(Teatro Eliseo – Roma, 8/19 Marzo 2017)
Peripatetico fatiscente sulla via del decadimento, narra storie partenopee dalla sua gabbia di cemento.
“Dicitencello vuje ca nun mma scordo maje. E’ na passione, cchiù forte ‘e na catena, ca mme turmenta ll’anema e nun mme fa campá!” è il grido straziante che emana la radio; parole scritte da Enzo Fusco per la canzone “Dicitencello vuje”: canto disperato di un innamorato nei confronti della donna amata. Non è l’unico lamento che si sente nei Quartieri Spagnoli, anche l’androgino Scannasurice racconta mestamente le storie del suo quartiere, della sua città, mentre si inerpica negli stretti cunicoli dell’antro in cui vive, cercando al contempo di vestirsi prima di vendere piacere al corpo altrui.
In questo ambiente marcio, dove non c’è redenzione, Imma Villa si esprime in modo autentico, viscerale, e si fatica a credere che una volta tolta la maschera ci sia un’attrice dietro i costumi indossati.
Non si hanno invece dubbi sull’incredibile talento di Roberto Crea, che attraverso la realizzazione delle scene riesce sempre a sbalordire, consentendo allo spettatore di assistere a sculture teatrali interattive. In questo caso riempie l’intero palcoscenico con la sezione tagliata del palazzo decrepito abitato da Scannasurice, consentendo così di vedere all’interno dello stesso: abiti lerci, rimasugli di rifiuti, bottiglie di vino semivuote popolano l’abitazione: una tana sotterranea in cui l’attrice si muove strisciando come un topo (“surice”) e da cui proviene l’eco quando si insinua negli anfratti più buî. Allora il reticolato fitto di travi, che costituisce la struttura alla palazzina, non è altro che la grata di un tombino, da cui si può osservare una vera e propria cloaca.
Il suono ridondante proveniente da questo ambiente è reso ancor più tondo e avvolgente dal dialetto napoletano, utilizzato durante tutte la pièce. Se la scelta di mantenere la lingua napoletana appare più che giustificata dalla natura dello spettacolo, non si può condividere la mancanza di sottotitoli (nonostante la velocità del monologo) che consentano a tutti gli spettatori di comprendere lo svolgimento della rappresentazione. Al termine della stessa si rimane perciò indubbiamente estasiati dalla mimica e gestualità dell’attrice, dalla forza espressiva della scenografia, dalle musiche dolcemente malinconiche di Paolo Coletta; ma con un vuoto incolmabile riguardo a quanto accaduto. E una volta venuti a conoscenza della sinossi, si ha invece il rimpianto di non aver potuto assaporare appieno la messinscena – spettacolo che peraltro ha ricevuto nel 2015 il premio della critica (e viene da pensare che tutti coloro che l’hanno giudicato abbiano radici partenopee o conoscano bene il dialetto di quella zona).
La traduzione di certo non potrebbe restituire a pieno tutte le nuance sottese all’opera – e sarebbe anche difficile da seguire, vista la velocità delle battute (su ciò si condivide quanto detto da A. Tabucchi “La traduzione non è l’opera, ma un viaggio verso la stessa”) – però consentirebbe ad un pubblico maggiore di apprezzare Scannasurice.
data di pubblicazione:10/03/2017
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