato un testo
Un plot quasi bergmaniano. Storia di un tradimento che spacca una vita e una famiglia. Fantasmi che ritornano nel continuo avvicendamento tra presente e passato. Il gioco a quattro degli attori richiede un po’ di comprensione e di sensibilità. Per immaginare che la Rohrwacher diventi la Morante e Lo Cascio mutui nei panni di Orlando. Concessa questa licenza cinematografica comunque ci si emoziona per vicende in cui tutti sono passati e che il regista manovra con mano necessariamente drammaticamente pesante stante la delicatezza dei sentimenti e i traumi dell’addio. Più facile il riconoscimento dei figli quaranta anni dopo. Si fa però fatica a riconoscere Giovanna Mezzogiorno, vistosamente ingrassata anche in viso, sorella di Adriano Giannini, autrice di uno strappo violento con i genitori. A distanza di troppo tempo? La base di Starnone è un confortevole punto di partenza per una sceneggiatura che ha buon gioco ad appoggiarsi a duetti di stampo teatrale grazie anche alla felice vena sinergica degli interpreti. Si rimane un po’ con l’amaro in bocca ma l’happy end non è più di moda. E si riconferma l’adagio che tutte le famiglie sono infelici ma ciascuna a suo originale modo. Felice la ricostruzione dell’ambiente intellettualino che ruota attorno a Rai Tre e al suo particolare mood. Le donne sono fisionomie azzeccate forse più degli uomini anche se gli autori sono tutti al maschile. Tra Roma e Napoli viaggiano umori ma soprattutto dissapori che a tratti si manifestano con violenza. Ma più sottile è ancora la violenza psicologica alla fine di un matrimonio che si riversa nella difficile gestione dei figli.
data di pubblicazione:11/10/2020
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